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L A «S TAZIONE C ENTRALE » COME TERRITORIO DI CONFINE

UNA «PERIFERIA» NEL CENTRO DELLA CITTÀ IL CASO DELLA «STAZIONE CENTRALE» DI MILANO

2. L A «S TAZIONE C ENTRALE » COME TERRITORIO DI CONFINE

L’edificazione della nuova centrale al trotter (l’attuale Piazza Duca d’Aosta) comportò la creazione della Via Vittor Pisani e lo studio dell’antistante piazza. Si volle inquadrare la nuova monumentale stazione in una grandiosa quinta scenica, ma si crearono i presupposti per l’attuale condizione in cui la piazza versa: impossibilità d’uso (BAGGIOLI, 2003-2004, pp. 11-12).

L’intero asse prospettico Stazione Centrale-Piazza Duca d’Aosta-Via Vittor Pisani-Piazza Repubblica si presta oggi, nei riguardi dei locali, alla definizione che la critica multidisciplinare

riassume nel termine di «non luogo». Uno spazio di transito di grandi dimensioni, difficilmente vivibile, privo di significato alcuno nelle pratiche quotidiane della maggior parte della popolazione locale che lo percorre. Uno spazio solo «attraversato» e non «fruito», spesso percepito, anzi, come sgradevole e pericoloso (AUGÉ, 1993, pp. 75-102). Una «città invisibile», per dirla con Italo Calvino

(CALVINO, 2014, passim).

Parlare di periferia in termini di gradiente che indica la distanza geometrica o geografica dal cuore antico della città è semplicistico ed il caso della «Stazione Centrale» di Milano è eloquente, in questo senso. Essa, usando le parole care ad un architetto, rientra nella categorie delle «periferie interne», che identificano le sacche di degrado fisico, ma anche sociale ed economico, formatosi all’interno delle aree centrali dei centri urbani (LINO, 2013, p. 33).

Senza arrivare a costruire «spazi di interdizione», volti a dividere, segregare, escludere (BAUMAN,

2007, p. 88), alla zona che si estende intorno alla «Stazione Centrale» viene associata comunque una percezione di insicurezza e di pericolo, comune a molti contesti urbani (PAGNINI e MATEJAK, vol. I,

2008, passim; PAGNINI e SCAINI, vol. II, 2008, passim; PAGNINI e MATEJAK, 2009, passim).

Eppure, due giovani antropologi notano la tendenza in atto ad eliminare tutto ciò che distacca. Difatti sostengono:

Oggi è sempre più diffusa la sensazione di trovarci in un mondo che tende ad annullare i propri confini: ciò è dovuto non tanto al fatto che vengono meno barriere di tipo politico e sociale, per le quali si osserva una certa persistenza oltre che una moltiplicazione di forme di separazione e di esclusione in certi casi del tutto inedite, quanto alla consapevolezza che le dimensioni con cui siamo soliti fare esperienza del mondo stiano mutando radicalmente, proponendo nuovi modi con cui si attua la relazione con gli spazi e i tempi che contrassegnano la vita della società contemporanea (COLOMBO e NAVARINI, 1999, p. 9).

Anzi, il consumo di linee di divisione e di demarcazione trova «nella riscoperta interna dei confini, come spazi e tempi di vita quotidiani, una spinta se non uguale, certamente contraria e che ricorsivamente propone il tema del limen al cuore della vita metropolitana» (ibid., pp. 9 e 19).

E, qualche riga più in là, gli stessi studiosi aggiungono:

Il luogo antropologico liminale è un punto di incontro tra culture, nel senso che rappresenta un temporaneo incrocio tra esperienze differenti, un punto di incontro in cui viene a crearsi una nuova cultura che accomuna tutte le persone che lo abitano: la «cultura di soglia» (ibid., p. 20).

Ecco che, allora, lo spazio della «Stazione Centrale» di Milano, caratterizzato da linee di demarcazione mobili, fluttuanti ed elastiche, assume connotati diversi.

