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S ICUREZZA E SOSTENIBILITÀ DEL SISTEMA ALIMENTARE

ALIMENTAZIONE SOSTENIBILE: CONFLITTI E POLITICHE

2. S ICUREZZA E SOSTENIBILITÀ DEL SISTEMA ALIMENTARE

La letteratura sull’alimentazione, sia pure molto frammentata, rivela molteplici prospettive scientifiche e disparate visioni interdisciplinari. Gli studi sulla food chain risalgono agli anni Novanta (KNEEN, 1989; LA BIANCA, 1990 e 1991; TANSEY e WORSLEY, 1995), con una concettualizzazione

sintetica che la visualizzava come una catena dal «campo» alla «tavola» – from farm to fork – comprensiva delle diverse trasformazioni che il cibo può subire. Dal punto di vista teorico descrizioni più dettagliate sono state avanzate per esaltare le relazioni tra agricoltura, cibo, nutrizione e salute come un flusso lineare (SOBAL et al., 1998) e per classificare le fasi della catena e tracciarne le caratte-

ristiche (ERICKSEN, 2008). In anni recenti, anche sulla base di diversi orientamenti, il dibattito

prevalentemente anglo-americano ha ricevuto una spiccata attenzione. La numerosità degli attori coinvolti e l’ampia gamma di interazioni settoriali hanno reso necessario l’impiego di un approccio integrato ed olistico, sia per lo studio della catena dell’alimentazione sia per comprendere e gestire la complessità delle problematiche derivanti (INTERNATIONAL FOOD POLICY RESEARCH INSTITUTE,

2013, pp. 10-11). Pertanto, si è assistito al passaggio dalla concezione di catena a quella di sistema,

complex and adaptive(1), con l’affermazione di due filoni di ricerca su:

1) dinamiche glo-locali che direttamente e indirettamente influenzano il sistema alimentare (WILKINSON et al., 2009; CAPONE et al., 2014a);

2) alterazioni generate da quest’ultimo su ambiente, economia e società, molte delle quali a livello transcalare (LANG, 2009).

Per quanto riguarda il primo aspetto, ad esempio, si fa riferimento ai cambiamenti causati dall’evoluzione di alcuni fattori chiave: la maggiore mobilità e gli scambi culturali con un incremento della variabilità nelle diete; lo sviluppo della tecnologia nell’industria alimentare, sovente indotta dal desiderio invece che dal bisogno di cibi pronti; la multidimensionalità della percezione che orienta il consumatore a scelte complesse, mutevoli nel tempo e non facilmente descrivibili (FABRIS, 2003); o più

semplicemente l’adozione di specifici regolamenti governativi, il tipo di trasporto, le tradizioni culturali, ecc. A ciò si aggiunge l’ampliamento della scala geografica per la produzione, commercializzazione e consumo del cibo; l’incremento della produttività per ettaro, per ora di lavoro e per input; la diffusione dell’approccio industriale, dove l’efficienza e l’efficacia sono considerate in termini non solo economici ma sempre più ambientali e sociali; l’aumento dell’integrazione verticale delle catene alimentari, con rivenditori e consumatori molto più attenti alla qualità del cibo, a causa di una migliore conoscenza degli effetti dell’alimentazione sulla salute umana; l’importanza attribuita alla tutela della biodiversità e alla conservazione del paesaggio.

Per il secondo aspetto, basti pensare allo spreco di energia e, di conseguenza, alle alterazioni ambientali per la coltivazione di vegetali e per l’allevamento di bestiame(2). Un’altra risorsa impiegata

nel sistema alimentare è l’acqua. Il 70% di quella utilizzata sul pianeta è destinata alla zootecnia e all’agricoltura, i cui prodotti servono per nutrire gli animali d’allevamento (CAPONE et al., 2014b,

p. 40)(3). In tutto il mondo, i suoli hanno subito in pochi decenni cambiamenti radicali nella loro

destinazione, tanto che circa metà delle terre fertili del pianeta è oggi coltivata a cereali, semi oleosi e foraggi utilizzati per l’alimentazione animale. L’uso di quantità eccessive di prodotti chimici, soprattutto in agricoltura, è fonte d’inquinamento per il suolo, l’acqua e per il cibo stesso. Oltre a ciò, va considerato tutto quel materiale di scarto che deriva dai processi di lavorazione e confezionamento degli alimenti, come gli imballaggi di plastica, di alluminio, di carta(4). Riguardo agli effetti economici,

la delocalizzazione di industrie alimentari verso quei Paesi con manodopera ed energia a basso costo sta contribuendo ad incrementare la disoccupazione locale. La globalizzazione dei mercati e la necessità di abbattere i prezzi al consumo aumentano gli spostamenti di animali vivi e morti tra Paesi lontani e l’affermazione di filiere lunghe, che elevano le emissioni di gas a effetto serra (per il maggior numero di chilometri percorsi dagli alimenti) e, quindi, determinano il cambiamento climatico, la maggiore incidenza di catastrofi naturali, i pericoli per la salute, il degrado del territorio, ecc. Sotto l’aspetto sociale, alcuni studi sostengono che al mondo le persone a rischio di morte per fame sono circa 900 milioni, ma sono molto di più quelle in sovrappeso, anche se riportano carenza di micronutrienti, come vitamina A, ferro o iodio. Inoltre, quasi un miliardo di persone soffre di «fame nascosta», non avendo accesso alla necessaria quantità di sostanze per condurre una vita sana (FAO, 2010).

