• Non ci sono risultati.

Al fine di comprendere le caratteristiche dell’economia delle nuove guerre risulta illuminante il confronto con l’economia di guerra tradizionale. Quest’ultima, riferita ad un sistema centralizzato totalizzante e autarchico, come nel caso delle guerre totali del XX secolo, era strumento dell’amministrazione statale per massimizzare le entrate utili a finanziare il conflitto. Mobilitazione, sforzo produttivo, autosufficienza costituiscono invece elementi del tutto estranei alle guerre “globalizzate”, che presuppongono frammentazione e decentralizzazione dello stato. Queste economie sono disastrate, spesso sottoposte ad embarghi e sempre caratterizzate da altissimi livelli di disoccupazione. In verità, in questi paesi, una netta differenza tra l’economia in tempo di pace e quella “di guerra” non esiste. Distruzioni prodotte dalla guerra, perdita di mercati vitali, caduta di misure

tentativi dell’ultimo premier Ante Markovic di salvare la Federazione, a quelle della società civile, come l’immensa catena umana contro la guerra lungo i ponti di Mostar nel luglio del 1991, testimoniano l’esistenza di una componente multiculturalista e tollerante che, benché indebolita e assediata da ogni parte, non venne meno neanche nei mesi più bui della guerra. Cfr. Idem, Le nuove guerre, cit., pp. 43-81.

23

protezionistiche, persistente penuria alimentare, diffusione del mercato nero, hanno contribuito a consegnare l’economia nelle mani di potenti reti criminali. A fatica risulta possibile distinguere obiettivi pubblici da interessi privati, vengono meno le differenze tra stato e attori non statuali, tra attività militari e crimini, in una dimensione in cui diventano trascurabili anche le distinzioni tra gli effetti generati da conflitti locali, da guerre civili, da conflitti internazionali38.

Come la violenza, anche l’economia delle nuove guerre, lungi dal costituire un fattore succedaneo e determinato da altre variabili, ha spesso una sua intrinseca logica, tanto che molte guerre civili persistono parzialmente in funzione di razionali calcoli economici. Solo la comprensione di questi ultimi può spiegare gli esiti inediti e paradossali39 raggiunti in alcuni casi, quali la volontà di alimentare piuttosto che interrompere i conflitti e addirittura la cooperazione tra gli opposti schieramenti.

In quest’ottica, hanno avuto senso le decisioni di leader politici e guerriglieri di interrompere i cessate-il-fuoco e le trattative allo scopo di istituzionalizzare la violenza, la corruzione e lo sfruttamento. In sintesi, all’interno di economie di guerra caratterizzate da forme sistematiche di spoliazione e di accesso alle risorse garantito esclusivamente ai propri accoliti, e integrate nel commercio internazionale, la vittoria politico-militare non necessariamente è percepita come desiderabile. Si può aggiungere che alla base dei conflitti post-moderni il rovesciamento del pensiero clausewitziano assume la forma più radicale. La guerra, infatti, non si limita a costituire il “fine”, così come le violenze a danno dei civili non rappresentano più il “mezzo”. In realtà, il fine trova espressione in forme di abuso sistematico e di crimini contro le popolazioni, pratica questa funzionale all’immediato realizzo economico, e il mezzo è rappresentato dalla guerra stessa e dalla sua perpetuazione. A tal proposito, risulta significativa l’espressione di Kolko secondo cui a desiderare la

38

Idem, Le nuove guerre, cit., p. 107 e Mary Kaldor - Basker Vashee (eds.), Restructuring, cit., pp. 17-19.

39

Si veda lo studio di David Keen, The Economic Functions of Violence in Civil Wars, London, The International Institute for Strategic Studies, Adelphi Paper, No. 320, June 1998.

Vale la pena ricordare due episodi. In una circostanza, il contingente dell’ONU intercettò una conversazione tra il comandante militare di Mostar e il locale comandante serbo, in cui si discuteva la cifra in marchi tedeschi che sarebbe stata pagata qualora i serbi avessero bombardato i croati. Più celebre un episodio accaduto nel luglio del ’93. Dopo la conquista da parte serba del monte Igman, da cui si domina Sarajevo, i gruppi paramilitari che difendevano in quel momento la montagna si dichiararono pronti a “venderla” ai nemici musulmani in cambio del controllo del mercato nero. Cfr. Mary Kaldor, Le nuove guerre, cit., p. 62.

