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Verso un sistema di sicurezza sub-regionale: il caso dell’Economic Community of West African States

(ECOWAS) e dell’ECOWAS Cease-fire Monitoring

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Nella lunga e complessa contrapposizione tra “pubblico” e “privato”, l’opinione di alcuni analisti riguardo l’Africa sub-sahariana è che la scelta che si pone ai policy makers non è tanto tra un sistema “pubblico” e uno “privato” di sicurezza, bensì tra diverse varianti di uno stesso sistema, quello privato1. Non a caso, la formulazione e la definizione delle politiche pubbliche in Africa si scontrano con numerosi dilemmi che rendono realmente difficile l’operato dei costituzionalisti africani.

Per meglio contestualizzare l’emergere della privatizzazione della sicurezza non è sufficiente riferirsi ai processi vissuti dai paesi africani nell’era della globalizzazione dei mercati, ma occorre analizzare le origini di questi dilemmi che risultano inevitabilmente correlati proprio all’incapacità di molti Stati africani di sviluppare sistemi “pubblici” di sicurezza. Alla luce di ciò, una rilettura delle dinamiche di nation-building – sviluppatesi all’alba della decolonizzazione - può rilevarsi utile per valutare se in un contesto diverso da quello strettamente nazionale e stato-centrico si sarebbero potute meglio definire e modulare le strategie di una coesistenza più pacifica tra le diverse realtà neo-indipendenti.

Parimenti, l’evoluzione intrapresa in sede continentale dai meccanismi di

conflict resolution va rivelando la riscoperta di quelle ipotesi associative e quegli

approcci integrati alle questioni inerenti la sicurezza che durante i processi di nation-

building – negli anni sessanta – risultarono minoritarie e vennero sacrificate

sull’altare di un’impostazione fortemente nazionale e stato-centrica delle nuove realtà che si venivano a costituire.

E’ in questa chiave – quella di un crescente affidamento alle realtà associative regionali africane – che vanno cercate e possono essere trovate le soluzioni non solo alle minacce alla sicurezza, ma anche ad una più generale assenza di alternative alla risoluzione dalle ricorrenti crisi del continente africano. Se le dinamiche instauratesi con il crollo del sistema bipolare hanno decretato un ridimensionamento geopolitico per l’Africa sub-sahariana, il ruolo svolto dalle organizzazioni regionali africane – una volta corrette certe contraddizioni e discrasie – può rivelarsi di vitale rilievo per il futuro del continente.

1

Christopher Clapham, “African Security Systems: Privatisation and the Scope for Mercenary Activity”, in Greg Mills - John Stremlau (eds.), The Privatisation of Security in Africa, Pretoria, The South African Institute of International Affairs, 1999, p. 23.

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Il dilemma della sicurezza

L’irraggiungibilità di un ideale di sicurezza pubblica in Africa è determinata dal fatto che essa viene pensata esclusivamente a garanzia di pochi gruppi sociali, quelli cui è consentito l’accesso al potere politico e alle risorse.

La natura del problema dell’insicurezza va ricercata nella forma specifica della sovranità africana. Essa, in Africa, nacque dall’imposizione di un modello weberiano di sovranità territoriale tipicamente europeo, compendiato nella creazione di entità territoriali fisse e di unità politico-territoriali organizzate sotto una stretta gerarchia di una singola autorità centrale. Storicamente, l’applicazione di tale forma di autorità scaturì dall’esigenza di nuove e migliori forme di sfruttamento economico. Questa, ad esempio, è stata la parabola attraversata dallo Stato Libero del Congo di re Leopoldo II di Belgio (1888-1908). Qui la ricerca di più efficaci forme di sfruttamento trasformò un’autorità politica inizialmente finalizzata alla mera estrazione di profitto da una popolazione pressoché ridotta in schiavitù, alla incorporazione di quella ricca regione nell’impero coloniale belga2.

