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Una delle principali critiche mosse alla commercializzazione della sicurezza si basa sul fatto che la privatizzazione pone enormi questioni di responsabilità (accountability) politica e legale. Ci si chiede, anzitutto, verso chi deve rendere conto una PMC per le sue attività: a questa domanda non è semplice fornire una risposta chiara ed univoca.

La stipula di contratti di sicurezza privata al di fuori di un ombrello governativo fa sì che questa venga spostata dal settore pubblico a quello privato a

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fini di profitto. Inoltre, la natura delle PMC, orientate esclusivamente al guadagno economico, le rende assai diverse dalle forze armate nazionali, vincolate da codici e regole e pertanto responsabili al corpo politico di una nazione: vengono a mancare così quegli strumenti di bilanciamento e controllo (checks and balances) tipici delle forze armate. L’assenza di strumenti di controllo internazionalmente vincolanti introduce questioni di trasparenza, rettitudine, rispetto dei diritti umani nei confronti del cliente, non essendo chiaro a chi far risalire la responsabilità in caso di abusi e crimini. A queste difficoltà, va aggiunta la natura quasi sempre riservata o segreta dei contratti stipulati dalle PMC, in nome della privacy verso il cliente. Questa presunta esigenza è tuttora alla base dell’estrema difficoltà con cui si reperiscono informazioni non solo sull’operato dell’industria privata, ma anche sulla natura e la composizione di molte compagnie.

Analizzando in dettaglio le modalità di controllo, occorre anzitutto rilevare la natura controversa del “controllore”. Non è semplice identificare il soggetto cui addebitare il controllo delle attività di una PMC e quello della sua clientela. E’ arduo per gli stati di origine a causa della natura “volatile” delle PMC: diverse di queste hanno operato per organizzazioni criminali o regimi dittatoriali e non sempre nell’interesse delle loro cancellerie di origine. In altri casi, non è da escludere che gli stati si servano delle loro compagnie, sacrificando questioni di legittimità ed etica sull’altare della ragion di stato: ad esempio, dopo due anni di lobbying intensa presso il Dipartimento di Stato, MPRI ottenne la licenza a realizzare un piano di assistenza alle forze armate e alla guardia costiera della Guinea Equatoriale. La paura che un contratto con un paese produttore di petrolio finisse nelle mani di un possibile rivale di Washington superò gli originari tentennamenti ad intervenire a fianco ad una delle più rigide dittature africane. Neppure il mercato, come sostenuto dai fautori della sicurezza privata, può costituire un vero disincentivo dall’intraprendere missioni di dubbia legittimità: se non è facile provare che nel 1996 EO fosse in procinto di intervenire a fianco di Mobutu, è invece certo che diverse PMC combatterono sia per l’ex dittatore che per le forze dell’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo-Zaïre (AFDL). Spesso, la possibilità di ingenti e rapidi guadagni può far passare in secondo piano le tanto sbandierate questioni di legittimità. A tal proposito, si può aggiungere che non esistono criteri universalmente riconosciuti per valutare se un cliente è “legittimo” – ossia l’unica tipologia di beneficiario dei servizi delle PMC, secondo quanto esse dichiarano. In tutti questi casi, come si vede, sarebbe assurdo parlare di limiti imposti dal mercato e di

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responsabilità. Tanto meno può esercitare alcuna forma plausibile di controllo lo stato cliente: questo, spesso identificato come “stato debole”5, difficilmente ha la capacità di assicurare lo stato di diritto durante una crisi o una guerra civile, è inadeguato già di per sé nell’esercizio dell’uso della forza e non è certo nella posizione contrattuale adatta a costringere una PMC a rispondere dei suoi eventuali crimini. A maggior ragione, è impensabile che siano altre istituzioni o soggetti nazionali diversi dal governo, come la società civile spesso inesistente o del tutto ininfluente in questi paesi, ad esercitare una qualsiasi forma di controllo6: accade pertanto che lo stato cliente è in balia delle PMC. Nel caso peggiore, può addirittura verificarsi quanto accadde in Sierra Leone nel 1995: davanti all’impossibilità per i

