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Le difficoltà di avviare e condurre un’azione didattica innovativa

Nel documento della Cooperazione Educativa in Italia (pagine 121-136)

Agire nella scuola in un’azione d’innovazione laica e cooperativa negli anni cinquanta costituisce un’impresa quasi impossibile. Rap-presenta l’assedio e la rottura all’ordine costituito. Molteplici sono gli ostacoli: di natura culturale, di natura politica e istituzionale, di natura economica, di natura comunicativa.

Provenivamo da un ventennio dell’educazione alla sottomissione, all’appiattimento e all’annientamento della critica e della divergen-za. Dopo un primo sommovimento postbellico, dato dal clima di rivolta e di riscatto della Resistenza e animato dalle attese messiani-che del primissimo dopoguerra, il clima del cambiamento si smorza nel Paese e viene addirittura politicamente mortificato e perseguito istituzionalmente. Ciò è segnato in particolarmente dall’azione del Ministro degli Interni

“Mario Scelba41, che non nasconde un radicale disprezzo per il ‘cultura-me’, ossia per gli intellettuali non allineati, s’impegna in una lotta senza quartiere contro le sinistre, al qual fine concede amplissimi e incontrol-lati poteri alla polizia”42.

41 Mario Scelba, (Caltagirone, 1901 – Roma, 1991), parlamentare della Democrazia Cristiana dal 1946 al 1983, Ministro dell’Interno dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 e dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio1962, nonché Presidente del Consiglio dei Ministri dal 10 febbraio 1954 al 6 luglio 1955.

42 T. Tomasi, Scuola e Pedagogia in Italia 1948-1960, cit., p. 3.

In un Paese spossato e devastato dal conflitto le paghe degli inse-gnanti nel primo dopoguerra (e non solo) sono modeste, i mezzi di comunicazione (dal telefono alle ferrovie e alle automobili) sono an-cora costosi per contadini, artigiani e operai, e pure per gli insegnan-ti. Nella formazione della gerarchia scolastica vige una sottile sele-zione politica, culturale e confessionale e nella scuola dell’obbligo impera un controllo burocratico, operato da dirigenti ed ispettori, e talora anche dalla gerarchia ecclesiastica ad iniziare dai parroci. La scuola è dunque nel dopoguerra un ‘trasmettere, ripetere e giudicare per un allineare e selezionare’. Essa registra una forte dispersione scolastica e continua ad essere un soggetto attivo di appiattimento e selezione sociale.

L’azione del Tamagnini si deve misurare e confrontare con una se-rie di difficoltà: oltre a quelle personali di natura materiale ed econo-mica si trova a dover superare altri ostacoli e inconvenienti. Infatti:

“Di ben altra natura e ben più gravi furono quelle che dovemmo af-frontare per affermare il nostro diritto ad esistere ed il diritto di portare nella scuola un modo nuovo di concepire l’insegnamento. Dovemmo batterci contro tutti, eravamo circondati da un’ostilità preconcetta che, nel migliore dei casi, ci creava il vuoto intorno, quando non dovevamo subire attacchi diretti.

Qualche esempio: il provveditore agli studi di Pesaro a cui mi ero rivolto con l’intenzione d’informarlo di persona del lavoro che stavamo svolgen-do e del nostro primo congresso che era in programma, mi cacciò fuori dal suo ufficio gridando che lui aveva delle cose serie da fare. La collega Anna Fantini […], maestra di grande valore e di eccezionale sensibi-lità e capacità di lavoro, avviato il nostro esperimento fu trasferita in altra sede nel corso dell’anno, le fu abbassata la qualifica43 e le fu tolto

43 Va ricordato che fino all’entrata in vigore della legge di riforma n. 477 del 1973 - che ha introdotto il nuovo Stato giuridico del personale della scuola - era in vigore la valutazione annuale con le ‘note di qualifica’ da parte del Dirigente scolastico (a quel tempo Direttore didattico o Preside) per ogni insegnante, in base alle quali si poteva o meno accedere al concorso per l’eventuale anticipo nella progressione della carriera economico-professionale.

