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La ricerca della sicurezza privata: la “domanda” e l’”offerta” Tutti gli studi sulla sicurezza privata sono concordi nell’inserire il fenomeno

nella più ampia discussione sul restringimento della sovranità statuale in Africa53, mentre al livello sistemico si è soliti far riferimento a tre macro-cause: la fine della guerra fredda, l’emergere di un nuovo warfare, più tecnologico e che fa meno uso di civili, e la diffusione planetaria di logiche di mercato54.

Alla luce di questi cambiamenti, i cui tratti peculiari sono stati in parte analizzati, si comprende il retroterra delle compagnie militari private (Private

Military Companies, PMC) e le condizioni che hanno favorito il boom della

sicurezza privata.

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L’esigenza di assicurare al commercio internazionale le risorse di un paese ha indotto molti analisti a parlare di “Stato locatore”. Questa tesi, sviluppata sul caso del Gabon da Douglas A. Yates in The Rentier State in Africa: oil rent dependency and neocolonialism in the Republic of Gabon, Trenton, (N.J.), Africa World Press, 1996, si applica nei casi in cui le entrate dallo scambio con l’estero vengono direttamente gestite da compagnie multinazionali in grado di fornire, in maniera pressoché esclusiva, capitali, expertise ed accesso al mercato internazionale. Lo stato, pertanto, entra in relazione simbiotica con partner stranieri, il che conduce presto alla commercializzazione della sicurezza necessaria alla protezione di installazioni e aree di interesse economico delle corporazioni. Anche l’Angola, dove le attività di eserciti privati sono concentrate nelle zone di interesse economico straniero, sembra rientrare nella categoria dello stato locatore. Cfr. Christopher Clapham, “Africa Security Systems: Privatisation and The Scope for Mercenary Activity” in Greg Mills - John Stremlau (eds.), The Privatisation of Security in Africa, Pretoria, The South African Institute of International Affairs, 1999, p. 34.

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Mark Duffield, Post-Modern Conflict, cit., p. 1.

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Emmanuel Kwesi Aning, “Africa’s security in the new millennium. State or Mercenary Induced Stability?”, Conflict Trends, No. 6, June 2000, p. 30.

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Cfr. Peter W. Singer, “Peacekeepers, Inc.”, Policy Review, June 2003.

Si va verso l’utilizzo di nuove strategie belliche, come quelle della Revolution in Military Affairs (RMA) in cui l’elemento determinante sul campo è caratterizzato dall’informazione, e verso nuovi conflitti chiamati Military Operations Other Than War (MOOTW). In ogni caso, viene meno l’esigenza di un utilizzo massiccio di personale militare. Cfr. Eugene B. Smith, “The New Condottieri and US Policy: The Privatisation of Conflict and Its Implications”, Parameters, Vol. XXXII, No. 4, Winter 2002-03, p. 104.

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Parimenti al decrescere degli aiuti pubblici allo sviluppo, è venuto a mancare al livello politico-diplomatico quel sistema di patronage che aveva consentito a diversi pseudo-stati di mantenersi in vita grazie alla contrapposizione dei blocchi e alla divisione del mondo in sfere di influenza. La percezione di un nemico esterno, la lotta contro il “comunismo” o l’”imperialismo americano”, talvolta solo nella propaganda di regime, tal altra attraverso proxy wars (ad esempio, le tensioni tra ex- Zaire ed Angola), avevano contribuito a puntellare istituzioni statuali fittizie - soltanto strumentali agli interessi delle super-potenze nell’Africa sub-sahariana – ed a perpetuare l’esistenza di apparati di difesa inefficienti e potenzialmente destabilizzanti55.

Di questa sorta di perdita di interesse56 del mondo occidentale nei confronti dell’Africa e del Sud del mondo in generale è testimonianza anche una rinnovata concezione delle politiche e delle missioni di peacekeeping57 a carattere

