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Per molti osservatori, il regionalismo africano rappresenta ancora la parte più debole del sistema regionalista internazionale, anche se non bisogna dimenticare la nascita e il rafforzamento di nuove forme associative che mirano ad obbiettivi più ampi e diversi dalla mera cooperazione in campo economico14. Nell’Africa sub- sahariana, la proliferazione di organizzazioni internazionali plurali e talvolta concorrenti tra di loro sono i sintomi sia di una assenza di volontà politica verso la strutturazione di sistemi regionali integrati, sia della più generale carenza di risorse economiche.

Queste fratture e divergenze di vedute vennero cristallizzate già alla nascita dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) – Unione Africana dal vertice di Durban del 2002 – finalizzata alla promozione dell’unità e della solidarietà tra i paesi africani, alla lotta al colonialismo e al sostegno ai movimenti di liberazione nazionale. Al tempo della sua istituzione, all’interno dell’OUA si confrontarono diverse anime circa la natura dell’organizzazione, rappresentate dal “Gruppo di Casablanca” e dal “Gruppo di Monrovia” (all’interno del quale una dozzina di paesi francofoni rappresentava il “Gruppo di Brazzaville”), cui corrispondevano posizioni sia moderate, favorevoli alla semplice nascita di una Carta Africana contenente dichiarazioni di principio, ma anche altre più radicali, che contemplavano un insieme di istituzioni comuni (l’unione di governi, corte di giustizia, etc.).

La forma di sovranità statale che alla fine prevalse, mutuata sullo schema occidentale e dominata da un forte accento su confine e territorialità, si concretizzò in una sorta di state-building competitivo. Vennero pertanto bocciate le istanze pan- africaniste che mettevano in rilievo l’esigenza di una forma di organizzazione sociale

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Eric G. Berman – Katie Sams, Peacekeeping in Africa. Capabilities and Culpabilities, Geneva, United Nations Institute for Disarmament Research (UNIDIR), 2000, pp. 39-41.

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Su questo tema, si veda Piero Pennetta, Le organizzazioni internazionali nei paesi in via di sviluppo. Vol. 1 : le organizzazioni economiche regionali africane, Bari, Cacucci Editore, 1998.

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politica ed economica distante dal modello europeo, al fine di superare le divisioni tra i popoli africani all’interno di un’unità politica rispettosa delle singole specificità culturali. La proposta più significativa tra quelle minoritarie fu portata avanti con coraggio dal leader pan-africanista e presidente del Ghana Kwame Nkrumah: la sua proposta era relativa all’istituzione di un Alto Comando Africano (African High Command) per rafforzare e consolidare l’indipendenza politica dagli stati neo- indipedenti, proteggendoli da ogni forma di aggressione imperialistica e assistendo l’indipendenza di quelli ancora sottoposti a dominio coloniale. La riluttanza di molti paesi a rinunciare alla propria sovranità a favore di un organismo politico superiore decretò la bocciatura di una prospettiva di forte collaborazione ed integrazione su diverse issues (governance, vie allo sviluppo, sicurezza furono alcune delle aree sulle quali Nkrumah auspicò un controllo regionale) e rese gli stati di recente formazione incapaci di difendere interessi collettivi, gelosi di una sovranità fondata su logiche di potenza e di confine, e privi degli strumenti per rendere i propri governanti responsabili di fronte ai cittadini15.

