• Non ci sono risultati.

I nuovi paradigmi della globalizzazione, le innovazioni tecnologiche, i cambiamenti sociali ed economici, stanno da tempo rivoluzionando la cultura manageriale e i modelli organizzativi aziendali.

Siamo testimoni di un rapido passaggio da una concezione tayloristica, alle reti d’impresa, allo sviluppo di forme di business all’avanguardia come la sharing economy, in un contesto di frantumate competenze ed esperienze di lavoro, sempre più knowledge

intensive, ma anche precario. Un mondo in cui il ruolo dei territori e delle imprese

familiari, pur nello scenario della globalizzazione, diviene sempre più rilevante come peso e come opportunità. Il concetto del “glocal” sta prendendo sempre più piede ed è ben espresso in alcuni dibattiti che si sono succeduti negli anni in Italia, in cerca di risposte. Come ha affermato Aldo Bonomi, nel suo intervento in occasione del convegno di Symbola 2006, «siamo un capitalismo di territorio ove le imprese, per dirla con

Becattini, sono un progetto di vita. Un impasto complesso e articolato di una pluralità di soggetti semplici. La famiglia, messa al lavoro e proprietaria, l’impresa, per lo più piccola, che se cresce si fa media fino a diventare una multinazionale tascabile. Il paese che si fa distretto e i distretti che si fanno piattaforme produttive. Storia di una industrializzazione senza fratture (Giorgio Fuà) tra famiglia, territorio e impresa. […] Ciò che resta, per dirla con gli storici dell’impresa della Bocconi, è il quarto capitalismo: 3925 medie imprese censite e rappresentate da Unioncamere e Mediobanca che affondano la loro storia e capacitò produttiva in piattaforme territoriali che competono nella globalizzazione».224

224 Aldo Bonomi è sociologo, fondatore e direttore dell'Istituto di ricerca Aaster e consulente del Cnel.

Symbola è «la Fondazione per le Qualità Italiane. Nasce nel 2005 con l’obiettivo di promuovere un nuovo

modello di sviluppo orientato alla qualità in cui si fondono tradizione, territorio, ma anche innovazione tecnologica, ricerca, design. In una sola parola, la soft economy: un’economia della qualità in grado di

146

Queste sono le PMI e le loro reti, componenti di un sistema capace di autorigenerarsi; culturale prima ancora che economico.

4.2.2 Il distretto biodinamico lucchese

A questo punto della trattazione, dopo aver a lungo riflettuto sulla complessità dello scenario economico e sociale del momento storico che stiamo vivendo, sembra opportuno fornire una chiave di lettura in termini operativi presentando una realtà, esistente da pochi anni in Toscana, che è espressione della volontà di percorrere una strada diretta alla qualificazione e alla diversificazione dei prodotti, con l’obiettivo di rafforzare una strategia condivisa di sviluppo territoriale impostata sulla gestione sostenibile delle risorse locali che si riscontra sia nei modelli di produzione – con l’agricoltura biodinamica – sia nei modelli di consumo - filiera corta, gruppi acquisto.

Dal tentativo di riappropriazione e recupero delle varietà tradizionali e locali, restaurando una antica simbiosi tra le famiglie proprietarie di abbandonati filari, la comunità in senso lato ed il territorio, nasce a Lucca il primo distretto biodinamico italiano.

Il distretto biodinamico lucchese va ad arricchire il territorio con i mille colori e profumi sprigionati dalle uve coltivate.

La Lucchesia ha un ruolo marginale nella produzione del vino in Toscana e questo ha lasciato la possibilità agli artigiani della vite, presenti in queste zone, di sperimentare. Negli ultimi dieci anni, oltre un centinaio di ettari sono stati convertiti all’agricoltura biodinamica (chi la pratica deve avere anche la certificazione biologica).

Spiegando molto brevemente cosa si intende per agricoltura biodinamica, non essendo la sede per una dissertazione più completa sull’argomento, possiamo partire dalla etimologia della parola: bio vuol dire vita, dinamica sta ad indicare una crescita, uno stimolo alla vita. La biodinamica non ha un sistema di certificazione regolamentato e riconosciuto dalla Commissione europea, ma studiosi affermano che sia fondata su concetti empirici. È una agricoltura che non ricorre a concimi organici, ma nutre il terreno

coniugare competitività e valorizzazione del capitale umano, crescita economica e rispetto dell’ambiente e dei diritti umani, produttività e coesione sociale» tratto dal sito

147

con i sovesci e utilizzando preparati naturali tra cui i più importanti sono il “500” o corno letame e il “501” o corno silicio. I vignaioli biodinamici partono dalla pianta che deve essere sana e deve mantenersi tale. Sarà la pianta stessa che incorporerà con la sua “intelligenza” gli elementi nutritivi a lei necessari per sopravvivere e superare le avversità climatiche. Ed il prodotto finale, vino nel nostro caso, sarà espressione del territorio e del vignaiolo che marchierà in maniera indelebile l’alimento creato.225

Confrontandosi, i vignaioli dell’area della Doc Colline lucchesi si sono resi presto conto che tra di loro la maggioranza pratica questo tipo di agricoltura, dagli innumerevoli risvolti positivi per il prodotto finale, per la pianta stessa, per l’ambiente e per il consumatore.

Così a metà ottobre del 2013, un incontro tra i produttori alla Fabbrica di San Martino, azienda familiare a cui dedicheremo ampio spazio nel prossimo paragrafo, ha sancito la nascita del distretto lucchese della biodinamica.

«Ci frequentiamo, impariamo gli uni dagli altri: abbiamo pensato fosse giusto

condividere questo nostro “riconoscerci” anche all’esterno». Queste le parole di Saverio

Petrilli, enologo della Fattoria di Valgiano - una delle imprese del distretto- nonché l’iniziatore alla biodinamica di molti tra i viticoltori lucchesi.