l’insegnamento religioso. […] Cose del genere capitavano a Firenze a Pettini ed a Pescara a Raffaele Laporta: eravamo noi i più esposti. ….44 All’Istituto Magistrale dove lavora:

“Il Preside mi tollerava, e quella volta che l’ispettore centrale venne per fare un’inchiesta … il Preside dovette tacere e, in un certo senso, soste-nermi, perché l’accusa era stata fatta contro di lui, che lasciava fare a un comunista un’educazione di tipo comunista nelle classi magistrali … Oggi non è facile rendersi conto del clima di diffidenza e di ostilità da cui eravamo circondati”45.

L’autorizzazione a regolarizzare la pubblicazione del Bollettino della C.T.S. fu infatti un vero problema. Né si poteva uscire senza l’autorizzazione. La istanza di registrazione della testata, presentata alla Prefettura di Pesaro, viene respinta. Tamagnini cerca allora altre vie d’uscita. Troppo importante risulta poter stampare e diffondere un proprio foglio senza incorrere in certi e seri guai giudiziari. Tama-gnini scopre che il padre della professoressa Nora Giacobini46 è Pre-sidente del Tribunale di Pisa. Dopo contatti inoltra perciò l’istanza a Pisa e per suo tramite quindi ottiene la registrazione del Bollettino.

È, dati i tempi, una conquista importante. Si esce dalla clandestinità.

A Pescara insegna al Liceo Raffaele Laporta,47 il quale viene a

co-44 Intervista di A. Scocchera, cit., p. 53.

45 Intervista di L. Bettini, cit., p. 83.

46 Nora Giacobini, (Reggio Calabria, 1916 - Amelia, 2010). Antifascista convinta, si impegnò nel dopoguerra nel Partito d’Azione. Laureata in Filosofia e Pedagogia. Al-lora insegnante all’Istituto Magistrale di Montopoli (PI), successivamente trasferitasi a Roma. Passò dalle scuole superiori a insegnare alla Scuola Media Unica, istituita in Italia nel 1962. È stata un importante riferimento nel MCE non solo romano. Cfr., N. Giacobini, Scuola secondaria, bilancio di otto anni, in “Cooperazione Educativa”, anno VIII, n. 10, ott. 1959, pp. 1-8; Allargare il cerchio, Cenci (TR), Edizioni Casa-laboratorio, 2016.

47 Raffaele Laporta, (Pescara, 1916 – Firenze, 2000). Ha insegnato nei Licei dal 1938

noscenza che il padre di un suo alunno fa il tipografo. Subito lo con-tatta e ottiene da questo condizioni di favore per la stampa del foglio della CTS. Il bollettino dunque viene stampato a Pescara con la ov-via e fondamentale collaborazione redazionale di Raffaele Laporta.

Ma superate queste non secondarie difficoltà, le contrarietà non finiscono qui.

Appena esce il Bollettino della CTS Tamagnini viene ripetuta-mente chiamato in Questura. Vogliono sapere cosa ci sta scritto nel Bollettino. Ad ogni richiesta lui porta al questurino referente una ulteriore copia. In questi appuntamenti gli veniva chiesto perché lo faceva, quali erano le sue intenzioni, quale il fine, che senso e scopo avesse ad intromettersi nella vita normale e tradizionalmente conso-lidata della scuola. Insomma viene sottoposto ad un controllo quasi intimidatorio. E non è solo lui il capo espiatorio dell’iniziativa osta-tiva da parte dell’autorità scolastica e di polizia. Iniziative del genere subiscono, come detto, insieme ad Aldo Pettini e a Raffaele Laporta anche altri maestri. Infatti allora non sono i soli ad esser seguiti dalle