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Un esempio in tal senso è rappresentato dalle Forces Armées du Zaïre (FAZ) durante il regime di Mobutu. La disfatta dell’esercito in meno di un anno, nel 1996-97, ad opera della Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo- Zaïre (AFDL) guidata da Kabila padre, va spiegata con la strategia politica perseguita dal dittatore negli anni del suo potere. Temendo possibili colpi di stato, Mobutu mantenne il suo esercito, costituito su diversa base etnica, perennemente diviso, alimentandone diffidenze e reciproci sospetti. In questa deliberata strategie di indebolimento delle FAZ, inoltre, Mobutu era solito chiamare consiglieri militari da un gran numero di paesi diversi, per far sì che il suo esercito non adottasse tecniche coordinate e non avesse strutture standardizzate. Attraverso le sue immense ricchezze, il dittatore, noto per ripetere ai dignitari di regime: “Rubate, ma con moderazione”, distribuiva agli ufficiali i dividendi della spoliazione istituzionalizzata ai danni delle popolazioni rurali perseguita dai soldati. Da qui il crollo delle FAZ, accompagnato da episodi di saccheggi e vandalismi a danno delle popolazioni civili. Cfr. Alex de Waal, “Contemporary Warfare in Africa”, in Mary Kaldor e Basker Vashee (eds.), Restructuring the Global Military Sector. Volume I: New Wars, London, Cassel-Pinter, 1997, pp. 287-332 e Herbert Howe, “African Private Security”, cit., p. 23.

Sulle forze armate dei paesi sub-sahariani, si veda anche Herbert M. Howe, Ambiguous Order: Military Forces in African States, Boulder, (Co.), Lynne Rienner, 2001.

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Come si vedrà più avanti, questa tesi non trova concordi tutti gli studiosi, in quanto una corrente di pensiero neo-marxista ritiene infondato il disimpegno delle grandi potenze occidentali dall’Africa e dalla corsa all’accaparramento delle sue risorse. Al contrario, proprio attraverso l’uso di mercato della forza pubblica e la nascita di nuovi mastodontici complessi militari-industriali, nonché con l’emergere delle PMC, si risponde alla rinnovata esigenza di una guerra più facilmente esportabile e delegabile, nascondendo come in realtà l’Occidente sarebbe ancor più interessato all’Africa che in passato. Vedi Xavier Renou (avec Philippe Chapleau, Wayne Madsen, François-Xavier Verschave), La privatisation de la violence. Mercenaires & sociétés militarires privées au service du marché, Marseille, Agone, 2005, p. 267, e Emmanuel Kwesi Aning, op. cit., p. 32.

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Parimenti al peacekeeping, con l’emergere delle “nuove guerre” anche il settore umanitario attraversa significativi mutamenti: in un clima di diffusa anomia, quelli che erano i parametri indiscussi del modus operandi dell’operatore umanitario, vale a dire efficienza, longevità e garanzia del soccorso prestato, e indiscutibile certezza dei principi etici alla base, vanno sfumando. L’assistenza umanitaria, neutrale per definizione, adesso si “politicizza” e viene percepita (talvolta lo è veramente) strumentale al conflitto, specie se gestita da personale e strutture identificabili con l’aggressore: pertanto gli aiuti vengono tassati o depredati, come è accaduto ripetutamente nella ex-Jugoslavia, e gli operatori umanitari stessi possono divenire obbiettivi delle violenze e bersaglio di attacchi. Mentre è già intenso il dibattito sui mutamenti vissuti dal settore umanitario (si rimanda, ad esempio, a Giulio Marcon, L’ambiguità degli aiuti umanitari. Indagine critica sul Terzo settore, Milano, Feltrinelli, 2002), è in crescita quello sulle possibili interazioni tra operatori umanitari (al livello governativo e non, ed internazionale) e sicurezza privata. I primi studi sono quelli di Christopher Spearin, “Private

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multilaterale. Alcuni fallimenti delle missioni ONU (come la United Nations Assistance Mission in Rwanda, - UNAMIR I – o la UNOSOM in Somalia) sono state lo specchio di una generale crisi del multilateralismo nei confronti dei cleavages del nuovo ordine mondiale: proprio la débacle di Washington a Mogadiscio nell’ottobre 1993, durante la missione Restore Hope, con la morte di 18 marines e il successivo ritiro del contingente, sarebbe destinata a diventare paradigmatica di quella riluttanza ad intervenire58 in conflitti definiti “intrattabili” ed in aree del mondo ad alta conflittualità ma di secondaria importanza strategica: come si vedrà più avanti, non è un caso che molti fautori della sicurezza privata fanno notare il deludente rapporto costi-benefici di alcune missioni ONU, rispetto ai vantaggi, seppur discutibili, ottenuti dalle PMC in situazioni analoghe.