In sintesi, il sistema alimentare è un problem-determined system (ISON et al., 1997) ed uno dei

problemi che ha avvalorato l’impiego dell’approccio sistemico è stata la sfida della food security, interpretata come outcome food system e garantita «when all people, at all times, have physical and economic access to sufficient, safe and nutritious food to meet their dietary needs and food preferences for an active and healthy life» (FAO, 1996).

Di conseguenza si è aperto il dibattito scientifico sulle componenti, sui fattori e sulle sfide della sicurezza alimentare. Per quanto riguarda la prima questione, vi è unanime consenso intorno a tre variabili: a) la disponibilità, ossia la possibilità per ogni individuo, nucleo familiare, comunità, regione o nazione (dipende dalla scala geografica di riferimento) di disporre di tipo, qualità e quantità

(2) L’incremento della popolazione e della richiesta di carne sul mercato globale induce gli allevatori ad usare mangimi altamente

nutritivi come i cereali, senza pensare che per trasformare i vegetali in proteine animali, viene sprecata un’elevata quantità di proteine e energia contenute nei vegetali: per ottenere 50 kg di proteine animali da un manzo occorre, infatti, averlo nutrito con ben 790 kg di proteine vegetali. Inoltre, dal punto di vista dell’energia, per ogni caloria di carne bovina disponibile per il nostro organismo servono 78 calorie di combustibile fossile, per ogni caloria di latte ne servono 36, e per ogni caloria che si ricava dalla soia sono necessarie solo 2 calorie di combustibile fossile.

(3) Anche se ci sono molte incongruenze tra i dati della letteratura, gli allevamenti impiegano una quantità d’acqua maggiore di quella

necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure dirette al consumo umano, poiché oltre all’acqua impiegata nelle coltivazioni, che avvengono in gran parte su terre irrigate, si deve sommare quella necessaria per abbeverare gli animali, per pulire le stalle e per i processi di lavorazione della carne. Facendo un calcolo basato sulla quantità di proteine prodotte, si ottiene un rapporto molto sbilanciato a sfavore degli allevamenti: per un chilo di proteine animali occorre un volume d’acqua 15 volte maggiore di quello necessario alla produzione della stessa quantità di proteine vegetali.

desiderata di cibo, che può essere garantita dalla produzione locale, dai canali di distribuzione o da scambi di denaro, lavoro, ecc.; b) l’accesso, inteso come la capacità di ottenere cibo come richiesto e può essere valutato in termini di potere di acquisto, di misure determinanti l’allocazione spaziale e temporale dei prodotti, nonché di domanda di consumo sulla base di valori culturali o sociali; c) infine, l’utilizzo, ossia la possibilità di consumare e beneficiare di una nutrizione adeguata a principi salutari, per una vita sana e attiva (INGRAM et al., 2010, pp. 12-13). Diversi studi si sono

concentrati anche sulla molteplicità di fattori di pressione che condizionano le suddette tre variabili, come cambiamenti climatici, urbanizzazione, globalizzazione, incremento della popolazione, malattie, competizione nelle destinazioni d’uso del suolo, ecc. (MISSELHORN et al., 2012). Le soluzioni

rintracciate in letteratura, invece, si polarizzano intorno a due posizioni: una collegata alla produ- zione e una alle dinamiche del consumo, prospettando cambiamenti rispettivamente nel mercato alimentare globale o nei modelli di vita (SONNINO e FAUS, 2014).

A fronte dell’inarrestabile degrado ambientale e della progressiva riduzione della biodiversità, la comunità internazionale ha avvertito l’esigenza di trovare una serie di principi guida per i regimi alimentari, che metta in relazione anche le pressioni esercitate dall’alimentazione sulla società e l’economia e che limiti le criticità, spaziando dall’offerta di beni alimentari che i mercati garantiscono, alla domanda dei consumatori influenzata dai mercati stessi, fino alla tipologia e provenienza del cibo che viene portato a tavola ogni giorno.

L’ampia definizione accolta da più parti, sintetizzando il problema legato all’accesso al cibo e alla nutrizione, così come quello relativo ai conflitti generati nell’ambito del sistema alimentare, afferma che

le diete sostenibili sono quelle a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale, nonché a una vita sana per le generazioni presenti e future. Le diete sostenibili concorrono alla protezione e al rispetto della biodiversità e degli ecosistemi, sono culturalmente accettabili, economicamente eque e accessibili, adeguate, sicure e sane sotto il profilo nutrizionale e comportamentale, ottimizzano le risorse naturali e umane (FAO, 2012, p. 83).

È così riconosciuta l’interdipendenza tra la produzione e il consumo di cibo, le esigenze alimentari e le raccomandazioni nutrizionali, e al tempo stesso si ribadisce il principio per cui la salute degli esseri umani non può essere slegata da quella degli ecosistemi e dalla sicurezza, la quale rientra come una componente della sostenibilità alimentare (ibid., p. 34). Per fronteggiare questa sfida ogni territorio deve dare il suo contributo, adottando una politica alimentare sostenibile.

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