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Una situazione simile si verificò nel settembre 2007 a Baghdad quando gli uomini del contractor statunitense Blackwater, di scorta ad un convoglio del Dipartimento del Stato americano, scatenarono una sparatoria che lasciò a terra una trentina di civili iracheni. Pare che lo scontro a fuoco, poi degenerato nel caos nel popoloso quartiere Mansour, sia nato a seguito della presenza accidentale di un veicolo iracheno sulla strada percorsa contromano dagli uomini della Blackwater. Le violenti proteste delle autorità irachene e del premier Al Maliki si scontrarono contro il muro di gomma dei rappresentanti della compagnia privata e dell’esercito americano. Gli sforzi delle autorità irachene per l’istituzione di una commissione di inchiesta e per la cacciata della Blackwater (che ha ancora un migliaio di uomini in Iraq) apparirono subito velleitari per un paese sotto occupazione. Tra l’altro, l’impunità in cui si trovano ancora oggi i contractors americani in Iraq trova una sorta di base giuridica nella Ordinanza 17 di Paul Bremer, un decreto con cui l’ex rappresentante della Coalition Provisional Authority (CPA) impediva ai tribunali iracheni di processare eventuali crimini commessi dai neo-mercenari nel paese. Altri numerosi “incidenti” mortali in cui era stata coinvolta in passato la Blackwater si erano risolti con l’immediato allontanamento da parte della compagnia stessa, con la complicità delle autorità americane, dei suoi impiegati responsabili dei crimini. L’espulsione dall’Iraq per evitare le indagini della giustizia irachena raramente coincide alla punizione dei mercenari da parte del contractor stesso o della magistratura americana. Sugli scandali legati alla Blackwater in Iraq, si legga Jeremy Scahill, “Licenza di uccidere”, (trad. it) in Internazionale, 19/25 ottobre 2007, N° 715, Anno 14, pp. 42-46.

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A ben vedere, neppure la proposta contenuta nel Green Paper britannico – imporre per contratto alle PMC di aderire ad associazioni che rispettino i diritti umani, il diritto internazionale e la sovranità dei paesi clienti – può considerarsi un adeguato mezzo di controllo. Così come sono nate le lobbies per la privatizzazione del peacekeeping, infatti, possono venire alla luce organizzazioni associative, campagne e gruppi di pressione che agiscono come emanazione delle PMC e ne difendono velatamente gli interessi. Questa è la precisa accusa che l’africanista francese Jean-François Bayart ha mosso al ruolo svolto dalla ONG inglese International Alert (IA) in Sierra Leone. IA, che dichiara di operare da venti anni a favore della pacifica risoluzione dei conflitti e di processi di “pace sostenibile” ed è presente in decine di paesi, avrebbe giocato un ruolo ambiguo in Sierra Leone, servendo da copertura alle attività delle PMC. A sostegno di questa accusa vi è pure una lettera inviata dal presidente sierraleonese Kabbah al Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan e pubblicata integralmente sul quotidiano cingalese The Island il 29 marzo 1998 – IA è presente anche in Sri Lanka ove è stata accusata di agire per conto delle Tigri Tamil: Kabbah punta il dito senza mezzi termini contro la ONG, accusata di portare avanti una campagna destinata a prolungare il conflitto in Sierra Leone, al fine di continuare a ricevere finanziamenti da parte di paesi donatori che sarebbero implicati nello sfruttamento illegale delle pietre preziose e della vendita di armi al RUF. IA ha sempre negato ogni accusa, sostenendo che esse sono prive di fondamento Cfr. Xavier Renou, (avec Philippe Chapleau, Wayne Madsen, François-Xavier Verschave), La privatisation de la violence. Mercenaires & sociétés militaires privées au service du marché, Marseille, Agone, 2005, pp. 134-135 e “International-Alert: The True Story”, The Island, March 29, 1998.

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piloti di EO di distinguere tra civili e ribelli nella fitta foresta pluviale, il regime di Strasser non esitò a ordinare alla compagnia di aprire il fuoco su qualsiasi bersaglio7. Un secondo ordine di problema è rappresentato dall’oggetto del controllo. Come si è visto, oggi le PMC aspirano ad una legislazione che regoli la loro attività. In questo senso, vengono auspicati sistemi di monitoraggio, dichiaratamente preposti ad assicurare la correttezza e la legalità di un’operazione, oltre che il più ligio rispetto delle clausole contrattuali. Non è semplice tuttavia realizzare un efficace strumento di controllo, che dovrebbe articolarsi su tre livelli: a priori, ossia sulla compagnia stessa, in itinere, ovvero per verificare il rispetto di quanto stabilito nei contratti, e a posteriori, per valutare l’operato della PMC. Come si vedrà più avanti, le discrasie dei sistemi di controllo rischiano spesso di vanificare la presunta competitività economica dell’outsourcing militare. Se l’ipotesi di un auto-controllo viene considerata troppo permissiva, dal caso statunitense emerge che neppure i meccanismi di controllo più complessi danno esiti soddisfacenti: molto spesso colui che dovrebbe vigilare sulle PMC appartiene alla stessa realtà (quella militare), condivide i medesimi valori o in ultima istanza è un fautore dell’outsourcing ai privati.

