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Ville signorili e contado

Matteo Massarell

3. Ville signorili e contado

Se nell’antica Roma, fino almeno al sec. II - III d.C., era soprattutto la natura coltivata e addomesticata di giardini e campi agricoli ad essere oggetto di attenzione paesaggistica, non può stupire che la decadenza del

8 “E tutto ciò che con un sano metodo di coltivazione rende più bello il fondo, nella

maggior parte dei casi, non solo ne fa aumentare la capacità produttiva (come accade quando olivi e viti sono piantati in bell’ordine) ma lo rende più facile a vendersi e ne fa salire il prezzo. Nessuno infatti v’è che fra due terreni di pari rendimento non preferisca comprare a un prezzo più elevato quello che è più bello, piuttosto che quello che è sì fruttifero, ma brutto” (Varrone 1974, 603). E “quanto più un fondo è bello a vedersi, ne segue che tanto maggior raccolto se n’abbia anche a trarre, come per esempio se uno ha gli alberi piantati a quinconce, disposti in file regolari e a distanza ravvicinata” (ivi, 611).

sistema imperiale romano divenga visibile proprio quando la sua carat- terizzazione paesaggistica, basata sulla fitta coltivazione agricola, diverrà un ricordo. Rutilio Namaziano nel 417 circa, durante il suo viaggio verso la Gallia, ebbe chiara coscienza della fine di un’epoca e di una civil- tà quando vide le campagne di Lazio ed Etruria, un tempo rigogliose, completamente impaludate, senza coltivi né centri urbani. La natura, da luogo di delizia, svago, e intensa, piacevole produzione agricola, si era trasformata in campo aperto privo di protezione, oppure in palude, in bosco inospitale (Rubbino 2010, 63). Ma almeno fino a gran parte del sec. II d.C. la civiltà romana si basava su una florida produzione agraria, funzionale ai cicli economici imperiali e capace al contempo di offrire un ambiente esteticamente appagante per i cittadini. Innumerevoli ville andarono a punteggiare molte zone agricole dell’impero di Roma, così che i padroni potessero riposarsi dalle attività urbane e nel frattempo godere della bella veduta sul paesaggio agrario circostante.9 I dintor-

ni delle principali città, soprattutto Roma, erano caratterizzati da una grande quantità di ville, case rurali, villaggi, giardini, campi fittamente coltivati, prevalentemente con alberi da frutto e viti. L’effetto era molto apprezzato dai cittadini, tanto che a un certo punto i proprietari terrieri finirono per disinteressarsi alla conduzione dei loro poderi e occuparsi esclusivamente di lusso, ostentazione, divertimento. E così, per esempio, Orazio lamentò l’occupazione degli spazi coltivati da parte delle ville 10

e il fatto che i viali non fossero più fiancheggiati da olmi e viti maritate bensì da platani piantati solo per il loro valore estetico (Marcone 2011, 141; Orazio Odi II, XV: 2001, 131; Sereni 2007, 61).

È anche per contrastare questo crescente disinteresse verso la pratica agraria che si ebbe la fioritura di trattati agronomici volti a spiegare ai proprietari terrieri come condurre adeguatamente i loro fondi. Furono molti tra trattatisti e poeti ad occuparsi di tale tematica. Tra questi, par- ticolare rilevanza assunse Columella (sec. I d.C.) il quale, come e più di altri autori, invitò i proprietari a conoscere con un certo dettaglio la prati- ca agraria: coltura delle piante essenziali, relazione tra esposizione e cresci- ta vegetale, corretta disposizione di annessi e strutture di trasformazione,

9 Secondo Varrone, i fondi di Gneo Tremellio Scrofa “sono così ben coltivati [che] of-

frono uno spettacolo per molti più gradito che non i palazzi altrui regalmente costruiti. Vanno a visitare le sue campagne […] non per ammirare pinacoteche, ma per ammirare i depositi di frutta” (Varrone L. I-II: 1974, 593).

10 “Pochi iugeri ormai lasceranno all’aratro / i palazzi sontuosi” (Orazio, Odi II, XV:

trattamento della manodopera, ecc.. Columella raccomandava anche la presenza frequente del padrone sul fondo: i poderi migliori erano quelli vicini alla città, dove il proprietario potesse fare una rapida corsa anche tutti i giorni, “dopo le faccende del foro”, e stimolare il lavoro dei dipen- denti. Il padrone peraltro non doveva limitarsi ad una rapida comparsa, ma verificare attivamente che i lavori fossero condotti a regola d’arte, tramite costanti ispezioni: da qui l’importanza della conoscenza delle tecniche agrarie. Per assicurare la permanenza del padrone e della con- sorte, Columella, pur condannando l’eccessivo lusso delle dimore rurali del tempo, raccomandava che la casa padronale fosse ampia e conforte- vole, così da garantire la piacevolezza del soggiorno, in una sintesi tra utilitas e venustas, cioè tra funzionalità e produttività agraria da un lato e piacere dall’altro. I due aspetti, quindi, non dovevano scindersi, ma con- vivere nello stesso luogo: ecco perché erano raccomandate come piante decorative le stesse che si trovavano nei campi coltivati attorno, come alloro, erbe aromatiche, e soprattutto viti e alberi da frutto (Columella L. I-I, I-II, IX-Praefatio: 1977, 25, 31-35 e 695; Marcone 2011, 28). I confini fra giardino e paesaggio venivano in questo modo a dissolversi in un continuo rimando di immagini, vegetazione, attribuzione di sen- so estetico, il tutto centrato sulla veduta paesaggistica che si poteva godere dalle ville, come espresso magistralmente da Plinio il Giovane nelle Epistole ad Apollinare.11 Per la suggestiva evocazione paesaggistica