A queste dinamiche sistemiche, deve aggiungersene un’altra non meno importante, ossiala prevalenza di ottiche sempre più privatistiche nella gestione delle comunità politiche, a partire dai primi anni ottanta, con la diffusione del “pensiero unico” neoliberista: le politiche di privatizzazione e di riduzione del welfare in settori quali la sanità, l’istruzione e la previdenza – un trend che ha investito tutto il mondo occidentale prima, e poi anche l’Africa attraverso la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale – hanno investito anche gli apparati di sicurezza nazionali, alleggerendole di compiti e strutture sempre più significativi e spingendo verso un ripensamento sul ruolo e le finalità degli eserciti stessi.

Tutti gli elementi fin qui analizzati costituiscono, per utilizzare un’espressione economica, la “domanda” di sicurezza, ovvero quei fattori di insicurezza ed instabilità che rappresentano il retroterra per l’emergere di un nuovo progetto securitario, nella fattispecie quello privato.

Resta ora da individuare quelle cause favorevoli che costituiscono l’”offerta” della sicurezza privata, alcune delle quali risultano legate a un doppio filo con i Security Companies and Humanitarians: A Corporate Solution to Securing Humanitarian Spaces?”, International Peacekeeping, Vol. 8, No. 1, Spring 2001, pp. 20 – 43, e A Private Security Panacea? A Response to Mean Times on Securing the Humanitarian Space, The University of British Columbia, Canadian Center for Foreign Policy Development, Paper prepared for the Second Annual Graduate Student Seminar, April 30 – May 5, 2000. Si veda inoltre Tony Vaux, Chris Seiple, Greg Nakano and Koenraad Van Brabant, Humanitarian Action and Private Security Companies, London, International Alert, 2002.

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Proprio in seguito a questa umiliazione patita dalle forze americane in Somalia, il governo statunitense emise la Presidential Decision Directive (PDD) 25 del maggio 1994, con la quale si enumerava una serie di criteri che dovevano essere soddisfatti prima di procedere ad ogni futura partecipazione degli Stati uniti alle missioni di peacekeeping dell’ONU. A queste forti limitazioni si aggiunse la scarsa volontà delle altre potenze occidentali ad intervenire senza gli USA, il che portò a clamorosi fallimenti come l’UNAMIR I in Ruanda. Cfr. Gerry Cleaver, “Subcontracting Military Power: The Privatisation of security in contemporary Sub-Saharan Africa”, Crime, Law & Social Change, Vol. 33, No. 1, 2000, p. 138.

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fattori di contesto precedentemente analizzati. Ad esempio, la riduzione globale dei contingenti militari, diminuiti nel 1996 di sei milioni di unità rispetto picco di 22,7 milioni nel 1987, ha riversato sul mercato mondiale un surplus di expertise militare a basso costo, facilmente integrabile nei corpi di sicurezza privata. Non a caso, un gran numero di impiegati delle PMC proviene da quelle forze armate sottoposte a radicale military downsizing alla fine della guerra fredda, come l’Armata Rossa e gli eserciti del Patto di Varsavia, o le South African Defence Forces (SADF), per ragioni di carattere economico e di mutato panorama strategico. Inoltre, si tratta spesso di corpi d’elite, impiegati in operazioni occulte ad alto rischio, la cui funzione parzialmente decade nei paesi di origine, ma che al contrario vengono apprezzati sul mercato per la loro alta professionalità. Se i piloti di aerei ed elicotteri dell’ex Unione Sovietica sono più apprezzati e i meno esosi nell’Africa sub-sahariana, lo stesso discorso va fatto per gli armamenti, le cui eccedenze riversatesi nel Sud del mondo costituiscono oggi una delle principali minacce alla sicurezza regionale, e allo stesso tempo uno degli argomenti più dibattuti. Il fenomeno delle armi leggere e di piccolo calibro (Small Arms & Light Weapons, SALW), oggi affrontato anche in sede ONU, per la sua natura tanto diffusa quanto pervasiva, costituisce una priorità per i policy

makers africani e i cooperanti, impegnati in diverse campagne per la limitazione

della loro diffusione e del commercio illecito. Come per il personale militare, anche per quanto riguarda le armi le PMC hanno saputo sfruttare questa situazione, ricorrendo all’uopo ad armamento leggero e pesante di provenienza dell’est, grazie a quella rete di traffici, anch’essa divenuta sempre più sommersa ed informale, che non manca di rifornire l’Africa59.