‘forze dell’ordine’. Senza parlare dell’autorità dell’Amministrazione scolastica, che non comprende o nel migliore dei casi è diffidente verso il sovvertimento del tradizionale e tranquillo ordine didattico trasmissivo e disciplinare. Infatti, oltre alla ostilità o alla critica e quantomeno alla apprensione e fastidio dei colleghi, accade in ge-nerale di subire il controllo costante e talora la diffida da parte del proprio Direttore Didattico. Si infittiscono le visite ispettive e, co-munque, si registra l’ostilità della Chiesa locale. A diversi maestri/e

al ’58. Nel 1957 è succeduto a Ernesto Codignola nella Direzione di “Scuola-Città Pestalozzi” di Firenze, proseguita fino al 1963. Dal 1960 docente di pedagogia in di-verse università italiane (Cagliari, Bologna, Roma, Pescara) e Condirettore della rivista

“Scuola Città”. Cfr., (in particolare) Per una didattica della secondaria superiore, Firenze, La Nuova Italia, 1959; La comunità scolastica, Firenze, La Nuova Italia, 1963; L’assoluto pedagogico. La difficile scommessa, idem, 1971; Avviamento alla pedagogia, Roma, Ca-rocci, 2001. Su Laporta: AA.VV., Le frontiere dell’educazione (Scritti in onore di Raffaele Laporta), Firenze, La Nuova Italia, 1992; A. Santoni Rugiu, (a cura), Raffaele Laporta (Epitone – Vicende biografiche e formazione), Roma, Anicia, 2004.

– che nei primi anni imboccano questa azione educativa alternativa, di rivolgimento dell’attività didattico organizzativa – viene rimpro-verato un presunto ‘disordine’ scolastico, spesso accade che venga abbassata la valutazione della ‘qualifica’ professionale. Un provve-dimento, quello della penalizzazione nelle ‘note di qualifica’, che si ripeterà in molti casi di insegnanti particolarmente innovatori MCE e che si verificherà fino alla soppressione a metà degli anni ‘70 di questa istituzionale pratica valutativa annuale ad opera obbligatoria del dirigente scolastico verso i singoli docenti.

Tamagnini ricorda che:

“I convegni che sempre più frequentemente andavamo organizzando nelle varie regioni si svolgevano sotto lo sguardo di agenti di P.S. o cara-binieri comandati in servizio per vigilarci e ascoltare ciò che si diceva.”48 Talora succedeva inoltre di essere sorvegliati e schedati nel ‘Casella-rio Politico Centrale’ della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’In-terno, quali soggetti ‘pericolosi’, ‘sovversivi’, quindi da seguire. At-teggiamento statuale che proseguirà, anche questo, non solo negli anni 50 e 60 ma addirittura anche dopo il ‘68 e negli anni ‘70.49

48 Intervista di A. Scocchera, cit., p. 25.

49 L’ho verificato io stesso per essere stato negli anni ‘60 segnalato nel casellario dei Carabinieri e a diverse riprese negli anni ‘70 visitato in classe da ispettori scolastici regionali e naziona-li, nonché con l’intervento al Collegio docenti direttamente del Provveditore agli Studi, nonostante avessi la Direttrice Didattica dalla mia parte. Ed infatti vennero a lei abbassate le ‘note di qualifica dirigenziale’ per non aver preso provvedimenti nei riguardi del grup-po docente che con me operava nel plesso scolastico una ‘pratica didattica cooperativa’.

Raffaele Laporta, qui in una immagine in età più avanzata, è stato soprattutto nei primi anni 60 un fondamentale collaboratore di Tamagnini, pratico e teorico. Lungo tutta la sua lunga carriera universitaria [Prof. di pedagogia nelle università di Ca-gliari (1965-67), Bologna (1967-69), Roma (1969-82) e Chieti/Pescara (1982-91), qui emerito dal 1992], ha fatto conoscere e pubblicizzato i valori etici e le pratiche didattiche della ‘cooperazione educativa’.

Tamagnini, presentando a poco più di due anni dall’avvio della CTS ad un pubblico esterno all’Associazione “Le tecniche Freinet”, in pre-messa chiarisce che la nuova associazione della tipografia a scuola...

