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Daria Ridolfi e Luisa Tosi

Nel documento della Cooperazione Educativa in Italia (pagine 195-200)

A corredo di quanto appuntato nel precedente capitolo può essere interessante riportare le testimonianze di due figure particolarmente significative nel percorso di sperimentazione e ricerca del Movimen-to. La maestra torinese Daria Ridolfi e la Direttrice Didattica trevi-giana Luisa Tosi. Si tratta di due memorie su Giuseppe Tamagnini e la sua opera a Frontale inviatemi – su mia richiesta – a seguito della sua scomparsa nel 2002.

Per me tutto era una scoperta

“Professionalmente sono nata a Frontale attorno all’anno 1965, in esta-te. Ma l’incontro con il MCE lo ebbi la prima volta a Castiglioncello, nell’incontro di novembre53. Fiorenzo e io fummo informati dell’ini-ziativa e partimmo da Torino. Incuriosita, totalmente ignara del Mo-vimento, mi presentai all’appuntamento. E lì ebbi il colpo di fulmine!

Mi trovai bene accolta, in un contesto di operosità, di collaborazione che neppure immaginavo a quel livello.

Conobbi Pino e Giovanna Tamagnini, Mario Lodi, Luisa Tosi e mol-tissimi altri. Mi pare che Bruno Ciari fosse assente perché in quei giorni gli era nata la figlia Nicoletta.

Avevo già l’esperienza di cinque anni di scuola in piccoli plessi di provincia e di due alla Nino Costa di Torino che poi fu la ‘mia’ scuola per 35 anni.

Proprio lì mi ero accorta che per lavorare in quel contesto umano dif-ficilissimo (le classi erano molto numerose, i ragazzi erano sofferenti e

53 Si riferisce al convegno annuale MCE, svoltosi a Castiglioncello (in provincia di Livorno) nel 1963, finalizzato all’approfondimento dell’attività didattica.

in difficoltà perché provenienti in gran parte dal Sud spinti da proble-mi gravi – era quella la prima grande improble-migrazione a Torino; nelle classi c’erano anche molti bambini istriani, con le loro ansie e le loro difficoltà), gli strumenti professionali che avevo a disposizione non mi sarebbero stati sufficienti.

Alla Nino Costa occorrevano strategie didattiche ben più ‘potenti’.

Ecco perché l’incontro dell’MCE a Castiglioncello mi segnò.

Ero andata alla ricerca di aiuto per affrontare meglio i miei problemi di ogni giorno.

C’era una forte motivazione a stare con altri altrettanto motivati e disponibili a mettere in comune difficoltà e conoscenze.

L’impatto con Castiglioncello mi aveva soddisfatta e così l’anno dopo andai a Frontale.

E così l’estate successiva.

Ero lì per imparare, nessuno mi ci aveva mandata, era una mia scelta precisa.

Rividi Pino e Giovanna Tamagnini.

Non tenevano lezione, offrivano accoglienza nella loro casa che era or-mai un laboratorio.

In quel contesto così calmo e sereno, si conversava, ci si confrontava, si studiava, si lavorava con la fantasia e anche con le mani.

E Pino era sempre con noi e ci incoraggiava, ci stimolava, ci dava delle indicazioni per i nostri lavori.

Per me tutto era una scoperta.

Ero in un mondo che non conoscevo, che non immaginavo esistesse. Dal MCE non mi allontanai più.

Le tecniche Freinet: una finestra su un paesaggio meraviglioso. Inco-minciavo a conoscerle.

Come sarebbe cambiato il mio lavoro quando a scuola avrei incontrato i bambini?

Il testo libero: non sapevo che il tema, scritto dai ragazzi su precise indi-cazioni del maestro, potesse essere sostituito da una così bella operazione di comunicazione, di uso del linguaggio vivo e non stereotipato - ecc.

ecc. Si scrive per comunicare e non per eseguire un ordine (il compito!).

Il limografo mi incantò: si riproducevano le composizioni dei ragazzi per spedirle a chi veramente le aspettava e aveva voglia di leggerle. E

l’uso della tipografia: quante scoperte, quanti stimoli forniva.

La matematica: vidi per la prima volta i numeri in colore, il materiale del cambio, ecc. ecc.

A Frontale tutto per me era esperienza esaltante e costruttiva. Ne venivo segnata sul piano personale e professionale.

Questo modello di vita cercai di trasferirlo a scuola.

Fiorenzo Alfieri ed io lavoravamo insieme.

Attraverso l’esperienza di Frontale, la lettura di “Didattica Operativa”

e di altri testi MCE, l’incontro con amici che lavoravano all’interno di gruppi MCE, costruimmo quella base che poi negli anni ci portò a immaginare il tempo pieno e a farlo nascere nella nostra scuola, e così fu per i laboratori, il superamento dei libri di testo, la valutazione alter-nativa. Nella nostra scuola stavamo introducendo qualcosa di rivolu-zionario. Introducevamo elementi di rottura in un contesto certamente non democratico e non culturalmente motivato.

