• Non ci sono risultati.

Georgico vs bucolico

Matteo Massarell

1. Georgico vs bucolico

Per quanto né in greco né in latino esista una parola per designare nello specifico il paesaggio, soprattutto a Roma era molto diffuso l’ap- prezzamento per la bellezza dei luoghi, come documentano dipinti e let- teratura, dai quali si evince che natura e territorio erano frequentemente osservati con partecipazione interiore ed interesse estetico. Tali sensa- zioni di norma derivavano dall’uso di precise convenzioni: i paesaggi antichi rappresentati o descritti hanno, infatti, carattere prevalentemen- te allegorico e stereotipato, poiché rimandano a mitologie e simbologie riconosciute, rispondono a stilemi codificati, riconoscibili dalla società nel suo complesso o, più frequentemente, da gruppi socialmente e cul- turalmente privilegiati (Baldeschi 2011, 13; Nannini 2004, 38-39). Il paesaggio ha poi acquisito caratteri di ‘realismo’, con dipinti raffiguranti marine, ville, ambienti bucolici, ecc., senza riferimenti letterari o mito- logici. Tale modalità arrivò a conoscere una clamorosa fioritura soprat- tutto tra sec. I a.C. e I d.C., quando il soggetto paesaggistico divenne un filone vitale e prolifico, praticamente una moda, con numerosi dipinti di genere diffusi sia nelle dimore degli imperatori e dell’élite, sia in quelle di ceti meno elevati.1 Nel frattempo, poeti e letterati fornirono un vasto

repertorio di immagini paesaggistiche che trovarono rispondenza an- che nella produzione pittorica. Nei quadri pompeiani possiamo vedere un’effettiva rappresentazione del paesaggio costiero campano: in molti dipinti, infatti, si nota una gran quantità di ville e templi circondati da lussureggianti giardini nei quali a volte si vedono cipressi e pini, e poi ap- prodi marittimi, fontane, tempietti, pergolati, statue, ecc.. Si tratta della raffigurazione (sia pure con elementi stereotipati e irreali) di alcuni tratti caratteristici del paesaggio reale attorno a Pompei, così come doveva es- sere nel periodo precedente l’eruzione del Vesuvio (Baldassarre et Al.

1 Anche Vitruvio, destinato ad influenzare enormemente la cultura rinascimentale e

moderna, nel suo De Architectura (7, 5, 2) raccomandò che nelle dimore si trovassero opere del genere pittorico definito topia, in cui fossero rappresentate coste e campagne.

2006, 91-98 e 146-148; Sampaolo 2009, 89-90; Tosco 2007, 15-16). Un processo simile avvenne anche in letteratura, dove, pur continuando a prevalere gli stereotipi del locus amoenus individuati già da Platone nel Fedro, si cominciò ad esprimere una partecipata ammirazione per la bel- lezza dei paesaggi. Ad esempio Orazio, nella descrizione di luoghi a lui cari, attinge alle sensazioni in lui suscitate dalla visione e contemplazione di territori reali, in un’osmosi tra paesaggio e stato d’animo (Calboli 2004, 29-30). Plinio il Giovane, invece, con sensibilità quasi moderna, comunica in un suo scritto il piacere derivante dalla contemplazione della campagna laziale, paragonata ad una pittura.2

Nella convenzionale divisione tra bucolico (legato al mondo pasto- rale, naturale, non coltivato) e georgico (riferito ad una natura coscien- temente plasmata dall’uomo per fini produttivi e estetici), il primo gode di maggior fortuna letteraria e pittorica in epoca moderna, arrivando ad influenzare sia la pittura di paesaggio (basti citare Poussin e Lorrain), sia la valorizzazione estetica di ambienti pastorali come la Campagna romana a partire dal tardo Rinascimento e, più tardi, i paesaggi selvaggi, primordiali, non toccati dall’uomo. In questo apprezzamento possiamo leggere la perdita di valori e caratteri tradizionalmente interni al mondo rurale, in particolare i suoi aspetti produttivi. Non è un caso se il periodo di maggior auge del gusto paesaggistico ispirato ai paesaggi bucolici sia il ’700/’800, momento della nascente imprenditoria inglese che fece le sue fortune sulla distruzione dell’agricoltura comunitaria e di sussisten- za con il movimento delle enclosures, che recingeva ampi possedimenti terrieri per l’allevamento delle pecore. Pecore che già Tommaso Moro, nell’Utopia, in un gioco argomentativo, fa diventare responsabili della distruzione di ampie fette della popolazione rurale.3