“... ha raccolto l’adesione di numerosi insegnanti sparsi ormai in ogni regione d’Italia, e le esperienze condotte in questi due anni hanno dato tali risultati da fornire inconfutabili prove del valore dei procedimenti seguiti. Tuttavia, come è facile immaginare le opposizioni che incontra sono notevoli e provengono da varie direzioni:

1) Opposizione dovuta alla forza d’inerzia del tradizionalismo impe-rante che si manifesta prevalentemente come resistenza passiva.

2) Diffidenza da parte dei cultori della pedagogia diciamo così

ufficia-le, i quali insospettiti del termine <tecniche> con cui si presentano i procedimenti didattici perseguiti, vi vedono un incombente peri-colo, che, in un (presunto) piatto materialismo, ignorando i più alti valori dello spirito, riduce l’alta opera, la missione, dell’educatore ad un problema grettamente professionale.

3) Diffidenza da parte di intellettuali progressisti i quali nel prevalere (presunto) dei problemi tecnici, vedono un’azione conservatrice, il permanere cioè e fossilizzarsi in formule di presupposti tradizionali e relativi principi di struttura, e il pericolo che gli insegnanti – e di conseguenza gli alunni – presi nella falsa prospettiva di quelle for-mule sostituite alla realtà viva, perdono contatto con questa realtà e siano distratti dall’azione e dalla lotta conseguente per trasformare e migliorare quella realtà, la quale condiziona ogni altro aspetto della vita sociale compresa la scuola e l’educazione.

4) Un quarto caso infine di opposizione, che è bene rilevare anche se privo di consistenza, deriva da coloro i quali temono che la C.T.S.

sia un’organizzazione con più o meno occulte finalità di parte.”50 Egli dà per scontata la storica inerzia tradizionalista. A quelli che vedono ‘finalità di parte’ risponde:

“Le tecniche da noi propugnate, la nostra organizzazione, tutta la nostra attività hanno uno scopo esclusivamente pedagogico-didattico a cui è estranea ogni considerazione di parte”51.

Mostra invece seria preoccupazione per le altre due posizioni: sia quella della pedagogia ufficiale che dell’intellettualità politico-peda-gogica di sinistra che muovono l’accusa al Movimento della CTS di condurre un’azione puramente tecnicistica, priva dunque d’innova-zione contenutistica, di cui la scuola invece – a loro avviso – avrebbe

50 G. Tamagnini, Le tecniche Freinet, “Educazione Democratica”, n. 2, ottobre 1953, pp.

17-18.

51 Ibidem, p. 18.

bisogno. Le critiche della sinistra poi in particolare denunciavano proprio la dichiarata assenza di finalità politico ideologiche da parte della CTS, cioè il contrario di quanto veniva espresso da parte della componente cattolica conservatrice.

Nei confronti del primo e al quarto caso, secondo Tamagnini, c’è poco da dire e da fare.

“Ben più consistenti e serie sono le obiezioni mosse dalle altre due fonti esaminate e ad esse noi ci proponiamo di rispondere nella forma più esauriente consentitaci in un breve articolo.

Gli uni e gli altri, i rappresentanti della cultura ufficiale e della cultura d’avanguardia, vedono nelle tecniche qualcosa di esteriore, una forma, il cui prevalere tende a svalutare e soppiantare la reale sostanza, il con-tenuto: anche se questo contenuto sostanziale può essere diverso per gli uni e per gli altri. Per gli uni e per gli altri però è identico il risultato:

le tecniche come tali non sono in grado di rinnovare la scuola, danno soltanto l’illusione di rinnovamento, in realtà la sostanza rimane im-mutata con l’aggravante che si disperdono le energie in attività sterili distraendole dai problemi di fondo, e in definitiva intralciando quel rinnovamento che si sarebbe dovuto favorire.