In mezzo a mille difficoltà, poco alla volta, la scuola assunse visibilità, fu riconosciuta sperimentale ed attirò su di sé l’attenzione di molti (at-tenzione favorevole, negativa, di freno).

A darci forza, cultura, sostanza c’era il gruppo MCE, c’era il MCE nazionale, c’era l’amicizia e la cooperazione con tanti amici.

L’impulso allo sviluppo di tanto lavoro l’ho sempre riconosciuto all’espe-rienza compiuta a Frontale, alla sorpresa nel vedere la scuola di Coldi-gioco e, come è ovvio, allo stare nel MCE in modo assiduo e partecipe.

Pino Tamagnini, l’iniziativa sua e di Giovanna di mettere a disposizio-ne la loro casa di Frontale e di renderla laboratorio MCE fu, sul piano pedagogico, di un’importanza fondamentale.

Il modo di stare insieme e di lavorare a Frontale si cercò di trasferirlo a scuola e in classe.

Non più lezioni frontali ai maestri (nei momenti dedicati all’aggiorna-mento) e ai bambini in classe, bensì discussione, ricerca, confronto, ecc.

Pino l’aveva insegnato a Frontale animando le giornate di lavoro, coor-dinando le proposte, facendo, con noi, crescere progetti.

Ogni sera ci accorgevamo di dover proseguire nel giorno successivo l’at-tività iniziata perché ‘l’opera’ ci cresceva tra le mani ed era bello ripren-derla, svilupparla ancora. E così fino alla fine dello stage. Non si vedeva l’ora di ritrovarsi per riflettere e andare avanti.

Questo modello di lavoro ho cercato di trasferirlo a scuola.

Un lavoro che cresce perché lo sentiamo nostro, perché dentro ci mettia-mo l’anima, che ci gratifica e ci spinge a tornare in classe il giorno dopo è quanto di meglio possa essere dato a un maestro e a un bambino.

Ho avuto, come s’è visto in questa relazione, la fortuna di conoscere Pino Tamagnini. Gli ho voluto bene non soltanto per quanto mi ha insegnato, ma anche, o soprattutto, per quanto mi ha dato con la sua pazienza, la sua dolcezza, la sua capacità di comprendere le persone.

Accadde che per molti anni non rividi Giovanna e Pino. Li rincontrai nel 1997 durante il convegno MCE tenutosi a Torino. Fu per me una gioia infinita.”

Daria Ridolfi 54

Torino, 31 maggio 2003.

Una lingua completamente sconosciuta

“Mi sono avvicinata al Movimento quando già insegnavo ed ero alla di-sperata ricerca di un modo diverso di far scuola. Quel poco (o niente) che mi avevano insegnato alle Magistrali e che, comunque, era solo teoria, e quei miseri suggerimenti che avevo assorbito dalle zie maestre, mi propo-nevano una scuola fatta di classi e banchi, di maestre e teste da riempire, di nozioni da trasmettere più o meno bene, da recepire più o meno cor-rettamente, da rivomitare, nelle interrogazioni, più o meno esattamente.

Tutto ciò mi appariva ben povera cosa, nella sua monotonia, per la mia scuoletta di campagna: infatti era sufficiente ad ogni inizio d’anno, tirar fuori dal cassetto il vecchio diario di classe di cinque anni prima

54 Daria Ridolfi, (Torino, 1933), maestra in ruolo dal 1957 e in quiescenza dal 1994. Nel MCE dal convegno di Castiglioncello (1964), impegnata con F. Alfieri dal ’69 nella sperimentazione del T.P. alla scuola “Nino Costa” alle Vallette di Torino. Attiva nel MCE fa a lungo parte (anni 70-80) della redazione di “Cooperazione Educativa” e ha svolto ampia attività di formazione. Impegnata nel ‘gruppo lingua MCE’, coordinato prima da Tullio De Mauro e poi da Domenico Parisi.

Cfr., AA.VV., Valutare per conoscere (Cinque anni di ricerca in una scuola elementare), Ed. Il Mulino, 1983; AA.VV., Il libro di testo nella didattica moderna, Firenze, la Nuova Italia, 1969; MCE Torino, Per una nuova professionalità docente, Milano, Emme Edi-zioni, 1979; Imparare in che modo, idem, 1979; con G. Parena, Lingua e comunicazione nella scuola, Ed. Nicola Milano, 1976.

e, giorno dopo giorno, riproporre le stesse cose.

Elementare no?

Per me, quindi, sentir parlare di interesse, motivazione, ricerca, testo li-bero, discussione, calcolo vivente, scoperta, ipotesi, verifica … era come affrontare per la prima volta, una lingua completamente sconosciuta.