A ben vedere, i problemi di controllo e responsabilità non costituiscono un potenziale rischio solo per il cliente o la collettività, ma si estendono agli stessi operatori della sicurezza privata nei riguardi dei loro datori di lavoro. Infatti, non c’è chiarezza sulle regole di ingaggio dei neo-mercenari, sui loro standard qualitativi e neppure sull’esatta definizione del loro ruolo nei campi di battaglia: negli Stati Uniti ci si chiede correntemente come l’esercito debba comportarsi nei confronti dei

contractors. Gli interrogativi riguardano la loro possibilità di portare le armi, il loro

diritto a sparare ed uccidere, o se è lecito, nel caso di un loro rapimento, impegnare i militari per liberarli con costi e rischi non indifferenti. Tra l’altro, non essendo previsti programmi d’emergenza per tutelare il personale privato, si pensa che questo fuggirebbe dal teatro di battaglia nel caso di utilizzo di armi non convenzionali. Ancora una volta, questa scelta non equivarrebbe, secondo la legge, ad una diserzione.

Come ha affermato Singer a proposito dei “dilemmi contrattuali”8 dell’industria privata, il problema di una informazione incompleta costituisce una

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Cfr. Patrick Cullen, “Keeping the New Dog of War on a Tight Leash. Assessing Means of Accountability for Private Military Companies”, Conflict Trends, Vol. 6, June 2000, p. 38.

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Peter W. Singer, Corporate Warriors. The Rise of the Privatized Military Industry, Ithaca (Ny.) – London, Cornell University Press, 2003, pp. 151-168.

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grande contraddizione per le PMC. Da un lato esse pretendono di sostituirsi al settore pubblico, esautorandolo, dall’altro dichiarano di volersi sottoporre al suo controllo; lo stesso avviene con l’ONU, nel momento in cui le lobbies delle PMC la ritengono inefficace sul campo, economicamente inefficiente, appesantita dalla burocrazia e spesso corrotta, salvo poi proporre che sia il Palazzo di Vetro a dispiegare i suoi osservatori per monitorarne l’operato della sicurezza privata. D’altronde, se è vero che il successo delle PMC dipende dall’applicazione di logiche di mercato agli affari militari (disponibilità immediata di intervento, rapidità di esecuzione, tutela della

privacy del cliente, costi inferiori), il suo valore aggiunto finirebbe per ridursi o

scomparire se venissero adottate limitazioni tipiche del settore pubblico.

Malgrado tentativi più o meno contraddittori di regolamentare il settore, gli scenari futuri sembrano piuttosto delineare derive e rischi nell’industria della sicurezza privata. Si prevede che si andrà verso una segmentazione del mercato, in base alla quale vi sarà un numero molto limitato di PMC altamente qualificate e professionali e al contrario una proliferazione di compagnie di basso livello e pertanto disposte ad ogni tipo di intervento. Inoltre, si teme che il mercato verrà caratterizzato da quello che la teoria economica denomina “selezione avversa”: la competizione tra le compagnie, piuttosto che creare un sistema virtuoso destinato ad eliminare dal mercato le meno affidabili e a premiare le migliori, potrebbe innescare un meccanismo che attiri attori screditati alla ricerca di una parvenza di legittimità. Questo scenario è assai probabile considerato il passato di molti impiegati delle PMC, spesso ex mercenari o ex militari cacciati dall’esercito per problemi di condotta, o ancora appartenenti alle forze speciali di regimi autoritari e responsabili di terrorismo di stato9.

Alle difficoltà di controllo giuridico si aggiunge infine l’assenza di un organo deputato ad imporre le sanzioni in caso di reati. I fautori della sicurezza privata propongono di introdurre nei contratti delle penalità in caso di violazione dei diritti umani da parte del personale delle PMC, un po’ come avviene per le aziende che inquinano e ne pagano gli effetti. Oltre ad essere moralmente inaccettabile – è come se le PMC potessero acquistare un “permesso a violare i diritti umani”10 – la proposta

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E’ illuminante che lo stesso Doug Brooks, leader dell’IPOA, ammetta che i migliori impiegati di una PMC spesso “…[are] not nice guys. You wouldn’t want them to marry your sister”. Cfr. idem p. 222.

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è difficilmente realizzabile vista la propensione delle compagnie a sciogliersi e scomparire prima che la giustizia arrivi e faccia il suo corso11.

In definitiva, nella delega di mansioni militari a soggetti non-statuali permangono contraddizioni insuperabili. La privatizzazione della violenza sottrae l’expertise militare dal dominio pubblico e cancella quella linea che divide uno esercito che lavora in nome di un stato, da uno che interviene secondo logiche di mercato e di profitto.