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La rapida diffusione di armi provenienti dai paesi dell’est in Africa è dovuta anche alla debole capacità dei paesi ex socialisti di mantenere un vigile controllo sui loro arsenali. Basti ricordare che in Albania, nel 1997, nei giorni del fallimento delle cosiddette piramidi finanziarie, era possibile acquistare fucili Ak 47 per quattro o cinque dollari. Inoltre, le grandi energie profuse nelle campagne di raccolta e distruzione delle SALW, alla fine di un conflitto, vengono spesso frustrate non appena una nuova crisi, seppur breve, esplode, come è stato il caso del Darfur con il rapido proliferare delle armi tra la popolazione.

L’Italia, storicamente, è una grande produttrice di SALW - generalmente di alta qualità e per questo destinate ai mercati dei paesi industrializzati – nonché di mine antiuomo, fino alla ratifica della Convenzione di Ottawa. Sul ruolo dell’Italia nel commercio di SALW, si veda Maurizio Simoncelli (a cura di), Armi leggere, guerre pesanti: il ruolo dell’Italia nella produzione e nel commercio internazionale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001. Sulle mine antiuomo, Alberto Demagistris, Mine antiuomo, Pisa, Biblioteca Franco Serantini Edizioni, 2003.

Le Nazioni Unite si occupano del fenomeno attraverso la“United Nations Conference on the Illicit Traffic in Small Arms and Light Weapons in All Its Aspects” ed un apposito “Program of Actions” ad essa legato, ma privo di carattere vincolante. Alla prima conferenza, tenutasi a New York nel luglio 2001, ne è seguita una seconda nel 2006: solitamente gli osservatori sono abbastanza critici nel riconoscere una reale efficacia a queste strategie, anche se ci sono giudizi meno severi. Cfr. Alberto Chiara, “Leggère da morire”, in Famiglia Cristiana, 09/10/2005, p. 68.

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La sicurezza privata, in conclusione, nasce sulle macerie dello stato nazione africano, devastato dalla crisi e dalle nuove guerre. Essa tuttavia non avrebbe assunto queste caratteristiche senza la particolare situazione internazionale venutasi a creare alla fine della guerra fredda. Da questi presupposti, come vedremo, la sicurezza privata del terzo millennio appare un fenomeno inedito nel mondo contemporaneo, assai diverso dal mercenariato degli anni sessanta e settanta60.

Sulla riduzione globale dei contingenti, si veda Peter Lock, “Military Downsizing and Growth in the Security Industry in Sub-Saharan Africa”, Strategic Analysis, Vol. 22, No. 9, December 1988 e “Africa, Military Downsizing and the Growth of Security Industry”, in Jakkie Cilliers - Peggy Mason (eds.), Peace, Profit, or Plunder?, cit., pp. 10 – 36. Si veda anche Kevin O'Brien, “PMC's, Myths and Mercenaries: The Debate On Private Military Companies”, Royal United Services Institute Journal, February 2000, p. 61.

Sulla proliferazione delle SALW in Africa, si vedano, tra gli altri, Jacklyn Cock, “The Legacy of War. The Proliferation of Light Weapons in South Africa”, in Greg Mills (ed.), War and Peace in South Africa, Washington D.C., The Brookings Institute, 1998, pp. 89-121 e Alex De Waal, “Contemporary Warfare in Africa”, in Mary Kaldor - Basker Vashee (eds.), Restructuring the Global Military Sector. Vol. I: New Wars, London, Cassel-Pinter, 1997, pp. 287-332.

Sui traffici di armi, infine, Sergio Finardi – Carlo Tombola, Le strade delle armi, Milano, Jaca Book, 2002.

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Un interessante sguardo sul ruolo dello stato e le sue minacce (rappresentate da attori militari non- statali), sia nella prospettiva storica che nell’ottica dell’odierna globalizzazione, viene fornita da Lawrence W. Serewicz, “Globalization, Sovereignty and the Military Revolution: From Mercenaries to Private International Security Companies”, International Politics, Vol. 39, No. 1, March 2002, pp. 75 – 89. L’autore porta avanti una tesi nuova secondo la quale, come nel XVI secolo, lo stato riuscirà ad avere la meglio sul proliferare delle minacce e sulla perdita in sovranità, anche perché, si sostiene, le PMC servono in primo luogo gli stati, che restano così attori dominanti.

Capitolo II

Le Private Military Companies (PMC) nell’Africa sub-