Avevo incontrato tutto questo tramite alcune amiche che avevano avuto la fortuna di essere state preparate al Concorso magistrale da una perso-na eccezioperso-nale: un attento pedagogista, uno stimato docente, un acuto studioso, un uomo dotato di carisma e di carica umana con notevoli capacità comunicative e relazionali, il prof. Ettore Luccini55. Con loro avevo scoperto il giornalino di classe, la corrispondenza, la stampa come tecniche metodologiche in grado di realizzare i fondamenti pedagogici di una didattica centrata sul bambino e sul suo apprendere più che sull’insegnante.

Di qui la mia curiosità di saperne di più: le letture su Freinet, l’abbo-namento alla rivista in cui mi affascinavano le cronache di Coldigico di Giovanna, le esperienze in città di Anna, le intuizioni felici di Bruno, le scoperte di Mario.

Poi ci fu il convegno di Castiglioncello raggiunto, Alda ed io, su una sgangherata 600 - era inverno e c’era in Val Padana una galaverna da incubo - che al ritorno ci lasciò a piedi a metà strada.

Al Convegno, che per me era il primo in assoluto a cui partecipavo (al-lora non esistevano certe possibilità di incontro né a livello locale né a livello più ampio) mi colpì la serenità del lavoro, la fatica ma anche la gioia della discussione e del dibattito, l’impegno che tutti mettevano in ogni cosa si facesse (laboratori, relazioni, lavoro di gruppo, produzione di documenti, ‘compiti per casa’, …) e … gli orari, che non esistevano semplicemente. Notte e giorno erano perfettamente la stessa cosa: una pura opinione. C’era sempre qualcosa in sospeso: concludere la relazio-ne, finire il documento, ridefinire i principali punti emersi … e Tama-gnini a tenere tutto sotto controllo.

55 Ettore Luccini (Genova, 21 giugno 1910 – Padova, 1978), definito ‘comunista socra-tico’, è stato docente di filosofia e storia in diversi istituti superiori a Treviso e a Padova.

Cfr., F. Tessari, In ricordo di Ettore Luccini, a 20 anni dalla morte, a Treviso la sua colle-zione d’arte, in “Materiali di storia”, n. 10, marzo-giugno 1998, pp. 2–5.

Ne fui entusiasta. L’estate successiva volli andare a Frontale.

Ancora io e Ada e la sgangherata 600 ad arrampicarci sopra quelle col-line che non avevo mai visto e di cui non supponevo neppure l’esistenza.

Mi colpì la dolcezza del paesaggio, il silenzio dei vecchi borghi, il fre-mito dei cipressi, la pace di un cielo sempre più luminoso e … la casa:

la solida, vecchia, funzionale casa costruita e adattata assecondando un preciso progetto di Pino Tamagnini; una casa per studiare e per lavorare, un posto per ospitare e costruire, uno spazio in cui parlare, inventare, confrontarsi, capire, imparare, insegnare, tentare, scambiare idee e progetti.

Se non ricordo male, questi incontri duravano una settimana in cui, allo studio e alla riflessione si alternavano i lavori in cucina, le pulizie, le passeggiate in mezzo a prati incredibilmente fioriti, il ‘filo’ a sera con le canzoni che ognuno tirava fuori dal suo personale repertorio.

Ricordo che mi ero portata appresso un quaderno in cui annotare, per mia memoria, la cronaca delle giornate di Frontale.

Dopo il primo giorno, il quaderno cambiò funzione diventando il con-tenitore di tutto ciò che riuscivo a ‘succhiare’ dagli altri e che presumevo, mi avrebbe aiutato ad insegnare meglio: c’erano dentro testi di canzoni, canti, filastrocche, ballate da insegnare ai bambini, giochi e spunti di discussione in classe, grammatica e testo libero, stampa e linoleogra-fia, la pittura di Armando56, il calcolo vivente e la corrispondenza … Pensavo felice che avrei avuto materiale sufficiente per insegnare lungo tutta la mia vita, ma … altri due giorni e il quaderno cambiò ancora funzione diventando un testo di pedagogia.

Mi ero accorta infatti che le bellissime tecniche che mi stavano affasci-nando per la loro vivezza, semplicità, originalità, efficacia, in realtà nascondevano al loro interno dei fili fittamente annodati con i quali erano tenute insieme. Il testo libero e il calcolo vivente, per esempio, erano collegati alla corrispondenza scolastica e al giornalino dalla moti-vazione profonda che ne garantiva la solidità pedagogica; la stampa, la

56 Trattasi del maestro di Ancona Armando Novelli che ha dedicato tutta la vita profes-sionale e poi in quiescenza, prima in classe poi nelle scuole e in una sede MCE nella sua città, tesa ad applicare prima e a far conoscere poi le ‘tecniche cooperative’. Cfr., R. Gia-comini, E. Monsù, (a cura di), Nicolino e la libertà: l’insegnamento rivoluzionario del ma-estro Armando Novelli, Ancona, Centro Culturale Marchigiano “La città futura”, 1995.

Nel documento della Cooperazione Educativa in Italia (pagine 195-200)