Non neghiamo validità in senso assoluto alle obiezioni, le riteniamo anzi ampiamente motivate da molte di quelle iniziative che, partite da reali esigenze di fatto, hanno dato luogo a formulazioni pratiche irrigidite poi in metodi, i quali, nella loro ineliminabile unilaterali-tà, hanno favorito e perpetuato nella scuola il sezionamento dell’unità organica della vita della classe e l’accentuarsi di quei comportamenti stagni che sono le materie d’insegnamento sostenute ognuna da un pro-prio codificato metodo. Neghiamo invece che tali obiezioni reggano nei riguardi delle tecniche Freinet.

Considerare la tecnica come pura forma contrapposta ad un contenuto ci sembra oggi cosa piuttosto ingenua e non facilmente sostenibile. Noi riteniamo che non vi sia mai stata né possa esservi una teoria pedago-gica senza una corrispondente tecnica didattica: infatti se pedagogia è scienza dell’educazione non può rimanere solo teoria, ma deve neces-sariamente esplicitarsi in un’attività pratica in cui si attui in concreto

l’educare: e riteniamo valida anche la reciproca, che cioè ogni tecnica didattica presuppone una teoria pedagogica: se poi la tecnica non è coe-rente e non risponde alla teoria che l’ha ispirata e che tende ad attuare, o se la teoria stessa non è valida, questa è un’altra questione; ma nel caso delle tecniche Freinet noi siamo in grado di sostenere che ad esse corrisponde una ben definita e valida teoria pedagogica a cui sono per-fettamente coerenti. Questa teoria è la pedagogia dell’attivismo.

Veramente parlare di attivismo è ancora rimanere su un piano troppo generico (oggi con questo termine si intendono troppe cose e troppo di-verse) ma verremo definendo meglio il nostro concetto nel corso della trattazione. Per ora prendiamo il termine nella sua accezione più am-pia, come sinonimo di scuola nuova in contrapposizione alla vecchia scuola tradizionale, e affermiamo che, se si accetta in linea di principio l’attivismo, è pur necessario accogliere coerentemente quelle norme e quei mezzi pratici che meglio ci possono permettere di realizzarlo; il problema quindi non è se siano da accettare o respingere le tecniche come tali, ma piuttosto se queste sono idonee o no al raggiungimento di questo scopo, cioè se permettono effettivamente e in quale misura di attuare una scuola attiva.

Le finalità che si propongono le tecniche Freinet, e in ciò trovano per-fettamente consenziente la C.T.S. come affermammo al nostro recente Congresso, sono quelle di creare le condizioni perché ogni scuola, fin la più povera e isolata, ove insegni un maestro che abbia un minimo di responsabilità e di coscienza del valore della propria opera, possa concretamente realizzare quel principio secondo cui il bambino – e con esso il suo mondo e il suo ambiente – sia veramente al centro dell’opera educativa e senza che si determini alcuna cesura tra scuola e vita: creare le condizioni perché ogni scuola possa sfruttare in pieno l’apporto del proprio ambiente e allargare il proprio orizzonte con l’apporto reciproco di tutte le scuole collegate, in modo che il fanciullo, partendo dal suo piccolo mondo, possa gradualmente potenziarlo e ampliarlo fino a far proprio il più vasto mondo dell’umano, e possa maturare la propria per-sonalità non attraverso una libresca erudizione, ma tramite un contatto diretto con quel più vasto mondo realizzato su un piano di vita reale e di interessi vissuti: questo è anche ciò che noi intendiamo per scuola attiva.

