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Il dinamismo territoriale

Paolo Zappavigna

2. Il dinamismo territoriale

La convinzione che la vitalità delle aziende agricole sia da assumere come una priorità assoluta delle politiche, non solo economiche, ma anche territoriali, mi deriva, oltre che dal mio status professionale, anche dal mio vissuto, ossia dal fatto di vivere e operare nel contesto territoriale della pia- nura cispadana. Uno spazio agricolo per antonomasia, come dimostrano le varie produzioni tipiche e i numerosi marchi agroalimentari ivi presenti, ove il settore primario è riuscito a mantenere accettabili margini di redditività,

nonostante le difficoltà del mercato, proprio grazie ad una fortissima vita- lità e ad un grande dinamismo; dando luogo, nei secoli, a un continuo cambiamento, tanto dell’assetto produttivo, quanto dello scenario paesistico, senza che si perdessero i caratteri tipici della campagna, ed anzi garantendone il mantenimento pur in presenza di forti pres- sioni esterne (fig. 2).

Figura 1 (a e b). La vicenda del Comune di Aquileia, con la preferenza di un cam- po da golf rispetto a un campo di mais, costituisce un esempio illuminante di qua- le sia l’idea comune di “bel paesaggio” (spesso negatrice dell’agricoltura).

Questo processo di trasformazione del territorio è contrassegnato da almeno quattro fasi fondamentali: 1) la fase della conquista romana, che ha generato, nella fascia a cavaliere della via Emilia, il vasto reticolato della centuriazione, ancora oggi molto ben riconoscibile nella maglia degli appezzamenti e negli allineamenti (secondo cardine e decumano) di strade, fossi e filari; 2) la fase delle bonifiche, protrattasi ininterrotta- mente dal Medio Evo fino ai primi del Novecento, che ha consentito di rendere coltivabili (e insediabili) i terreni paludosi della ‘bassa’ pianura, causando la scomparsa delle antiche, largamente dominanti, selve; 3) la fase della intensivazione produttiva, sviluppatasi fra Sei e Ottocento, con la introduzione di più efficaci tecniche di coltivazione e di nuovi indirizzi colturali, determinando la larga diffusione della piantata (filari di vite maritata ad alberi che intercalano i campi); 4) la fase della indu- strializzazione, che ha portato ad uno sfruttamento sempre più intensivo del suolo, grazie all’adozione di tecniche moderne e ad un alto grado di meccanizzazione, con progressivo ampliamento della maglia poderale e soppressione di gran parte delle presenze arboree, soprattutto la ‘pianta- ta’, che avevano caratterizzato per secoli il paesaggio emiliano (“un mare sempre in movimento” lo definì Goethe).

Figura 2. L’evoluzione delle strutture produttive agricole induce sempre nuove, ben riconoscibili, impronte, nel paesaggio rurale.

Una trasformazione, quest’ultima, assai rapida, avvenuta nel volgere di pochi decenni nel corso del XX secolo, senza che la cultura del pae- saggio, che si affermava proprio in quegli anni con la prima legislazione per la tutela delle bellezze naturali, sollevasse obiezioni di sorta. Anzi, l’idea che abbiamo oggi noi emiliani del nostro paesaggio rurale, e che intendiamo giustamente preservare (pur volendone arricchire la dota- zione arborea), è quella, sostanzialmente, del paesaggio attuale, ben di- versa dunque dall’idea di paesaggio lussureggiante che dovevano avere i nostri nonni. Un’immagine di paesaggio ‘a maglie larghe’, con ampie estensioni a prato o seminativo e rare alberature (fig. 3); un’idea ormai sedimentata nella coscienza collettiva, anche nella parte più sensibile alla problematica che stiamo trattando.

Una lettura di tipo diacronico-evolutivo del paesaggio agrario, che considera gli aspetti estetico-percettivi come epifenomeni dei processi produttivi in atto nel settore primario, è peraltro la lettura che ci ha proposto Emilio Sereni. Il quale, parlando della progressi- va riduzione della piantata nella pianura padana, diceva che “il pae- saggio della piantata padana è entrato in una fase di crisi, della quale gli sviluppi debbono essere studiati in modo approfondito, previsti ed orientati, per creare condizioni ambientali nuove, adeguate al più rapido sviluppo delle forze produttive agricole in queste province. Quei ceti produttivi di tecnici e di lavoratori agricoli che […] han-

no saputo sapientemente elaborare e portare alla più alta perfezione le sistemazioni e le forme della piantata padana, dispongono senza dubbio di tutte le capacità e di tutte le forze necessarie per intra- prendere […] questa opera di adeguamento delle forme tradizionali del paesaggio, dell’organizzazione e delle dimensioni aziendali alle nuove esigenze tecniche, produttive e sociali” (Sereni 1991, 457). Una visione forse un po’ troppo ottimistica, che ignorava alcuni aspetti deteriori dell’ipersfruttamento che si è poi verificato negli anni successivi, ma che pone in forte evidenza il ruolo determinante che svolgono (e debbono svolgere) le strutture produttive agricole nella conformazione del territorio.

