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I L DISASTRO AMBIENTALE E SANITARIO PROVOCATO DAI POLI DI SVILUPPO

GLI EFFETTI A LUNGO TERMINE DELLA POLITICA ATTUATA NEL MEZZOGIORNO DAI «POLI DI SVILUPPO»

2. I L DISASTRO AMBIENTALE E SANITARIO PROVOCATO DAI POLI DI SVILUPPO

La politica dei poli di sviluppo ebbe soprattutto riferimenti più estesi in Sicilia e in Puglia. In Sicilia si relazionò al mito dell’oro nero (GAMBINO, 1988, p. 23), in quanto, in quel periodo, erano stati

scoperti dei giacimenti petroliferi nel Ragusano, giacimenti che poi si rivelarono di modesta entità qualitativa ed anche quantitativa. La verità è che i poli petrolchimici si localizzarono in Sicilia per la sua posizione baricentrica tra le aree di esportazione del greggio, corrispondenti ad alcuni Paesi arabi della riva sud del Mediterraneo e del Medioriente, e le aree di importazione dell’Europa settentrionale. Si formarono così in Sicilia tre poli petrolchimici fondamentali: il polo di Gela, il polo di Milazzo e il polo di Augusta-Priolo-Melilli. In particolare, nell’area siracusana, in poco più di vent’anni (dal 1948 al 1971), la fascia costiera di circa 20 km, che dal porto di Augusta giunge a Siracusa, fu interessata dalla più alta concentrazione di impianti petrolchimici d’Europa (CANNIZZARO e CORINTO, 2013, p. 59).

L’interesse internazionale verso quest’area ha trovato una testimonianza recente dall’inserimento gestionale di una multinazionale russa – la Lukoil – che nel 2013 ha acquistato dalla ERG il controllo

della raffineria Isab di Priolo. L’ingresso del gigante russo apre le porte a scenari geopolitici e geoeconomici completamente nuovi. Le sorti dell’area industriale siracusana appaiono, quindi, fortemente dipendenti dalle strategie mediterranee della Lukoil (ARANGIO, 2013, p. 72).

A Taranto si formò, invece, il più grande polo dell’industria siderurgica italiana definito, per l’appunto, «quarto centro siderurgico», passato nel corso degli anni dalla gestione dell’Italsider, società a partecipazione statale, alla gestione del gruppo privato riconducibile alla famiglia Riva, nel 1995, cui è seguito, di recente, il commissariamento. Nel frattempo, anche la denominazione è cambiata divenendo Ilva a seguito della messa in liquidazione dell’Italsider e Finsider, nel 1988.

Gli obiettivi che si pose allora la Cassa per il Mezzogiorno con questo tipo di politica non furono raggiunti innanzitutto dal punto di vista economico perché, trattandosi di industrie capital-intensive occuparono un numero limitato di addetti, rispetto alla superficie occupata.

Difatti, queste industrie si sono configurate spesso come «cattedrali nel deserto», nel senso che, spesso, non sono riuscite a inserirsi in modo armonico nel territorio e non sono riuscite ad attrarre altre industrie satelliti, dato che completavano al loro interno quasi tutto il ciclo del processo produttivo, per cui l’indotto, in vari casi, è risultato limitato o addirittura inesistente.

L’esempio simbolo di cattedrale nel deserto è costituito dal polo di Gela per il quale fu coniato, in un famoso volume scritto nel 1970, da Hytten-Marchioni, l’emblematico titolo Industrializzazione

senza sviluppo. Un titolo rivoluzionario e controcorrente se si pensa che, nel periodo in cui fu coniato,

industrializzazione era proprio sinonimo di sviluppo.

Per dare impulso all’industrializzazione, si decise l’istituzione di consorzi, articolati in «aree di sviluppo industriale» e «nuclei di industrializzazione», sovradimensionati per numero e per superficie rispetto alle reali necessità.

La politica dei poli di sviluppo si è rivelata un’industrializzazione contro, anziché un’industria- lizzazione a favore, generando un’infinità di conflitti. Difatti, le conseguenze negative dei poli di sviluppo si possono compendiare nell’espressione «economia contro ecologia». Queste imprese, difatti, non solo non sono riuscite a fornire un efficace contributo per risolvere il problema occupazionale del- l’Italia meridionale, intesa nel suo complesso, anche perché sono andate contro la storia, le esigenze e le prospettive dei contesti territoriali in cui si sono insediate, ma hanno procurato, per di più, danni ambientali di grandissima rilevanza, espressi dal fortissimo impatto di molteplici tipologie di inquinamento, che hanno riguardato il mare, i corsi d’acqua, il suolo, il sottosuolo e l’atmosfera.

Il centro siderurgico Ilva, a causa delle sue dimensioni e delle tipologie di attività industriali svolte, rappresenta di gran lunga la più rilevante fonte dell’impatto nel Mezzogiorno, sia per utilizzo di risorse (acqua, energia), sia per la produzione di rifiuti. (MARZIA, 2004, p. 31).

In quest’area sono presenti elementi di forte degrado paesaggistico dovuti sia alla presenza di numerose cave e di aree utilizzate per molti anni come discarica di ingenti quantitativi di rifiuti e materiali provenienti da produzioni siderurgiche, sia al grande impatto visivo provocato dai grandi impianti (ibid., pp. 29-30).

Va rilevato che tutto il territorio tarantino risente pesantemente della presenza della grande industria, dalle acque del Mar piccolo, all’inquinamento dell’intero golfo, all’annichilimento del verde, al degrado fisico degli insediamenti urbani e storico-monumentali, realmente corrosi dalle ben note polveri rosse siderurgiche.