Quei mezzi tecnici, strumenti, che Freinet ha ideati si adeguano alle reali esigenze di ogni individuo e di ogni situazione e rispondono pie-namente ai principi dell’attivismo: individualizzazione dell’insegna-mento; unicità e organicità dell’insegnadell’insegna-mento; concretezza e aderenza dell’insegnamento al mondo reale e agli interessi del fanciullo: ma ciò che consente la piena attuazione di quei principi non sono tanto le tecniche come tali, quanto l’impostazione generale del lavoro che esse determinano; in realtà la più grande realizzazione del Freinet non è rappresentata dalle sue tecniche in senso stretto, ma dall’organizzazione da lui creata intorno ad esse e dal principio di cooperazione educativa sulla cui base quell’organizzazione vive ed opera.” 52

Egli sottolineava dunque come le ‘tecniche Freinet’ non fosse-ro affatto vuote – anche se riconosceva non venissefosse-ro sempre pie-namente intese ed applicate in modo coerente ed organico – ma che anzi corrispondevano a precise finalità formative secondo una pertinente teoria pedagogica e non erano affatto finalizzate ad una strumentale ideologia politica.

Tali critiche e perplessità comunque continueranno ad esser a lun-go espresse, nonostante ripetute puntualizzazioni formulate in meri-to da parte prima di membri più aumeri-torevoli della CTS e poi del MCE.

A conclusione di queste annotazioni Tamagnini scrive:

“Crediamo di poter concludere che le tecniche Freinet permettono di realizzare effettivamente una scuola ispirata ad un sano attivismo e possiamo insieme rassicurare i pedagogisti che i loro timori sul pericolo di tecnicismo empirico che minacci di isterilire lo spirito, sono infon-dati: le tecniche Freinet attuate su un piano di efficiente cooperazione (insistiamo su ciò poiché se non vi è cooperazione non vi sono tecniche Freinet) creano anzi le migliori condizioni per un sempre più consape-vole e razionale approfondimento teorico-pratico: pongono l’insegna-mento nella possibilità, e direi nella necessità, di migliorare e aggior-nare ininterrottamente la propria preparazione e la propria cultura:

52 G. Tamagnini, Ibidem, pp. 19-20.

spezzare l’isolamento nel quale normalmente vivono insegnanti e scuole per inserirli in un circuito di pensiero e di attività in cui ognuno può arricchirsi di quel flusso perenne di linfa vitale che è la risultante del pensiero e dell’attività di tutti, in cui si sintetizzano dialetticamente valori tradizionali e motivi contingenti.

A questi pedagogisti vorremmo anche dire che la necessità di portare la scuola su questo piano noi l’abbiamo appresa proprio dai loro libri e che i nostri sforzi tendono a portare all’attuazione pratica i motivi più vitali e profondi del loro pensiero.

Agli intellettuali d’avanguardia rispondiamo che non può avere fun-zione conservatrice e ritardatrice del progresso una tecnica didattica implicante di per se stessa un più stretto legame con la vita e con l’atti-vità produttiva degli uomini, che porti ad un superamento del concetto e della pratica di un’autorità dogmaticamente imposta; una tecnica che sviluppi nel fanciullo doti di osservazione, senso di autonomia e di di-gnità, senso di solidarietà e di socialità nel lavoro; che abitui il ragazzo a superare l’idolatria della parola stampata facendola considerare per quello che è realmente, cioè la manifestazione del pensiero di uomini, che altri uomini hanno sempre il diritto di discutere; una tecnica insom-ma che favorisca la insom-maturazione critica della personalità del ragazzo e che d’altra parte obblighi l’insegnante ad un contatto diretto con l’am-biente sociale dei propri alunni e a riviverne come propri i problemi.

E agli uni e agli altri rispondiamo che non solo le tecniche Freinet contribuiscono al rinnovamento della scuola, ma, secondo noi, rappre-sentano il solo mezzo concreto a nostra conoscenza e alla portata di tutti che crei le condizioni per un costante, dinamico rinnovamento in una sintesi dialettica di teoria e pratica.

E agli uni e agli altri rispondiamo che non solo le tecniche Freinet contribuiscono al rinnovamento della scuola, ma, secondo noi, rappre-sentano il solo mezzo concreto a nostra conoscenza e alla portata di tutti che crei le condizioni per un costante, dinamico rinnovamento in una sintesi dialettica di teoria e pratica.

Nel documento della Cooperazione Educativa in Italia (pagine 121-136)