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Il ruolo delle parti sociali.

Come sopra accennato, la legge attuativa prevista dall’art. 46 Cost. non venne però approvata e la partecipazione dei lavoratori all’impresa negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione trovò ostilità sia da parte datoriale che delle organizzazioni sindacali.

Gli imprenditori che, “animati dall’idea della ripresa produttiva e della solidarietà

nazionale” (261), inizialmente si erano mostrati favorevoli ad uno sviluppo dei consigli di gestione e delle pratiche partecipative, iniziarono, invero, a reclamare le proprie prerogative manageriali. I sindacati invece, non condividendo le regole del sistema capitalistico, non vollero in alcun modo contribuire a rafforzarlo.

Le relazioni industriali assunsero dunque una dimensione conflittuale e l’unico strumento adottato dalle associazioni sindacali per intervenire sia a livello aziendale che macroeconomico divenne la contrattazione collettiva.

Nei rinnovi contrattuali del 1961-1962 si iniziarono dunque a diffondere meccanismi di quella che è stata definita “partecipazione debole”, basata sulla previsione di diritti di informazione e consultazione dei lavoratori per determinare i premi di produzione e il sistema del cottimo, senza che questi venissero però generalizzati.

La contrattazione collettiva condusse in questo modo ad una progressiva erosione dei poteri del datore di lavoro, anche con la previsione di esami congiunti, realizzando una forma di partecipazione definita antagonistica o conflittuale, in opposizione all’altra, detta collaborativa.

Con lo Statuto dei Lavoratori del 1970 la presenza sindacale nell’impresa venne poi istituzionalizzata, ma i sindacati mantennero un ruolo rilevante solo nelle rivendicazioni relative alle tematiche dell’organizzazione del lavoro, della sicurezza sul lavoro e del salario.

A partire dai rinnovi contrattuali del ’76, poi, venne codificato nei Contratti Collettivi

260

In senso contrario, G. ADDESSI, Articolo 2349 c.c.: azioni ai dipendenti?, in Riv. soc., 1985, p. 1255 ss., P. SCHLESINGER, op. cit.

261

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Nazionali di Lavoro un sistema di informazione e consultazione su investimenti ed occupazione (262).

A tali precoci aperture verso le forme deboli di partecipazione, non si affiancò però un eguale appoggio delle parti sociali per le forme di partecipazione finanziaria e di partecipazione alla gestione dei lavoratori all’impresa, che, anzi, venne spesso ostacolata sia dalle organizzazioni di imprenditori che dai sindacati maggiori. I primi temevano infatti che una diffusione dei modelli partecipativi avrebbe determinato una diminuzione dei loro poteri gestori e la rivendicazione di funzioni decisionali da parte dei dipendenti – azionisti; i secondi paventavano invece una riduzione delle loro prerogative di tutela del lavoratore, direttamente coinvolto, ed un aumento del rischio in capo a quest’ultimo.

La preoccupazione che il possesso di azioni della società da parte del dipendente spostasse l’interesse dello stesso in una direzione differente da quella collettiva proposta dal sindacato fece sì che l’istituto fosse, se non osteggiato, comunque ignorato dal movimento sindacale.

Tutto ciò fu acuito anche dalla prevalenza, nell’esperienza italiana, di un sistema “a canale unico” di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, nella quale la diffusione di meccanismi partecipativi, con l’eventuale elezione di rappresentanti dei lavoratori slegati dalle associazioni sindacali, avrebbe potuto ridurre le prerogative negoziali delle stesse (263).

Le posizioni assunte dalle diverse organizzazioni sindacali furono e sono però differenti: se la CGIL è sempre stata la più critica alle forme di commistione del lavoro con il capitale (264), la CISL sin dagli anni Ottanta ha aperto la discussione sindacale al

262

G. LEOTTA, Partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, in Dig. Disc. Priv., Sez. Comm., UTET, Torino, 2007.

263

Nel sistema “a doppio canale” nella medesima impresa coesistono due organismi, uno di rappresentanza generale di tutti i lavoratori anche se non iscritti al sindacato, eletto dagli stessi e con funzioni di consultazione e partecipazione, e l’altro associativo, che riproduce nei luoghi di lavoro la struttura di rappresentanza su base volontaria dei sindacati esterni, con potere negoziale. Nel sistema a canale unico, invece, sia all’interno che all’esterno dei luoghi di lavoro vi è un unico organo di rappresentanza sindacale/associativa che cumula tutte le funzioni. Cfr., sul punto, G. GIUGNI, op. cit., p. 77.