Il distretto biodinamico è il primo in Italia nel suo genere. Vanta dodici aziende vitivinicole e una di produzione ortaggi che operano in regime biodinamico. Quasi la metà dei produttori della doc applica questo tipo di agricoltura: complessivamente un numero di ettari che corrisponde a più del 50 % del suolo destinato all’agricoltura di tutta l’area. È il territorio della Penisola con la maggiore densità di aziende a regime biodinamico sul totale. Secondo Fabio Pracchia, redattore della rivista Slow Wine, la presenza delle piccola proprietà diffusa, in passato poteva rappresentare una debolezza mentre oggi rappresenta il presupposto per imbottigliare «vini capaci di esprimere la

vocazione del territorio, senza rincorrere modelli già affermati»

Le imprese del distretto si frequentano, si consigliano, si supportano a vicenda nelle fasi positive, ma anche durante i cicli negativi a cui l’agricoltura è spesso soggetta. Un approccio distrettuale basato sulla condivisione sia di idee sia di strumenti immateriali, ma anche materiali, come i macchinari necessari per il lavoro nei campi. Tutti orientati

148

ad apprendere gli uni dagli altri. Gli stessi vignaioli affermano che tra di loro la concorrenza non esiste perché, anche se c’è trasmissione di know how, nessun vino di una tale impresa potrà mai avere le stesse caratteristiche organolettiche del vino di un’altra, anzi, grazie alla biodinamica, i vini di una stessa azienda, ma di annate diverse, possono presentare peculiarità ben differenti in sede di degustazione. Una cosa è certa ovvero che tutti i vignaioli lucchesi, essendo piccolissime realtà per la maggioranza a conduzione familiare, hanno scelto di percorrere la strada della differenziazione, della produzione di nicchia e quindi della maggiore qualità, con un occhio di riguardo a tutti i prodotti utilizzati lungo l’intera filiera vitivinicola.

Per queste realtà, unite a rete nel Distretto, la strada della qualità è anche il segreto per riuscire ad affrontare la spietata globalizzazione, fucina di vini tra loro omologati, per consumatori poco inclini, evidentemente, ad accogliere la bellezza e la ricchezza della biodiversità o forse soltanto vittime di un meccanismo arrugginito che dev’essere oliato instillando inesorabilmente, gocce di consapevolezza.

Le famiglie del Distretto lucchese ricoprono un ruolo di rilievo, soprattutto nella trasmissione dei valori e della cultura agricola. Per molte aziende è stato fondamentale il passaggio generazionale senza il quale non sarebbe stato possibile il salto di qualità e l’avvicinamento alla biodinamica.

Tra le dodici aziende troviamo Macea, della Valle del Serchio capitanata da Cipriano Barsanti e il fratello Antonio. Cipriano dopo varie esperienze in aziende vinicole toscane ha deciso di concentrarsi esclusivamente su Macea, l’azienda di famiglia di circa cinque ettari totali tra vigneto, oliveto e agriturismo in gestione biodinamica con risultati molto interessanti e in crescita di anno in anno.

Abbiamo poc’anzi citato Saverio Petrilli che è l’enologo di un’altra azienda del Distretto la Tenuta di Valgiano. Nata da un’idea di Moreno Petrini e Laura Collobiano nel 1993, oggi è tra le capofila di una metodologia di produzione che si riassume nell’armonico rapporto tra la pianta, il territorio su cui nasce e l’uomo che la cura e la accudisce.

Altra importante realtà è Podere Còncori a pochi chilometri da Barga (Lu) nel cuore della Garfagnana. Qui il giovane Gabriele Da Prato, nato e cresciuto in questi stessi territori dove lavora, coltiva i quasi tre ettari di vigneti per onorare l’opera del padre Luigi, seguendo una direzione che potesse dare dignità alle antiche produzioni, in un’opera di

149

valorizzazione dei vini della Garfagnana e della Valle del Serchio sminuiti rispetto alla media dei vini toscani.

Tra le aziende familiari una voce fuori dal coro è sicuramente la Cooperativa Sociale Calafata, l’unica a non avere terre di proprietà, dove a sporcarsi le mani sono i soci aiutati da soggetti svantaggiati che, grazie al rapporto con la terra, hanno ritrovato un nuovo rapporto con loro stessi e la società. Calafata può fregiarsi di essere riuscita a recuperare e rinvigorire vecchi vitigni abbandonati, con la biodinamica.

Queste sono soltanto brevi informazioni di alcune delle aziende appartenenti al Distretto, per capire in cosa si sostanzia questa nuova, ma più che mai antica, realtà. Completano l’elenco: l’Azienda Agricola Camigliano; Corte Malgiacca; Fattoria Colleverde; Fattoria Sardi Giustiniani; Podere di Rosa; Tenuta dello Scompiglio; Tenuta Lenzini e la già citata Azienda Agricola Fabbrica di San Martino, della quale parleremo nello specifico in seguito come modello di realtà familiare che abita questo lembo di territorio toscano, un’azienda che ha saputo scoprire nell’identità territoriale, nella trasmissione della cultura e delle tradizioni e nel potere della “rete”, il valore aggiunto necessario per la sopravvivenza e la continuità. Studieremo il caso Fabbrica di San Martino per trasporre quanto astrattamente esposto, nei precedenti capitoli nonché in quest’ultimo, circa le caratteristiche della realtà familiare in generale per concentrarci sul valore corroborante del territorio nella strategia aziendale in ottica della continuità.

150

4.3 Il caso aziendale: l’Azienda Agricola Fabbrica di San Martino