La via presa dell’OUA, che fu all’origine della sua lunga tradizione di non- intervento nei conflitti intra-statali, viene vista oggi come una grave occasione mancata, dovuta, oltre che alla struttura scelta dall’organizzazione, anche al clima della guerra fredda. Pertanto, l’invasione marocchina del Sahara Occidentale nel 1976 (un classico esempio di neo-colonialismo) e la Guerra dell’Ogaden tra Etiopia e Somalia nel 1977 (un conflitto “per procura” tra Mosca e Washington per il controllo del Corno d’Africa) lasciavano margini pressoché inesistenti per un eventuale intervento di peacekeeping africano. Quando questo, nel 1981, parve realizzarsi per la prima volta, i risultati furono poco lusinghieri per l’OUA: in seguito al deterioramento della situazione di sicurezza in Ciad, causata da perduranti lotte di potere, insanabili cleavages nord-sud e l’influenza libica nel nord del paese, l’OUA si decise ad intervenire, in risposta alla minaccia del Colonnello Gheddafi di annettere il paese saheliano. Solo tre stati inviarono contingenti alla missione di interposizione (Nigeria, Senegal e Zaire) che fu obbligata a dispiegarsi senza l’accettazione di un cessate-il-fuoco tra le parti; noltre, fin dall’inizio dovette confrontarsi con gravi problemi di coordinamento tra le forze in campo, e si risolse in un clamoroso disastro.

Alla luce di questa débacle, si avviò in seno all’OUA un dibattito che, nel 1993, spinse all’adozione del “Mechanism for Conflict Prevention, Management and

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‘Funmi Olonisakin, Reinventing Peacekeeping in Africa, cit., pp. 57-59 ed Eboe Hutchful, “Understanding the African Security Crisis”, cit., p. 218.

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Resolution”. Esso, puntando più alla prevenzione che alla soluzione delle crisi, propose anche l’istituzione di un organo decisionale, il “Central Organ”, e di un “Peace Fund” destinato a finanziare le missioni. Il Peace Fund, a sua volta, opera parallelamente alla Conflict Management Division (CMD)16.

Tuttavia, un nuovo slancio rispetto al passato e un cambiamento netto - per far sì che i precedenti meccanismi di sicurezza non restassero solo sulla carta – sono stati possibili negli ultimi anni grazie ad una più approfondita riflessione sulle minacce alla sicurezza africana. La metamorfosi dell’OUA – e la nascita dell’UA – si devono proprio al riconoscimento della pluralità delle minacce, legate alla realtà delle “nuove guerre”, a fenomeni di criminalità trans-nazionale, alla crisi dell’istituzione statale e del peacekeeping tradizionale. In questa ottica, sono nate iniziative come la New Partnership for Africa’s Development (NEPAD) che, lanciata a Lusaka nel 2001, riconosce l’inscindibilità tra la dimensione securitaria di una società e le sue prospettive di crescita e sviluppo economico. Inoltre, è stato istituito il Consiglio per la Pace e la Sicurezza dell’UA (Peace and Security Council), responsabile per l’implementazione dell’agenda per la pace e la sicurezza in seno all’organizzazione. Infine, la nuova cornice di sicurezza - ispirandosi a concetti quali la “dottrina Mandela” o la “Sovranità come responsabilità”17 e in definitiva superando l’ossessione verso il principio di non-interferenza - ha previsto l’esistenza di una African Stand-by Force (ASF), che si richiama all’Alto Comando Africano sognato da Nkrumah negli anni sessanta. Composta da personale civile e militare stazionato nel proprio paese d’origine in attesa di essere rapidamente dispiegato in missione, l’ASF è stata creata nel 2004 e diventerà operativa a partire dal 2010, quando sarà in grado, verosimilmente, di gestire anche le operazioni di peacekeeping complesse e multi-dimensionali18.

In questo contesto, l’UA ha varato la sua prima missione di pace. L’African Union Monitoring Mission in Sudan (AMIS) è partita nel maggio 2004 allo scopo di sorvegliare l’accordo di pace stipulato tra il governo di Karthoum, i ribelli e le milizie filo-governative Janjaweed. I “Caschi Verdi” sono passati da 300 unità ad una forza

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Per un’analisi sul funzionamento di questi organismi, si veda Eric G. Berman – Katie Sams, Peacekeeping in Africa, cit., pp. 61-74

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Secondo questa dottrina, i governi nazionali avrebbero la “responsabilità”, sia di fronte al proprio corpo politico che alla comunità internazionale, di fornire standard minimi di sicurezza e di benessere sociale ai cittadini di paesi terzi, sebbene questo significhi intervenire negli affari “interni” di questi stati. Cfr. Francis M. Deng (ed.), Sovereignty as Responsability: Conflict Management in Africa, Washington D.C., The Brookings Institute, 1996.

