• Non ci sono risultati.

Diverse culture, diverse agricolture, diversi paesagg

Giuseppe Pandolf

3. Diverse culture, diverse agricolture, diversi paesagg

Dal punto di vista dei canoni classici che hanno influenzato sino all’epoca moderna sia la progettazione dello spazio urbano sia di quello rurale (si pensi a Joseph Addison) i connotati principali di un bel pae- saggio dovevano essere ordine, proporzione, utilità, così come si pote- vano rintracciare nelle geometrie e negli allineamenti delle campagne premoderne, ma anche come si potevano leggere nei paesaggi ricostruiti da progettisti romantici quali Capability Brown secondo il modello ar- cadico, pastorale, idilliaco, ameno. Con l’affermarsi del filone del ro- manticismo, che ha concepito l’estetica del sublime, si sono sovvertiti (o integrati) i canoni classici, proponendo un apprezzamento di elementi di disordine, tipici del paesaggio naturale, che niente hanno a che vedere con il paesaggio umanizzato, educato e disciplinato, aprendo la strada alla concettualizzazione della wilderness che sta alla base della protezione di elementi naturali - quali picchi, cascate, foreste - a prescindere dal- la loro utilità produttiva ed economica (Formigari 1962). Sintetizzan- do, potremmo dire che mentre il paesaggio agrario dell’agricoltura pre- moderna talvolta compendiava sia bello sia sublime, perché manteneva spesso elementi marginali di naturalità sui suoli non sfruttabili, l’agricol- Figura1. Diversi paesaggi si confrontano entro una medesima unità. 1) Paesaggio tradizionale: l’oliveta a sesto rado accostata all’edificio rurale; 2) paesaggio moder- no: le vigne a rittochino e l’oliveta specializzata sulla destra; 3) paesaggio contem- poraneo: le vigne gradonate con muri a retta ciclopici sulla sinistra. Molto netta la separazione tra terreni forestati e coltivi, scarsa la permeabilità ecologica delle am- pie estensioni a vigna specializzata, prive di fossati permanenti, siepi o filari.

tura moderna, viceversa, ha generato paesaggi utili ma privi di ordine, gerarchia e proporzione, quindi spesso né belli né sublimi.

I paesaggi agrari originati dall’agricoltura mezzadrile pre-moderna si connotavano per caratteri di sostenibilità socio-ambientale intrinseca: • la dimensione temporale era estesa, legata al contratto familiare, che

manteneva più generazioni in un podere, incentivando migliora- menti persistenti quali terrazzamenti e ciglionamenti;

• massima era l’intensità di lavoro umano, massima la diversità col- turale per tutelare da eventi improvvidi, prevaleva tendenzialmente l’autoconsumo e la filiera corta;

• la rete viaria era gerarchizzata, al servizio dei carriaggi, manufatti mi- nori contornavano la rete viaria, usi collettivi e servitù reciproche aiutavano nelle lavorazioni intensive e nella gestione comune di tali opere e infrastrutture garantendone la permanenza;

• gli elementi del paesaggio naturale quali boschi e boscaglie sui ter- reni acclivi e non sfruttabili erano una variabile di utilità marginale (ghiande, resine, pinoli, legname, strame per animali da corte o pic- coli allevamenti) e in quanto tali venivano custoditi;

• gli allineamenti, i terrazzamenti, le modellazioni del suolo erano pra- tica diffusa, seguendo principi di economia del lavoro e di massima efficienza produttiva;

• le piante secolari, i filari e le siepi, i fossi permanenti, svolgevano ruo- li di identificazione catastale, di barriera, di frangivento, di produzio- ne e quindi venivano mantenuti garantendo biodiversità;

• le colture erano adattate al bioclima, al microclima e alle condizioni stazionali, con una fortissima spinta alla selezione di varietà locali,4

assicurando ricchezza del germoplasma e biodiversità;

• la necessità di ricorrere al mercato locale e ai materiali locali caratte- rizzava tendenzialmente opere e manufatti, producendo consonanza, adeguamento al genius loci.

