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Q UALE SCIENZA ECONOMICA ?

ROTTURE GEOPOLITICHE E CAMBIAMENTI PARADIGMATICI: IL RITORNO DELL’ECONOMIA POLITICA

3. Q UALE SCIENZA ECONOMICA ?

Nel 1965, durante il corso di storia del pensiero economico tenuto all’università di Trieste da R. Zangheri, chi scrive ebbe a porre il problema della natura della disciplina economica, se da intendersi quale «economia politica» o invece «economica», quale scienza delle scelte razionali. Studioso di matrice marxista, Zangheri rifiutò recisamente quest’ultima accezione, che includeva la disciplina nel novero delle scienze «esatte». Negli anni seguenti, come sappiamo, questa interpretazione riuscirà invece vincente a livello mondiale.

Invero, la questione era aperta da molto tempo e verteva sostanzialmente sulla credibilità del lavoro degli economisti anglosassoni. Senza scomodare Marx, si pensi a P. Geddes, il quale scriveva a fine Ottocento (BATTISTI, 1998). In ambito accademico a volte il dibattito raggiungerà toni accesi.

Emblematica è la posizione di una filosofa come la WOOTTON, che nel 1938 scriveva (2003, p. 131):

“scienza” per descrivere i modi correnti dell’analisi economica è, almeno, prematura». Giova rilevare che si era nel clima culturale influenzato dalla «grande crisi» scoppiata nel 1929, che aveva certificato il fallimento plateale dell’approccio classico nell’economia, aprendo le porte ai Keynesiani. Un prece- dente che sembra riproporsi oggigiorno praticamente negli stessi termini(2).

David COLANDER, un personaggio di nicchia nell’accademia americana, attribuisce l’involontario

sdoganamento di questa visione al manifesto sull’economia positiva proposto da M. Friedman nel 1953.

Friedman argomentò implicitamente che l’analisi teorica e l’analisi politica applicata non dovevano essere separate. La professione seguì la sua guida. Un economista potrebbe fare analisi teoriche e applicate contempo- raneamente. Il problema che questo causò è che entrambe vennero assoggettate alle stesse regole metodologiche, che rapidamente divennero le regole che la scienza aveva sviluppato per governare la selezione delle teorie […] Il risultato è lo stato corrente dell’economia accademica, che dà maggiore enfasi alla teoria logico-deduttiva, è cinica nei confronti del lavoro empirico e dà poco spazio alla storia ed alle istituzioni (p. 31).

Su questo terreno egli gode del supporto autorevole di SCHUMPETER, al quale «par certo, che la

massima parte degli errori commessi nell’analisi economica è dovuta alla mancanza di esperienza storica più che qualsiasi altra deficienza nel corredo scientifico dell’economista» (1972, p. 15). Dal nostro canto, ci sentiamo di aggiungere che non meno grave è la mancata conoscenza – peggio ancora, la mancata considerazione – dei fattori geografici(3).

Colander rilegge il testo di J.N. KEYNES (1891) al quale Friedman si era ispirato, per ripristinare

l’originale tripartizione della disciplina in economia positiva, normativa ed applicata. Quest’ultima, che Keynes padre definiva «arte dell’economia», doveva fungere da trait-d’union tra le due precedenti, ed avendo quale fine l’applicazione di soluzioni reali ai problemi del mondo reale, con tutta la sua comples- sità, doveva avere un carattere largamente non economico. Un’osservazione di grande rilevanza per noi geografi, chiamati a maneggiare continuamente insiemi di dati provenienti da svariati campi del sapere.

Per COLANDER, «l’applicazione di nuove tecniche ai problemi del mondo è un’arte» (p. 9). Per me, arte e scienza si mescolano in uno, cercando entrambe di raggiungere un senso di comprensione del mondo attorno a noi. Arte, per me, significa usare la nostra intuizione per ottenere illuminazione e immaginazione nel- l’esprimere le intuizioni che si sono ottenute attraverso i migliori mezzi possibili. Gli uomini con uno scopo sono naturalmente degli artisti (p. 11).