264

In un documento del 2001 il sindacato affermava infatti: “Noi non siamo mai stati convinti della teoria

che la forma ideale di partecipazione azionaria sia quella di legare in una sola impresa non solo il salario, ma anche parte del proprio capitale di risparmio. È un rischio troppo alto” (FILT-CGIL

Dipartimento Economico Ufficio Studi, La partecipazione dei lavoratori alle attività e alla gestione delle

imprese, 2001, in www.cgil.bg.it), ritenendo che una diversificazione degli investimenti nel capitale di

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tema della partecipazione azionaria (265), sia in forma individuale che collettiva, per il tramite di associazioni di azionisti, Sicav e fondi pensione (266). Intermedia tra le due ricordate è invece stata la posizione assunta inizialmente dalla UIL, con una crescente attenzione per il fenomeno della partecipazione finanziaria dei lavoratori, considerata mezzo per influire sulle decisioni di impresa (267) e strumento utile a migliorare il governo societario, mediante l’adozione di strategie più attente al lungo periodo e agli interessi degli stakeholders dell’impresa (268).

ha comunque affermato di non stimare “del tutto impercorribile la possibilità di un azionariato anche di

tipo aziendale”, a condizione che in esso non sia rinvenibile alcun collegamento con la democrazia

industriale, ma una mera opportunità offerta al lavoratore nella sua veste di risparmiatore (FILT-CGIL Dipartimento Economico Ufficio Studi, La partecipazione dei lavoratori alle attività e alla gestione delle

imprese, 2001, in www.cgil.bg.it).

265

Tale posizione è rimasta coerente negli anni: nel 1997 si è fatta promotrice di un disegno di legge che predisponeva regole certe per lo sviluppo dell’azionariato dei dipendenti; al 1999 risale la proposta di disegno di legge riguardante “Misure agevolative per l’azionariato dei dipendenti e per il mercato di

borsa”; nel marzo 2000 la relazione introduttiva del Convegno CISL dichiarava che la partecipazione al

capitale d’impresa “è la via per la partecipazione al processo decisionale, è il fatto che alimenta la

trasformazione del capitalismo dall’azienda a conduzione familiare ad azionariato diffuso”(Convegno

CISL su Il modello partecipativo come fattore di sviluppo economico e di cambiamento delle relazioni

industriali, in Conquiste del lavoro, 23 marzo 2000). Nel 2009, poi, Petriccioli dichiarava fosse

necessario sgombrare il campo “dall’equivoco che la partecipazione possa eliminare il conflitto

industriale, riducendo la capacità di lotta sindacale o che arrivi a modificare, tramite l’accesso dei lavoratori alle quote del capitale sociale, la natura stessa del loro rapporto con l’impresa. La detenzione di quote del capitale dell’impresa da parte dei lavoratori dipendenti non modifica la natura dell’organizzazione del lavoro, ma rafforza il rapporto personale tra il lavoratore e l’impresa” (M.

PETRICCIOLI, La Partecipazione Finanziaria dei Lavoratori in Italia e nella UE-27, Conferenza Internazionale sulla Partecipazione finanziaria dei lavoratori in Italia e nell’Unione Europea tenutasi a Roma il 29 ottobre 2009, Roma, 2009, in www.cisl.it). La CISL ritiene dunque che la partecipazione non elimini il conflitto, ma tolga ad esso il carattere di antagonismo finalizzato allo scontro, per portarlo ad un dialogo che può realizzarsi in una pluralità di forme partecipative. In quest’ottica la partecipazione finanziaria dei lavoratori all’impresa può “democratizzare” la stessa, contribuendo alla determinazione di un modello di capitalismo differente da quello tradizionale per obiettivi di profitto, ricapitalizzazione delle imprese, compatibilità sociali ed ambientali.

266

M. PETRICCIOLI, La Partecipazione Finanziaria dei Lavoratori in Italia e nella UE-27, Conferenza Internazionale sulla Partecipazione finanziaria dei lavoratori in Italia e nell’Unione Europea tenutasi a Roma il 29 ottobre 2009, Roma, 2009, in www.cisl.it: “Su questi principi va costruita una vera e propria

cultura sindacale che prenda definitivamente consapevolezza e coscienza delle straordinarie opportunità di un modello di relazioni sindacali di tipo partecipativo. Un modello che consente di regolare il conflitto industriale, incanalandolo verso un sistema di regole e buone pratiche fondate sul dialogo, e realizzate attraverso una costanza di relazioni, e di accordi collettivi”.

267

L. SANTINI, Il valore della partecipazione, a cura del Servizio Democrazia Economica, Roma, 2006, in www.uil.it: “Il coinvolgimento dei lavoratori è, a nostro avviso, un elemento prezioso, in questo senso,

per il successo di una impresa. Ed è questa convinzione che ci spinge a richiamare sempre l’attenzione sullo sviluppo della sua applicazione. L’influenza dei lavoratori alla scelte delle imprese può essere un forte elemento di trasparenza di cui tutti oggi sentiamo il bisogno oltre a rappresentare un elemento importante per l’innovazione del nostro sistema industriale”.