che riesce ancora oggi a comunicare, Plinio ebbe un notevole influsso sulla cultura della villa e del paesaggio in periodo rinascimentale, con- tribuendo in misura notevole alla formazione dell’approccio moderno al paesaggio.

In Toscana, emblematico è il caso delle ville e proprietà medicee, in- serite con cura nei contesti paesaggistici circostanti, come testimoniato dalle quattordici vedute di ville medicee realizzate attorno al 1600 da Giusto Utens. In queste tavole si nota un fitto rimando tra le comparti- mentazioni delle aiuole all’interno dei giardini e l’altrettanto geometri-

11 “Davanti al portico è un giardino, diviso in molte aiuole da contorni di bosso

tagliato […]; là comincia un viale per le passeggiate in lettiga […]. Più in là, cam- pi, prati e piantagioni di alberi da frutto.[…] Dal triclinio [si vedono] il giardino, il prato, la distesa dei campi […] e il frondoso bosco adiacente alla pista per corse a cavallo. […] Tra i platani sono piantati il bosso e l’alloro, e da un lato si trovano i cipressi, che creano una piacevole ombra, offerta anche alle rose. […]. [Al di là dell’ippodromo, si trova un giardino nel quale] alternativamente sorgono colonne e alberi fruttiferi” (Plinio il Giovane, Epistole V, VI; le epistole furono scritte tra 96 e 109 d.C.).

ca, regolare disposizione dei campi coltivati all’esterno, in un passaggio progressivo dalle parti a maggior artificializzazione della natura nelle aree addossate alla villa (agrumi nani, vasi fioriti, parterre di dimensione minuta, ecc.) fino a quelle meno rigidamente strutturate delle aree più distanti da essa (v. fig. 1).

Il modello della villa armonicamente inserita nel paesaggio agrario si diffuse nel Quattrocento in Italia centrale, a Firenze e poi a Roma, e poco dopo anche in Veneto ed Emilia. E così, agli inizi del Cinque- cento, Pietro Bembo, come un antico romano, si recava nella sua villa nel Padovano per leggere, studiare e contemplare la vista sulle amenità attorno; nel giardino furono posti un pergolato, un orto, un boschet- to “piacevole e bello”, proprio come nelle ville romane. Tipicamente, nelle ville venete, in particolare quelle progettate da Palladio, ogni finestra, porta, loggia o portico era realizzato in modo da inquadrare il paesaggio circostante. E il giardino attorno alla dimora traeva ispi- razione dalle descrizioni antiche: un giardino inteso quindi non come grazioso complemento della residenza, ma come conquista dell’am- biente naturale, del quale la villa fosse inscindibile integrazione. Ogni elemento aveva allora caratterizzazione sia estetica sia funzionale: per esempio i fiumi erano considerati importanti per la loro sinuosa bel- lezza e perché raccomandati dagli antichi, ma anche perché utilizzati per irrigare campi e aiuole; le piante preferite per giardini e campi col- tivati erano alberi da frutto ed ortaggi, produttivi e al contempo este- ticamente gratificanti (figg. 3 e 4); e così via. L’ispirazione era eviden- temente in Vitruvio e nei trattatisti di res rustica, con il loro tentativo di conciliare utilitas e venustas, utilità e bellezza: con l’autorità fornita dai modelli antichi, i progettisti non esitavano a mescolare le funzioni di rappresentanza della villa con la sua componente di controllo del lavoro agricolo. Ecco quindi la palladiana villa Emo, con i portici realizzati per creare ombra al proprietario terriero mentre controlla i lavori agricoli; la scalinata di accesso alla dimora che crea un insieme classicamente monumentale e al contempo permette di utilizzare il piano seminterrato come deposito e cantina; e il sottotetto utilizzato come granaio. Solo alla fine del Cinquecento, e soprattutto nei secoli successivi, in particolare con l’affermazione del paesaggismo inglese, i giardini assunsero carattere esclusivamente decorativo con l’estro- missione delle piante agricole, queste ultime utilizzate solo a scopi produttivi nei campi e non anche decorativi nei giardini (Cosgrove 2000; Pagello 2010, 105-107).

4. La bellezza del ‘selvaggio’ in epoca moderna e