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Paolo Baldesch

3. Quale pianificazione

3.4 Una zona grigia

Vi è poi, una ‘zona grigia’ in cui le imprese agricole non producono beni destinati all’alimentazione, né direttamente, né indirettamente, ma beni intermedi utilizzati in altri cicli produttivi: è il caso dei biocarburanti e soprattutto delle biomasse utilizzate, di nuovo, per la produzione di energia. Vale anche in questo caso quanto è stato detto a proposito della ‘prima ca- tegoria’ sulla inopportunità (oltre che illiceità) di divieti riguardanti le scelte colturali. Qui l’attenzione dell’operatore pubblico deve essere spostata a mon- te delle imprese agricole, anche se queste reagiscono a un mercato fittizio (in quanto distorto dagli incentivi) e aleatorio. Si tratta, in sintesi, di pianificare l’intera filiera, dalla produzione delle biomasse, alla logistica dei trasporti, alla loro utilizzazione come combustibile, allo smaltimento dei rifiuti.

Sono decisioni di area vasta che implicano una programmazione al- meno a livello di Provincia e un coordinamento regionale; pernicio- so, come ora avviene, è lasciare le decisioni alle iniziative dei Comu- ni, spesso subalterni nei confronti delle proposte di grandi imprese, vulnerabili per carenza di risorse, deboli rispetto alle promesse di creazione di nuovi posti lavoro e di redditi per gli agricoltori.

Una riflessione finale

Quanto è stato finora detto riguarda la singola azienda agricola, per- ché a questa competono le scelte sulle produzioni e sull’opportunità o meno di fare investimenti nelle infrastrutture rurali. Vi è, tuttavia, un’a- rea in cui la pianificazione interferisce con le attività agricole anche se queste non ne sono l’oggetto specifico e che riguarda il sistema delle imprese piuttosto che il singolo agricoltore. Le politiche cui abbiamo accennato in precedenza, se gestite efficacemente, possono miglio- rare alcuni livelli qualitativi del territorio agricolo, prima di tutto la funzionalità della maglia agraria (con vantaggi anche sul piano della figurabilità del paesaggio) e la diversificazione degli usi del suolo (con vantaggi per la biodiversità); tuttavia, rivolte al singolo agricol- tore, possono non essere efficaci quando l’obiettivo non sia la tute- la di qualità paesaggistiche puntuali, ma di strutture paesaggistiche complesse. Estremizzando il ragionamento, si può dire che anche buone politiche possono portare a risultati incoerenti quando l’obiet- tivo sia la tutela, il recupero o la valorizzazione dei sistemi territoriali storici che concorrono a definire l’identità culturale della Toscana: ad esempio, l’organizzazione della fattoria mezzadrile, dove sia soprav- vissuta nei segni fisici, o le zone agrarie pianificate dalla bonifica o dalla riforma agraria; o dove il problema sia quello del recupero e della messa in sistema delle tracce di antiche forme di organizzazio- ne del territorio, come quelle che derivano dalla centuriazione ro- mana o, in epoca molto più recente, dalla tipologia insediativa delle corti lucchesi.

La tutela delle strutture territoriali storiche non significa, come tal- volta viene sostenuto polemicamente, conservazione dello stato di fat- to, ma definizione di regole affinché le trasformazioni avvengano in continuità e in coerenza rispetto alle ‘leggi’ che nel corso dei secoli hanno mostrato di avere una loro intrinseca razionalità e sostenibilità.

Figura 9. Impianto fotovoltaico di un megawatt nei pressi della località Pino (Tavarnelle Val di Pesa).

Figura 10. Il castello di S. Maria Novella (Certaldo) e l’infrastrutturazione ecologica c di versante, essenziale collegamento fra il crinale e il fondovalle del Virginiolo.

Queste regole riguardano prima di tutto le amministrazioni che gover- nano il territorio, il sistema delle imprese (agricole e non) e tutti i cit- tadini, e devono essere incorporate nei piani e nei programmi a livello molto più ampio e più comprensivo di quanto possa essere l’orizzonte di un’azienda agricola. Il problema, esposto nei suoi termini essenziali, è il seguente. Fino a che punto possiamo ‘conservare’ assetti territoriali strettamente collegati a modi di produzione, formazioni sociali, culture e tecniche tramontate? Come possiamo conservare l’organizzazione ter- ritoriale appoderata della villa-fattoria a mezzo secolo della scomparsa della mezzadria? Domande di questo tipo sono di attualità di fronte a operazioni che intendono trasformare le fattorie storiche in resort, centri benessere, villaggi turistici con i vari complementi di tempo libero fra cui spiccano i campi da golf, grandi consumatori di acqua in concorren- za con gli usi agricoli. Valgono, a questo proposito, le parole di Edoar- do Salzano (2007) riferite alla trasformazione della tenuta di Castelfalfi in un villaggio turistico gestito da TUI (grande tour operator di livello mondiale) in cui il mantenimento delle attività agricole funge da foglia di fico rispetto all’investimento immobiliare: “La buona cultura urbani- stica ha compreso che non solo le forme, ma anche le comunità devono essere tutelate. L’azione di tutela non è mera conservazione, ma amore- vole accompagnamento e guida delle dinamiche della vita che consenta il prolungamento nel tempo delle regole, gli equilibri, i connotati (le ‘invarianti strutturali’) che la qualità di quei paesaggi, urbani e rurali, hanno costruito e mantenuto fino a oggi. Non solo le forme vanno tu- telate, ma il loro rapporto con gli uomini: con le società che quei luoghi hanno abitato e spesso ancora abitano, li hanno costruiti e mantenuti per secoli e ancora possono essere aiutati a farlo. Una società che cambia, ovviamente, negli individui che la compongono, negli obiettivi che la muovono, nei valori che la alimentano. Ma la saggezza ispirata da quei paesaggi storici e dalla loro storia sollecita a conservare, nelle trasforma- zioni, la fedeltà ai principi basilari e alle regole di fondo che hanno pre- sieduto alla loro costruzione e consentito la loro durata. Così, le diverse funzioni che coabitano nelle città e nei paesi storici possono cambiare, ma deve essere conservata la mescolanza di ceti e mestieri, l’equilibrio tra residenti e forestieri e tra quotidianità ed eccezionalità e lo stretto rap- porto tra la forma e le attività che caratterizzano il costruito e quelle che caratterizzano e disegnano il non costruito, il rurale.” Ma il problema, contenuto e proposto dallo scritto di Salzano, riguarda proprio l’urbani- stica, perché obiettivi che hanno prima di tutto un carattere economico

e sociale non possono essere perseguiti all’interno della strumentazione ‘pianificatoria’ e neanche in quella di governo del territorio, almeno fino a quando questo è di fatto settorializzato nelle varie competenze asses- sorili e legiferato, sia a livello statale che regionale, in modo incoerente. Forse è a questo livello, di superamento della settorialità delle politiche nazionale e soprattutto regionali, che l’accostamento fra ‘pianificazione’ e ‘agricoltura’ può essere proposto senza destare la preoccupazione di im- pianti dirigistici, suscitatori di polemiche e destinati al fallimento.

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