268

L. SANTINI, Il valore della partecipazione, a cura del Servizio Democrazia Economica, Roma, 2006, in www.uil.it: “Se una azienda porrà in cima alle sue priorità la sola massimizzazione del valore degli

azionisti, magari favorendo operazioni finanziarie a breve termine a quelle tradizionalmente economiche, è evidente che l’impatto sociale che ne scaturirà non potrà che essere negativo in quanto improntato alla compressione del costo diretto ed indiretto del lavoro o degli oneri connessi alla tutela dell’ambiente”, in

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Quanto al mondo imprenditoriale, lo scetticismo inizialmente dimostrato (269) si è confermato anche negli anni più recenti (270), per quanto un Autore distingua le posizioni assunte da Confindustria da quelle degli imprenditori di mano pubblica, generalmente favorevoli alla partecipazione dei dipendenti al capitale dell’impresa (271). Confindustria ha, in particolare, rappresentato la propria preoccupazione per il ruolo del sindacato nella rappresentanza degli interessi dei dipendenti – azionisti, sostenendo che “l’organo di rappresentanza degli azionisti-dipendenti non dovrebbe coincidere con il

sindacato che, avendo obiettivi e funzioni diverse, potrebbe trovarsi in conflitto di ruolo. Questo soprattutto per la necessità di indipendenza del sistema decisionale d’impresa rispetto a istanze che non sono pertinenti allo status di azionista di minoranza, bensì a quello di dipendente, onde evitare che si strumentalizzi la partecipazione per obiettivi di rivendicazione della forza lavoro” (272).

Gli interventi delle associazioni sindacali a sostegno dell’azionariato dei dipendenti,

quest’ottica “Il coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte operate dalle imprese diviene quindi il volano

su cui sviluppare i processi riorganizzativi necessari alla nostra economia per uscire dall’impasse in cui si trova impantanata”.

269

Nel 1946, riferendosi ai Consigli di gestione, Confindustria dichiarò di “dover esprimere un parere

nettamente contrario all’istituto ed alla possibilità di una sua concreta applicazione, non solo in quanto esso non attuerebbe alcuno degli scopi che ne attendono i suoi fautori, ma comprometterebbe irrimediabilmente l’efficienza della nostra economia, impedirebbe il riassetto dell’industria e costituirebbe, infine, un elemento deleterio per la pace sociale” (S. LEONARDI, op. cit., p. 487). Sebbene tale affermazione si riferisse ad un istituto specifico e ad un particolare momento storico, l’idea di fondo è rimasta la stessa negli anni successivi e le uniche indicazioni riguardanti l’azionariato dei dipendenti si limitano ad una realizzazione dello stesso priva di “ogni velleità di cogestione” (E. GHERA, op. cit., p. 436).

270

In un’audizione alla Camera dei Deputati del 5 febbraio 2003, Confindustria ha dichiarato di ritenere che la partecipazione dei lavoratori al capitale dell’impresa abbia un senso in quanto possa migliorare la loro sensibilità alla performance della stessa, ossia in quanto i piani di azionariato dei dipendenti siano costituiti come meccanismi di incentivazione. Ciò è possibile, secondo Confindustria, solo ove vi sia un nesso tra “un sistema di valutazione delle performance, un sistema di ricompensa basato sulle

performance, un sistema di ripartizione del potere decisionale” (www.confindustria.it); poiché, se il

dipendente è lontano dalla possibilità di influire direttamente sulla performance aziendale, anziché promuovere meccanismi incentivanti, si favorirà l’inclinazione degli stessi al free-riding, danneggiando la produttività generale dell’impresa. Per questi motivi si rivela contraria a piani generalizzati di azionariato dei dipendenti e li considera utili solo se rivolti a specifiche categorie di lavoratori. Allo stesso tempo piani di azionariato dei dipendenti rischierebbero di ridurre la contendibilità della società e aumenterebbero il rischio sopportato dal lavoratore che collocherebbe sia il suo capitale umano che il suo capitale finanziario nella stessa impresa. In un’audizione del 2004 Confindustria ha inoltre affermato di non approvare un’eventuale previsione legislativa che imponga modalità partecipative senza aver previamente ascoltato le opinioni delle parti sociali e che, in ogni caso, l’attuazione di modelli di partecipazione dei dipendenti al capitale e alla gestione dell’impresa dovrebbe sempre avvenire su base volontaria.

271

E. GHERA, op. cit., p. 436.

272

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fino alla svolta avutasi con l’Avviso Comune del 2009 (273), proprio per le loro divergenti e talvolta ambigue opinioni sull’istituto, sono quindi stati limitati ad ipotesi di crisi o ristrutturazioni aziendali e di ricapitalizzazioni, trovando un momento di incontro solamente in occasione del processo di privatizzazione delle imprese pubbliche avvenuto negli anni Novanta.

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