I paesaggi agrari prodotti dall’agricoltura moderna sono invece se- gnati dalla dissoluzione dei caratteri premoderni:

• non esistono invarianti, la dimensione temporale è accorciata dalla ragio- ne di impresa che distoglie da opere dispendiose e di lunga durata; • minima intensità di lavoro umano, meccanizzazione spinta, forte ricorso alla

chimica conducono alla banalizzazione e alla riduzione della biodiversità;

4 Pozzana cita il dato delle pere, selezionate in più di 5000 cultivar prima del 1850, e

• la rete viaria è leggera, variabile con facilità e massimamente plastica, al servizio del trattore che può muoversi ovunque con angoli di cur- vatura che consentono arditi spigoli;

• i manufatti minori scompaiono; entro l’azienda al più sopravvive il passato musealizzato degli usi collettivi, magari con l’uso di macchi- nari, di antiche stalle o di boschetti adibiti a richiamo per turisti; • gli elementi del paesaggio storico e naturale sono un disturbo e non

una variabile di utilità marginale, le piante camporili, i filari arborei, le siepi, i fossi permanenti sono un ostacolo alla meccanizzazione e quindi vengono rimossi e non custoditi;

• gli allineamenti, i terrazzamenti, le modellazioni del suolo diventano ‘ciclopici’ costruiti con massi di grandi dimensioni o calcestruzzo, ma spesso transitori in quanto frutto di lavorazioni meccaniche che li rendono facilmente trasformabili;

• le colture sono funzione delle variabili di mercato e dell’agroindu- stria e quindi spesso variano concorrendo al carattere ‘imperma- nente’ del tutto.

L’agricoltura moderna e pre-moderna non si ponevano il problema della sostenibilità e conosceva, come limiti all’uso delle risorse, solo quelli determinati dallo sviluppo della tecnica dei mezzi di produzione; la ‘nuova agricoltura’ della quale di seguito trattiamo, viceversa, definisce il suo statuto proprio sui limiti ragionati e programmati alle possibilità di uso e consumo delle risorse del territorio, in nome del principio della sostenibilità.

Fra agricoltura moderna e pre-moderna esiste certo una differenza fondamentale: l’agricoltura pre-moderna possedeva una sostenibilità obbligata, produceva cioè un paesaggio armonico, tale da garantire il mantenimento della fertilità dei suoli, frutto di un lungo processo di pratiche, sperimentazioni, apprendimenti ma anche di fallimenti (e in- numerevoli sono infatti le catastrofi ecologiche prodotte nell’antichità da una coltivazione dissennata).5

L’agricoltura ‘moderna’ si è affrancata dal processo di apprendimento sociale del passato e ha prodotto invece monocolture, specializzazione

5 Molte sono le testimonianze su questo aspetto. Interessante è la lettura del testo di

Diamond sulla distruzione ambientale prodotta in Islanda dalle pratiche agricole dei vichinghi e in Australia dall’agricoltura coloniale settecentesca (Diamond 2005), che mostra come l’attenzione alle risorse del territorio sia nient’affatto spontanea, ma frutto di una successione elevata di errori e catastrofi. Dal punto di vista delle tecniche agro- nomiche sempre illuminante il riferimento al testo del Gera giustamente citato da Sereni (1961).

spinta, banalizzazione del paesaggio, uso di materiali alloctoni, effi- meri, obsolescenti, perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli con desertificazioni connesse. Il paesaggio risultante è così divenuto leg- gibile e comprensibile non più attraverso un’estetica del visibile, ma solo se ricondotto alla sua utilità economica. Questo nonostante i tentativi della nascente agroindustria di crearne ‘anche’ un apprez- zamento estetico,6 che riconosceva nell’allontanamento dai caratteri

contestuali il piacere della libertà dal lavoro materiale e dalla fatica (figg. 2-4).

6 Rosario Assunto vedeva proprio nella transizione verso l’agroindustria , più che nella

contemporanea nascita delle manifatture, l’origine della modernità tecno-industriale nemica della bellezza: “Fatale per il giardino come opera d’arte e per la bellezza del mondo, in cui l’arte dei giardini ha sempre avuto parte essenziale, si preparava così, verso la metà del nostro secolo, la totale trasformazione dell’agricoltura in industria” (Assunto 1988). L’intuizione del filosofo coglieva qui il nesso tra la distruzione del mo- dello, dell’oggetto estetico e il venir meno della possibilità tout court dell’apprezzamento estetico, quella bellezza del mondo che torna solo oggi ad essere tematizzata come ob- biettivo non marginale della ‘nuova agricoltura’.

Figure 2-3. Nei manuali agronomici divulgativi degli anni ‘50 Il trionfo del binomio chimica-meccanica viene accompagnato anche da una propaganda estetizzante. Le scritte che illustrano le immagini dell’agricoltura meccanizzata conferiscono ‘aspetto di seduzione’ ai trattamenti antiparassitari, motivano la necessità tassati- va ‘di campi liberi e senza alberi’ e definiscono come ‘anacronistica’ la policoltura a due piani. Tentativo, agli occhi della società contemporanea goffo e inverosimile, di configurare il paesaggio monocolturale come ‘bello’ oltre che produttivo.