2

Adam Hochschild, in Gli spettri del Congo: re Leopoldo II del Belgio e l’olocausto dimenticato, trad. it., Milano, Rizzoli, 2001 fa luce su una delle pagine più nere del colonialismo europeo, e in particolare sulle crudeltà del regime delle Compagnie che fece in Congo da cinque a otto milioni di vittime nel periodo compreso tra il 1888 e il 1908. Quest’episodio, reso celebre dalla denuncia di Mark Twain in Soliloquio di Re Leopoldo e dalle proteste del primo movimento mondiale per i diritti umani, fu rivelato dall’attività del giornalista nero americano George W. William e del missionario William Sheppard, nonché dall’esperienza diretta di un funzionario delle dogane e poi attivo filantropo, Edmund Dene Morel. Le pressioni dell’opinione pubblica internazionale e la bancarotta finanziaria del sistema delle Compagnie indussero nel 1908 il “re dalla barba fiorita” (ma che mai, pur esercitandovi un dominio personale, aveva messo piede in Congo) a cedere allo Stato belga i suoi diritti sul Congo. A sottolineare la natura squisitamente “privata” dello Stato Libero nell’ottica di Leopoldo, Hochshild fa notare che, per ereditare il Congo, il governo belga dovette farsi carico del debito della colonia, una parte del quale era in realtà nei confronti di se stesso, ovvero il prestito di 32 milioni di franchi che il monarca non aveva mai restituito. In base all’accordo il Belgio accettò di pagare anche 45 milioni di franchi per il completamento di alcuni progetti edilizi avviati dal re. Questi, infine, riuscì a farsi pagare, a rate, altri 50 milioni di franchi “in segno di gratitudine per i grandi sacrifici compiuti per il Congo” (sic!). In verità, osserva Hochschild, le condizioni di vita delle popolazioni sottoposte a dominio coloniale, anche dopo l’annessione belga, non furono rosee. I rapporti sui raccoglitori di gomma selvatica diminuirono in maniera significativa, per cui, anche se notevolmente ridimensionate, non è possibile dire con certezza se pratiche quali l’incendio sistematico dei villaggi, la tenuta in ostaggio di donne e bambini per il mancato raggiungimento degli obiettivi di raccolta o, sempre per lo stesso motivo, l’orrore di mozzare le mani, fossero del tutto scomparse. Quello che è certo è che, per sprofondare nell’oblio una realtà fatta di lavoro forzato, di catene, di portatori affamati, di sentinelle paramilitari e della chicotte – la frusta di pelle di ippopotamo intrecciata – Leopoldo e i funzionari coloniali belgi che gli succedettero fecero di tutto per cancellare le potenziali prove incriminanti delle testimonianze storiche. Si racconta infatti che nel 1908 Leopoldo II fece bruciare tutti gli archivi dello Stato Libero del Congo, operazione durata una settimana. In Europa, così, l’intera storia del regime di Leopoldo II e del movimento che l’aveva contrastata veniva fatta scomparire dalla memoria collettiva. Vedi Mario Mannini, “Gli spettri del Congo”, Giano, N. 38, Anno XIII, maggio-settembre 2001, pp. 172-174 e Anna Maria Gentili, Il leone e il cacciatore: storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, p. 156.

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La dominazione coloniale stimolò processi di mero adattamento anche nel campo della sicurezza, conducendo alla creazione di eserciti costituiti sulla falsariga di quelli europei e destinati a rivelarsi forieri di gravi conseguenze. La debolezza di questi apparati di protezione emerse in tutta la sua gravità all’alba dell’indipendenza: nell’ex Congo belga, ad esempio, il fallimento dell’esercito nazionale lasciò i governanti neo-eletti dipendenti dall’assistenza delle Nazioni Unite o vittime di bande mercenarie.

Tuttavia, anche quando l’esperienza mercenaria smise, nel corso degli anni 80, di costituire la principale minaccia all’autodeterminazione dei popoli nelle ex- colonie, apparve chiaro che i problemi della sicurezza erano legati alle peculiarità della stessa sovranità africana. In assenza di una comune “idea di stato”, caso tipico di comunità politiche prive di identità, non può esservi neanche una struttura pubblica di sicurezza pienamente condivisa. E, a prescindere dal sistema di protezione istituito, esso non può che finire privatizzato, giacché è espressione di determinati gruppi di potere (stranieri o nazionali) piuttosto che di altri. Non stupisce, dunque, che si tenda a considerare la sicurezza come un bene di consumo, analogo a molti altri, acquistabile sul mercato da coloro che sono disposti a pagarne il prezzo3.

Pertanto, le forze armate dei paesi africani sono state caratterizzate da una incompetenza (“unprofessionalism”)4 cronica che le ha spinte al oltrepassare quel

civil-military divide, condizione essenziale della separazione di poteri per uno stato

democratico. Il reclutamento su base etnica, la cooptazione dall’alto, la corruzione diffusa, le lealtà personali contrapposte agli interessi nazionali, le protezioni esterne e l’utilizzo degli apparati di sicurezza a fini di sopravvivenza politica sono quei fattori che conducono ad una generalizzata assenza di professionalità deglii eserciti che, per questo, sono più inclini a costituire una minaccia, piuttosto che una garanzia, per le proprie società.