Se la realtà fosse semplice, non ci sarebbe necessità dell’arte nella scienza. L’arte tratta la parte della realtà che non comprendiamo appieno e che non siamo capaci di comprimere in una formula o modello […]. Il successo della scienza standard ha creato un’adorazione della scienza che è andata un po’ troppo lontano […]. L’economia è una di quelle aree dove la scienza standard non ha avuto troppo successo, e la questione è come andare a discutere le politiche laddove la scienza standard non si adatta – dove la verifica empirica è limitata, dove leggi semplici non sembrano essere conseguenti anche quando si può fare una verifica empirica.

Dello stesso avviso è T. PIKETTY: «Gli economisti americani non mi hanno mai convinto piena-

mente» (2014, p. 58). Ed ancora:

Diciamolo francamente: la disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali. Troppo spesso gli economisti si preoccupano di piccoli problemi matematici che interessano solo loro, problemi che, con poco sforzo, li fanno sentire scienziati e che li esonerano dall’impegno di rispondere alle questioni ben più complesse poste dal mondo circostante (ibid., p. 59).

Rivendicando per l’economia applicata lo statuto di arte – una fase evolutiva che precede la costruzione di un sapere scientifico – Colander attacca alla base la mutazione genetica che ha attraversato la professione nell’ultimo mezzo secolo. Una mutazione di cui attribuisce la responsabilità all’istituzione accademica, per la quale si appella alla «Teoria delle istituzioni perverse».

2 Ciò rivaluterebbe certe espressioni della stessa WOOTTON (2003, p. 111): «Giacché gli economisti sono già in sospetto di essere dei

ciarlatani, non possono permettersi di arrogarsi da se stessi titoli di onorabilità senza adeguata giustificazione».

3 In effetti, SCHUMPETER non era lontano da questa realtà; il suo discorso continua infatti c.s.: «Naturalmente, quando si parla di

storia, si deve comprendere in essa certi campi d’indagine che hanno acquistato nomi diversi in conseguenza della specializzazione: per esempio, le ricerche preistoriche e l’etnologia (antropologia)» (ibidem).

Le istituzioni economiche accademiche sono più perverse della maggior parte delle istituzioni perché furono disegnate attorno ad una tecnologia che non si sviluppa in quel modo. Negli anni 50 si credeva che l’econometrica avrebbe prodotto un cambiamento tecnologico che avrebbe trasformato la natura del disaccordo tra gli economisti fornendo i test definitivi delle teorie. Molta della moderna struttura metodologica e argomentativa dell’economia che io trovo perversa fu disegnata attorno questa credenza. Quella metodologia diresse i ricercatori verso l’analisi altamente formale – strutturata in un modo da essere testata empiricamente.

Gli economisti in divenire furono istruiti a rimpiazzare la loro propria intuizione con un’intuizione raffinata basata sui test econometrici empirici. Essi furono istruiti a limitare gli argomenti a quelli suscettibili, almeno in principio, alla verifica econometrica formale ed a strutturare gli argomenti stessi in un modo formale così da poter essere risolti attraverso test empirici.

Sfortunatamente, la verifica econometrica si è dimostrata molto meno definitiva di quanto si era inizialmente sperato (ibid., p. 131).

Ma ormai gli studiosi, come incauti apprendisti stregoni, erano diventati prigionieri del sistema da loro stessi creato e non hanno più saputo uscirne. È la stessa trappola in cui sono caduti – in base al medesimo presupposto – i cosiddetti scienziati del cambiamento climatico, ormai incapaci di percepire alcunché di estraneo all’interpretazione antropica del riscaldamento globale, un fenomeno attorno al quale le certezze appaiono quanto mai problematiche (LEVY, 2008).

La conseguenza, puntualizza COLANDER (1991), è che gli economisti sono diventati irrilevanti, o

piuttosto, diremmo noi, è il pensiero economico elaborato nell’accademia ad essere diventato socia- lmente irrilevante. Cosa questo comporti lo comprenderemo meglio più avanti.

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