Anche nel caso specifico dell’insediamento del polo industriale di Augusta-Priolo-Melilli, oltre ad essersi registrato il violento impatto sull’ambiente (BARILARO, 1996, pp. 788-799), che coinvolge tutte

le sue componenti, è stata letteralmente cancellata un’intera frazione cittadina, Marina di Melilli, abbattendo le duecento villette che la componevano (CANNIZZARO, 2005, p. 114). Oggi il problema

dell’inquinamento atmosferico e marino nell’area siracusana è tutt’altro che risolto. Il quadro che emerge dall’analisi dei rapporti annuali degli ultimi vent’anni è tutt’altro che rassicurante. La concentrazione di agenti inquinanti nell’atmosfera, come molecole di anidride solforosa e di ossido di azoto, polveri sottili ultrasottili risulta mediamente elevata. In questa fascia territoriale i punti di emissione – detti anche camini – delle sole aziende considerate «a rischio» sono circa 500, ma a questi si aggiungono poi le torri di lavaggio, i parchi serbatoi, i sistemi di depurazione che mettono composti volatili (NICOTRA, 2012, pp. 51-73; ARANGIO, 2013, p. 78).

Sulla percezione del rischio in aree petrolchimiche un’interessante indagine (GATTO, MUDU e

SAITTA, 2008) ha riguardato la Valle del Mela, interessata dagli effetti dell’inquinamento provocati

Un altro rischio che è stato, finora, sottovalutato è la presenza di un polo petrolchimico di vaste dimensioni, in un territorio, come quello siracusano, già colpito dal devastante terremoto del 1693 e da quello del 13 dicembre 1990. Altrettanto rischiosa è, da questo punto di vista, anche la situazione dell’area posta intorno a Milazzo, tanto è vero che STELLA e RIZZO (2013, pp. 79-80) si chiedono: «Che

cosa succederebbe se un maremoto come quello che seguì il maremoto di Messina del 1908, colpisse questi stabilimenti?».

Strettamente collegati con i conflitti ambientali, sono quelli sanitari che hanno avuto ripercussioni drammatiche o addirittura tragiche innanzitutto sulle persone che lavorano in questi stabilimenti estendendosi anche ad abitanti residenti nelle aree limitrofe ai luoghi di edificazione delle fabbriche.

Ingenti sono stati, perciò, i danni alla salute della popolazione, come testimonia l’alta incidenza di tumori e malformazioni genetiche, che hanno destato per i poli petrolchimici siciliani e per il polo siderurgico di Taranto anche l’attenzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Taranto è stata oggetto di continuo interesse da parte della stampa regionale e nazionale, che ha messo in luce le gravi alterazioni ambientali e soprattutto l’elevato tasso di mortalità per patologia neoplastica dell’apparato respiratorio nella popolazione del capoluogo e, in maniera particolare, in quella residente nei quartieri Tamburi e Paolo VI, ubicati nelle immediate vicinanze del centro siderurgico.

Il rischio di contrarre un tumore maligno di trachea, bronchi e polmoni è molto più realistico per gli abitanti della città di Taranto e, in modo particolare, per chi svolge un lavoro nella zona industriale, tenuto conto della continua esposizione agli inquinanti originati soprattutto dalle industrie dell’area, ubicate a diretto contatto con la città (MARZIA, 2004, pp. 30-31).

In tale tragico contesto, si registra l’intervento della Procura della Repubblica di Taranto che ha chiesto il rinvio a giudizio dei cinquantadue imputati coinvolti nel processo «Ambiente svenduto» per il reato di disastro ambientale dell’Ilva. Il provvedimento ha riguardato alti esponenti dell’Ilva e responsabili dell’amministrazione locale e regionale. A tal riguardo, il Procuratore incaricato dell’in- chiesta ha sottolineato che si rilevano le denunce dei cittadini, le documentazioni mediche scientifiche, le perizie tecniche, i danni subiti da agricoltori, mitilicoltori, lavoratori del siderurgico, residenti nel rione Tamburi di Taranto. Per il PM Mariano Buccolieri, l’Ilva continua a inquinare e non ha

adempiuto alle prescrizioni dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA).

E se oggi si decidesse di eseguire un sopralluogo nell’area delle cokerie per controllare se si è intervenuti o meno per ridurre l’inquinamento, potrebbe emergere che nulla o quasi è cambiato da luglio 2012, quando scattò il sequestro dell’area a caldo dell’impianto siderurgico.

Anche nell’area del polo petrolchimico siracusano è stata rilevata una crescita della mortalità per tumori e delle malformazioni neonatali che è stata definita scioccante. In particolare due vicende sono balzate alla cronaca nazionale. La prima è l’inchiesta ordinata nel 1979 dall’allora pretore di Augusta, Antonino Condorelli, sulla salute pubblica nell’area del petrolchimico. Questa ha messo, proprio, in evidenza l’aumento di certi tipi di patologie tumorali e delle malformazioni neonatali nell’area compresa tra Augusta e Priolo (ARANGIO, 2013, p. 78). La seconda è la vicenda giudiziaria

dell’Eternit, ditta produttrice di manufatti in amianto, che aveva una sede nella zona industriale di Siracusa nord, in contrada Targia. Le vicende di questa società, operante in diverse aree del territorio nazionale, sono tristemente note (ibidem). Oggi, la maggioranza degli operai dell’Eternit Sicilia, il cui stabilimento di contrada Targia è stato dismesso nel 1992 (ma non è stato ancora bonificato), è morta. I sopravvissuti sono malati o sottoposti a controlli periodici (NICOTRA, 2012, pp. 35-37). In

totale i decessi accertati per malattie polmonari sono stati 122. Peraltro, i tragici effetti sulla salute hanno coinvolto anche gli altri poli petrolchimici siciliani di Gela e di Milazzo.

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