I mutamenti sistemici in seguito alla fine della contrapposizione tra i blocchi e la globalizzazione dei mercati, poi, hanno fatto sì che gli stati sub-sahariani si trovassero a passare “da una realtà pre-statuale ad una post-statuale”5. L’insistenza, diffusa nel periodo dell’indipendenza, sul concetto di nation-building e sulla sua presunta capacità di dar vita ad una qualche forma di sovranità mutuata sullo schema

3

Eboe Hutchful, “Understanding the African Security Crisis”, in Abdel-Fatau Musah - J.‘Kayode Fayemi (eds.), Mercenaries: An African Security Dilemma, London, Pluto Press, 2000, p. 222.

4

La tesi dell’assenza di professionalità delle forze armate africane è di Herbert M. Howe, Ambiguous Order: Military Forces in African States, Boulder, (Co.), Lynne Rienner, 2001.

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europeo, appare oggi, nell’era dell’aggiustamento strutturale, poco più che un ricordo nostalgico.

In breve, l’emergere dei nuovi mercenari e delle preoccupazioni relative al fenomeno della privatizzazione della sicurezza nell’Africa contemporanea è più il risultato che la causa dei problemi africani. Un’ulteriore analisi6 dei fattori che stanno alla base dei dilemmi della sicurezza nel continente africano ha evidenziato come il tipo di minacce cui sono andate incontro le comunità politiche non è assimilabile a quello degli stati di prima formazione. A differenza di questi ultimi, infatti, i principali pericoli per la sicurezza dei paesi del Terzo Mondo sarebbero interni, per lo più correlati alla loro natura di società multi-etniche debolmente integrate, ai loro confini imposti e fittizi, alle loro economie deboli e disarticolate, e alla dipendenza economica dai paesi del Nord. La nascita di questi stati, in un panorama storico-internazionale radicalmente diverso da quello dei paesi europei, ha dovuto far fronte alle esigenze di sviluppare gli attributi di una sovranità in un arco temporale di gran lunga inferiore a quello dei first comers7.

Il disordine interno dovuto al loro essere “stati giovani” e l’insicurezza determinata dall’entrata tardiva nel sistema internazionale costituiscono due limiti fondamentali dei paesi in via di sviluppo. Questi, da un lato proteggendo la loro sovranità e dall’altro cercando di tradurla in senso empirico, vivono una profonda contraddizione: difendere la sovranità statale nel più ampio contesto del rispetto dei diritti umani o accettarne la violazione allo scopo di esercitare il controllo su elementi riluttanti verso il potere statale (gruppi ribelli, minoranze)?

E’ qui, secondo molti analisti, il problema chiave delle società africane contemporanee, da taluni definito il “dilemma del governante”8. La sicurezza, una variabile sia dipendente che indipendente, è allo stesso tempo causa ed effetto dell’esercizio del potere all’interno di una comunità politica. Governare significa creare ed assicurare le condizioni di sicurezza, ma richiede anche di gestire l’uso della forza. Pertanto, esercitare l’autorità politica non è solo la proiezione della sicurezza, ma è anche l’effettiva gestione degli strumenti di coercizione. Tuttavia, rafforzare la sicurezza interna rischia di alimentare l’insicurezza del governante,

6

Si veda, ad esempio, il lavoro di Mohammed Ayoob, The Third World Security Predicament: State Making, Regional Conflict, and the International System, Boulder, (Co.), Lynne Rienner, 1995.

7

Ayoob intravede qui un’analogia con la celebre analisi di Gerschenkron relativa ai due diversi “tipi” di sviluppo economico seguito dagli stati e in base alla quale si distinguono i first comers dai late comers. Il testo di riferimento è Alexander Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge, (Ma.), Harvard University Press, 1962.

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poiché “uomini forti” (warlords, gruppi ribelli) possono emergere all’interno degli apparati di sicurezza, rafforzarsi e costituire una minaccia per il governante stesso. Per questa ragione, indebolire deliberatamente i controllori della violenza è un’opzione attraente per molti governanti, ma che può inevitabilmente rivelarsi fatale a lungo termine9.

Alla luce di quanto esposto, si comprende la natura e l’estensione, a tutti i paesi dell’area, della debolezza infrastrutturale rappresentata dalla questione della sicurezza. Da qui, si evince altresì l’esigenza di ricercarne una soluzione condivisa, attraverso un approccio integrato che metta in comune le diverse realtà statuali africane oggi in crisi. Prima di esplorare questo campo, tuttavia, è importante ritornare sui cambiamenti attraversati dalle politiche e dalle strategie di mantenimento della pace e risoluzione dei conflitti negli ultimi anni: emerge chiaramente la modifica dei presupposti alla base del concetto di peace-making in seguito al crollo del sistema bipolare.