Certo è che la costruzione di confini pare accompagnare l’intera storia umana (FABIETTI, 2005,

pp. 178-179). Però, per riprendere un brano dello scrittore e docente di estetica all’Università di Venezia, Franco Rella:

Quando una linea di confine è posta al centro, e non all’estrema periferia, là dove essa è quasi invisibile, questa linea allora non solo ridisegna la mappa del territorio, e scopre avvallamenti e rilievi fino allora invisibili e sconosciuti, ma sconvolge anche le abitudini dei suoi abitatori. Per questo…Socrate, che strappava i suoi interlocutori dalle loro abitudini mentali, era atopos. Per procedere nella verità è necessario essere «radicati nell’assenza del luogo», essere nel «dappertutto» dell’atopia: diventare stranieri nella propria patria, in quanto la linea di confine non ci protegge da ciò che viene dall’esterno ma, passando per il nostro centro ci divide, ci rende stranieri a noi stessi (RELLA, 1994, pp. 67-68).

In questo senso, la «Stazione Centrale», sia pure ubicata all’interno della città, non è affatto parte integrante di essa e non è affatto integrata con le condizioni ambientali e con le caratteristiche della gente che abita nei dintorni.

Il discorso, nonostante risalga alla fine degli anni Novanta, rimane quanto mai attuale, soprattutto allorché gli autori si soffermano sul problema dei migranti, esasperato, da qualche mese in qua, per le ondate ingestibili di profughi siriani e libanesi, che, allo scopo di scampare all’avanzata dell’Isis, invadono proprio la «Stazione Centrale» di Milano, nell’attesa di dirigersi verso il Nord- Europa (LOB, 2014; DAZZI, 2015).

Oltre al problema dell’accoglienza al collasso, l’arrivo di profughi alla «Stazione Centrale» rischia di far scattare un’emergenza sanitaria. Il 22 aprile 2015, il Comune ha denunciato quattro casi di scabbia, malattia contagiosa, scoperti in un solo giorno. Ma l’ambulatorio medico al binario 21,

chiuso il 15 gennaio 2010 dall’ASL per i rilevanti costi di gestione, resta con le porte sbarrate. Ed è

scoppiata la polemica. Costi troppo alti, non giustificati, a parere dell’ASL, dal numero di visite

effettuate. E, dal 25 febbraio 2015, non è più in funzione neppure il gazebo che si trovava al piano delle Carrozze, all’ingresso della stazione. I dottori della Guardia medica, che assicuravano le visite, sono stati costretti ad effettuare un passo indietro, date le condizioni estremamente precarie nelle quali si trovavano a lavorare: all’aperto, senza la possibilità di stoccare i farmaci e con l’obbligo di montare la tenda di pronto intervento ogni mattina e di smontarla tutte le sere.

Insomma, in Centrale, lì dove deve esserci il primo filtro sanitario, per scoprire eventuali malattie degli immigrati fuggiti dai loro Paesi in cerca di una vita migliore, non c’è più nessun ambulatorio.

Le visite mediche nei centri in cui i profughi vengono smistati, come il «Centro di Identificazione ed Espulsione», di Via Corelli, non sembrano sufficienti a garantire la sicurezza sanitaria. Perché nessuno sfugga ai controlli, occorrerebbe almeno riaprire l’ambulatorio al binario 21, benché, in un’intervista televisiva del 16 gennaio 2010, il direttore generale dell’ASL, Walter Locatelli, spiegasse

che, da un monitoraggio, era emerso che il suddetto ambulatorio offriva solo duemila interventi all’anno di medicina generale, ossia quattro o cinque al giorno.

Ma i tempi sono cambiati. Allora, dalla Centrale non transitavano centinaia e centinaia di migranti. Adesso, bisogna studiare misure urgenti (COPPOLA e RAVIZZA, 2015).

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