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Mirko Costa, “Unione Africana: l’evoluzione istituzionale ed operativa del peacekeeping”, 06/03/2007, (www.equilibri.net).

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di 7.000 uomini, e nel settembre del 2006 il Peace and Security Council ha prorogato la missione ribattezzandola AMIS II. All’inizio del 2007, una nuova sfida per l’UA è stata rappresentata dalla decisione di dispiegare una forza di pace di 7.600 uomini anche in Somalia (African Mission to Somalia, AMISOM), allo scopo di stabilizzare lo stato somalo dopo la caduta del governo delle Corti islamiche. Autorizzata il 19 gennaio 2007, la missione è stata approvata dalle Nazioni Unite il 20 febbraio 2007.

La strada ambiziosa intrapresa dall’Unione Africana, tuttavia, non è priva di ostacoli: limiti logistici e finanziari hanno già caratterizzato l’AMIS, tanto che l’ONU ha dovuto assistere l’UA con l’invio di equipaggiamenti, consiglieri militari ed esperti di comunicazione ed informazione. La difficoltà di sviluppare procedure operative standard condivise, dovuta alle diverse tradizioni militari dei paesi africani e al loro basso livello di coordinamento, rappresenta la difficoltà principale dell’ASF, oltre, naturalmente, alla carenza di risorse finanziarie. I leader del G8, al summit di Evian del 2003, hanno promesso sostegno alle proposte dell’UA attraverso finanziamenti, addestramento e assistenza alle attività di coordinamento, richiedendo altresì all’organizzazione un approccio più graduale, una valutazione delle proprie capacità e l’identificazione di obbiettivi realistici e raggiungibili19. In futuro, il coinvolgimento delle Nazioni Unite a fianco all’UA potrebbe esser percepito da alcuni – come è parso accadere in Sudan – una indebita interferenza della comunità internazionale, o almeno da parte di alcune potenze occidentali, e potrebbe quindi alimentare ulteriori diffidenze ostacolando il processo di risoluzione dei conflitti. Pertanto, per essere credibile, l’UA e il suo Peace and Security Council (che dell’ASF sarà il principale strumento di peacekeeping) dovranno rafforzare la sicurezza collettiva ed essere in grado di realizzare risposte coordinate a ogni minaccia e violazione della pace – risultato che, per molti osservatori, non è ancora alla portata dell’organizzazione.

In un continente come quello africano, in ogni caso, la strada seguita con l’ASF merita di essere analizzata ed approfondita dal momento che, allo stato attuale, rappresenta una delle strategie meno controverse di risoluzione dei conflitti. Inoltre, la decisione di gestire gli effettivi delle forze dell’ASF a livello regionale da realtà già esistenti, quali la Intergovernmental Authority on Development (IGAD), la Southern African Development Community (SADC) e l’Economic Community of West

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Un rischio è quello che l’UA sovrastimi le proprie capacità, pretendendo di voler realizzare troppo in troppo poco tempo. Si vedano, Jakkie Cilliers – Kathryn Sturman, “Challenges Facing the AU’s Peace and Security Council”, African Security Review, Vol. 13, No. 1, 2004, p. 104, Vanessa Kent – Mark Malan, “The African Stand-by Force: Progress and Prospects”, African Security Review, Vol. 12, No. 3, 2003, p. 71 e Cedric de Coning, “Refining the African Standby Force Concept”, Conflict Trends, Issue 2, 2004, pp. 20-26.

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African States (ECOWAS/CEDEAO), testimonia la volontà dei policy makers africani di affidare al regionalismo e all’intervento multilaterale a scala regionale le chiavi per la gestione, in futuro, delle politiche di sicurezza nell’Africa sub-sahariana.