Ma tornando al mondo romano, occorre osservare che il gusto dell’e- poca per il paesaggio è influenzato in misura maggiore dal georgico (fino circa al sec. II d.C.), ed è proprio il georgico ad essere oggetto di una vera attenzione paesaggistica: erano infatti particolarmente apprezzati

2 “Proveresti un gran piacere se guardassi questa regione dall’alto dei colli: ti parrebbe

infatti di scorgere non delle terre, ma un quadro dipinto con incredibile maestria: da tanta varietà, da così felice disposizione gli occhi traggono diletto ovunque si posino” (da Tosco 2007, 18).

3 “Le vostre pecore [...] che di solito son così dolci […] ora [...] cominciano ad essere

così voraci e indomabili da mangiarsi financo gli uomini, da devastare, facendone stra- ge, campi, case e città. […] I coltivatori vengono cacciati via e [...] son anche spogliati del proprio [campo] o, sotto l’aculeo di ingiuste vessazioni, son costretti a venderlo” (Moro 1993, 24-25; ed. orig. 1516).

gli elementi derivanti da manipolazioni morfologiche e combinazioni vegetali operate dall’uomo con scopi utilitaristici o per il conseguimen- to di artifici esteticamente gratificanti e dilettevoli (basti pensare all’ars topiaria o alla distribuzione degli alberi a quinconce). Nella contrap- posizione tra ambiente naturale e saggia coltivazione, fra selva e razio- nale ordinamento colturale, fra incolto bucolico e rigorosa coltivazione georgica, a vincere era dunque la natura addomesticata, nonostante il grande successo degli stereotipi legati alla natura spontaneamente bene- vola (Colucci 2004, 409; Mauro, Sessa 2010, 9-10). Ad un’analisi attenta, infatti, la trionfante poesia a soggetto arcadico diffondeva cer- tamente un’immagine positiva e nostalgica dei paesaggi pastorali, ma questa nostalgia celava un certo disprezzo per coloro che vivevano in tali luoghi: le civiltà nomadi o pastorali non erano considerate pari a quelle agricole e sedentarie. Per i Romani la pratica agraria era quasi un ‘indicatore’ di civiltà e progresso, e così Galli e Germani erano de- finiti ‘barbari’ anche per la loro economia volta soprattutto alla caccia, alla raccolta dei frutti spontanei del territorio (compresi pesci e uova di volatili), alla rapina delle altrui coltivazioni (Giulio Cesare L. IV: 2009, 139). Il risultato della loro civiltà inferiore era un paesaggio an- tiestetico: “chi […], lasciando l’Asia o l’Africa o l’Italia, andrebbe mai verso la Germania, terra dal paesaggio desolato, dal clima rigido, piena di tristezza a vedersi e ad abitarsi, salvo per coloro che vi sono nati?” (Tacito L. III: 2009, 193). “Il suolo della Germania […] in generale appare selvaggio a causa delle foreste, tristemente cupo per l’estendersi delle paludi” (ivi, 201). Con questo approccio i Romani non esitarono ad alterare anche profondamente luoghi reputati selvaggi, con bonifica di terreni paludosi, centuriazione di pianure, disboscamenti, costruzio- ne di infrastrutture agrarie anche di forte impatto, come terrazzamenti, briglie, dighe, canalizzazioni rettilinee lunghe fino a vari chilometri, ecc., e ingentilendo i territori con coltivazioni ‘civili’ spesso preceden- temente ignote a nord delle Alpi, come vite, alberi da frutto, ortaggi (Marcone 2011, 137-142).

2. L’apprezzamento del georgico in epoca romana e nel