Per altro verso, sappiamo oggi che la vitalità del sistema agricolo non è solo foriera di esiti positivi nello scenario territoriale: le attività che de- terminano uno sfruttamento intensivo, il depauperamento delle risorse naturali, l’inquinamento della ecosfera sono certamente negative e asso- lutamente da contrastare, assumendo come principio ordinatore dello sviluppo quello della sostenibilità. Ma anche una produzione sostenibile può essere creatrice di effetti dissonanti rispetto alla qualità percettiva del paesaggio. La vitalità delle aziende tende infatti, non di rado, per sua natura, a generare elementi di instabilità e disordine; col risultato che la scena paesistica non sempre si presenta all’osservatore ordinata e decoro- sa come ‘ci piacerebbe che fosse’.

Figura 4. Il processo di “ruderizzazione” dei fabbricati rurali storici divenuti esube- ranti od obsoleti, per quanto spiacevole, costituisce una inevitabile conseguenza della evoluzione dell’assetto produttivo primario.

L’aspetto più rilevante di questa problematica, almeno nel contesto padano, riguarda le condizioni in cui si trovano molti centri aziendali che presentano fabbricati in stato di cattiva manutenzione, o addirittura di degrado; situazioni molto diffuse a causa del continuo processo di accorpamento degli antichi poderi mezzadrili e del conseguente esubero ed obsolescenza degli edifici storici di pertinenza (fig. 4).

È una realtà che, per quanto spiacevole, risponde pienamente alle moderne logiche aziendali; per cui non sarebbe ragionevole (né realmen- te possibile) farne carico alle aziende, se non fornendo loro adeguati sus- sidi finanziari. Cosa che avviene in alcuni Paesi particolarmente ricchi e sensibili, quali la Svizzera e l’Austria in primis (o l’Alto Adige), ma che non sembra affatto proponibile in Italia, salvo in ambiti circoscritti di particolare pregio, per l’enorme consistenza del patrimonio immobiliare e l’esiguità delle risorse.

È dunque, questa, una realtà su cui non possiamo intervenire in mo- do incisivo e che dobbiamo accettare seppur ob torto collo. Ma è comun- que il sintomo di un territorio vivo e che si evolve. In fondo, fa parte dei processi naturali anche il fatto che gli edifici nascano, si sviluppino e muoiano. Anzi, proprio ragionando nell’ottica paesistica ci pare con- divisibile una tesi esposta da Lucio Gambi, per cui è meglio che un fab- bricato storico si riduca a rudere fino a scomparire, piuttosto che venga rimesso a nuovo con tecniche e soluzioni che ne snaturino i caratteri originari.

In ultima analisi (e qui mi aggancio con una riflessione anche un po’ provocatoria) dobbiamo chiederci: fino a che punto l’ordine e il decoro del paesaggio agricolo sono un valore fondamentale che dobbiamo asso- lutamente perseguire? O non sono, queste, esigenze che derivano dalla nostra forma mentis di cittadini per cui vogliamo che il nostro habitat sia pienamente sotto controllo? È davvero il paesaggio svizzero (per esem- plificare), così lindo e anche un po’ lezioso, il modello a cui tendere? O non è forse anche il disordine, entro certi limiti ovviamente, un fattore intrinseco della vitalità di un territorio? In altre parole, è il bel disegno di un assetto preordinato e statico l’obiettivo da porsi quando si interviene nel paesaggio agricolo, oppure anche la casualità e la variabilità contin- gente sono caratteri costitutivi dello spazio rurale da preservare?

Interrogativi che credo i pianificatori, e soprattutto gli architetti del paesaggio, dovrebbero porsi. D’altro canto, se guardiamo ancora al pas- sato e, in particolare, alle rappresentazioni pittoriche o letterarie (tranne quelle idealizzate), constatiamo che il paesaggio tipico della campagna

non presentava certamente l’ordine come una sua caratteristica domi- nante, anzi era piuttosto il disordine a far da padrone (fig. 5).

Lungi da me l’idea di fare un elogio del disordine. Vorrei però invita- re a riflettere sul rischio che una eccessiva rigidità compositiva e/o nor- mativa possa ostacolare i processi di adeguamento strutturale e rendere sterile e ‘museificato’ lo spazio agreste.

3. Processi di adattamento/sopravvivenza nelle aziende