Altro esempio di “nuova guerra”, in cui la rincorsa del profitto gioca un ruolo fondamentale, il conflitto nella ex-Jugoslavia viene ricordato come il primo in cui le armi, piuttosto che venire costruite o importate, venivano esportate e talvolta vendute al nemico nel corso delle ostilità. Su questi traffici, cfr anche Michele Gambino – Luigi Grimaldi, Traffico d’armi. Il crocevia jugoslavo, Roma, Editori Riuniti, 1995.

24

guerra non è mai il popolo, bensì un manipolo di uomini affetti da una cecità

socialmente autorizzata40.

Pertanto, nell’agenda economica delle nuove guerre organizzazione del commercio, sfruttamento del lavoro, accaparramento selvaggio delle risorse, creazione di privilegi per i militari, furto degli aiuti umanitari, risultano obiettivi scientemente perseguiti e non risultati inevitabili dei conflitti. Parimenti, si assiste a forme di cooperazione col nemico ai fini dell’ottimizzazione dei risultati economici e addirittura a strategie volte ad aumentare il potenziale bellico della parte avversa41.

Stando allo studio di Keen, esistono sette condizioni in ragione delle quali gli stati ricorrono alla violenza al fine di autofinanziamento:

• Stato debole;

• Movimenti ribelli senza sostegno finanziario straniero; • Regime autoritario minacciato;

• Crisi economica;

• Divisioni etniche attraversate da tensioni sociali; • Disponibilità di risorse;

• Conflitto prolungato42.

In questi casi, per le élites politiche la situazione conflittuale costituisce un pretesto del ritardo del processo di democratizzazione. Ciò che si instaura è un circolo vizioso nel quale il venir meno del sostegno estero induce al saccheggio e alla spoliazione delle risorse. Nel momento in cui lo stato non riesce a far fronte alle esigenze della sicurezza, prendono forza fenomeni di privatizzazione della guerra.

Tre fattori, invece, incoraggiano il ricorso alla violenza “dal basso”: • Profonda esclusione socio-economica;

• Assenza di una forte organizzazione rivoluzionaria; • Impunità43.

In realtà, contesti sociali gravemente influenzati da guerra e miseria hanno costituito un terreno fertile in cui la violenza dello stato generava quella sociale e viceversa.

40

Gabriel Kolko, A Century of War. Politics Conflicts and Society since 1914, New York, New Press, 1994, cit. in Mary Kaldor, Le nuove guerre, cit. p. 38.

41

In Liberia, tra guerriglia e truppe regolari fu concordata una tattica con cui si evitavano battaglie in campo aperto. Mentre in Cambogia, in Cecenia, in Sierra Leone e in Sri Lanka, venivano vendute armi e munizioni al nemico. Cfr. David Keen, The Economic Functions, cit., p. 17-18.

42

Idem, p. 24 e ss.

43

25

Secondo Keen, orrori e crudeltà si legano alle funzioni economiche della violenza organizzata, come in Ruanda, dove anche l’opportunità di far fronte alla carenza di terreni coltivabili incoraggiò migliaia di Hutu a partecipare al genocidio del 1994.

In conclusione, un numero sempre maggiore di guerre civili, originariamente motivate da ragioni politiche, si è trasformato in conflitti il cui fine essenziale è rappresentato da benefici economici di breve termine. Ciò nonostante, fattori come l’ideologia e l’identità rimangono forti chiavi interpretative in grado di spiegare, anche se parzialmente, il perdurare delle ostilità. Né il riemergere violento di tensioni etniche, tanto meno la presunta deviazione dall’inevitabile processo storico diretto verso la democrazia liberale paiono giustificazioni convincenti.

Per conseguire soluzioni durevoli occorre riconoscere che esistono gruppi per i quali la violenza costituisce un’opportunità e non un problema, e che un’economia di guerra appare talvolta preferibile a nessuna economia affatto44. A fronte di queste

inedite configurazioni di poteri e di alleanze, i perdenti restano le popolazioni civili i cui diritti sono sistematicamente alienati.