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Una delle argomentazioni addotte dai sostenitori della privatizzazione della sicurezza parte con una domanda ad effetto: “What would the world do if another

Rwanda happened?”29.

Se le considerazioni fatte nel precedente paragrafo potevano riferirsi alla scelta di un governo sovrano di assoldare una PMC per risolvere minacce di sicurezza interna, altre tesi più specifiche vengono proposte con lo scopo di dimostrare la convenienza dell’uso di PMC in alternativa o in aggiunta ad una missione multilaterale di peacekeeping, sotto l’egida delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni regionali. La base di partenza di questo ragionamento coincide con l’analisi sulla crisi generale del peacekeeping alla fine della guerra fredda, caratterizzato dalle numerose difficoltà e segnato dai fallimenti affrontati negli ultimi dieci anni dalle Nazioni Unite, dal genocidio in Ruanda all’eccidio di Srebrenica in Bosnia. Basti pensare che, se le truppe in forza alle Nazioni Unite erano cresciute da 10.000 a 70.000 dal 1989 al 1995, sono ritornate a 19.000 nel 199830. Come si è visto nel primo capitolo, all’origine di queste cifre vi è la scarsa volontà degli stati membri dell’ONU ad intervenire in aree di basso valore strategico, in conflitti spesso definiti intrattabili, per i quali le opinioni pubbliche occidentali non comprenderebbero un sacrificio di vite umane. Ai limiti di carattere politico vanno di pari passo le ristrettezze economiche, legate alla riluttanza degli stati a fornire al Dipartimento per le Operazioni di Pace delle Nazioni Unite le risorse materiali e finanziarie per le missioni. Si comprende così che in aree non considerate di interesse

28

Cfr. Gerry Cleaver, “Subcontracting Military Power: The Privatisation of security in contemporary Sub-Saharan Africa”, Crime, Law & Social Change, Vol. 33, No. 1, 2000, p. 147.

29

Peter H. Gantz, “The Private Sector’s Role in Peacekeeping and Peace Enforcement”, Refugees International, November 18, 2003, p.1.

30

I dati sul numero oscillante dei Caschi Blu negli anni novanta sono in Mark Malan, “The crisis in external response”, in Jakkie Cilliers – Peggy Mason (eds.), Peace, Profit or Plunder? The Privatisation of Security in War-Torn African Societies, Pretoria, Institute for Security Studies, Halfway House – Ottawa, Canadian Council for International Peace and Security, 1999, p. 48. Malan ricorda che durante l’intervento dell’ONU in Somalia alcuni contingenti nazionali si rifiutarono di svolgere operazioni che consideravano troppo rischiose. Impartiti gli ordini, i comandanti cercarono di aggirare la catena di comando, chiedendo lumi ai propri governi.

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strategico gli sviluppi politici e militari delle crisi vengono solitamente lasciati al loro destino31.

Non si deve poi dimenticare un altro fattore importante, ossia la lentezza organizzativa e l’incapacità di rispondere rapidamente all’insorgere delle crisi. Un’organizzazione complessa, il sistema ONU, composta da organi politici basati sul consenso nei processi decisionali, non può contare su una forza di intervento rapida e pertanto garantire la stessa velocità di dispiegamento sul teatro di battaglia di una PMC. Al contrario, occorrono spesso dei mesi prima che si definiscano i dettagli – composizione, mandato, regole di ingaggio - di una missione di pace dell’ONU. Le missioni di peacekeeping varate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, poi, prendono sempre più spesso la forma di una “delega” ad uno stato forte (come gli Stati Uniti) che si mette a capo di una coalition of the willing per affrontare con grande discrezionalità una crisi o un conflitto. Tuttavia, questo approccio deve considerarsi poco soddisfacente poiché, oltre ad essere particolarmente selettivo verso missioni che vale la pena realizzare o meno, si affida alle capacità militari di un esercito, come ad esempio quello americano, poco idoneo ad affrontare i conflitti limitati caratteristici del warfare africano. Non a caso oggi, su circa 35.000 militari dispiegati dall’ONU sui teatri di guerra di tutto il mondo, meno di 4.000 provengono dai paesi dell’Unione Europea e solo qualche dozzina dagli Stati Uniti. Al contrario, i paesi che forniscono più personale ai Caschi Blu sono il Pakistan, la Nigeria, l’India,

31

Due esempi tratti dalla storia recente dell’Africa sub-sahariana rendono bene questo concetto. Il colpo di stato ai danni del governo di Pascal Lissouba ad opera dell’ex dittatore Denis Sassou- Nguesso, nella Repubblica del Congo nel 1997, ha rivelato come dell’inerzia delle Nazioni Unite prontamente approfittavano milizie mercenarie straniere. Il Segretario Generale dell’ONU Kofi Annan aveva messo in guardia sul fatto che il rovesciamento del governo costituzionale a Brazzaville e il coinvolgimento di forze straniere potevano costituire un pericoloso precedente e diventare uno schema usuale in Africa. Pertanto Annan, nei tre mesi di violenze che precedettero la presa del potere di Nguesso, tentò di raccogliere il consenso necessario al dispiegamento di una forza multinazionale in Congo, scontrandosi con il veto degli Stati Uniti e di altri paesi con interessi economici, in prevalenza petroliferi, in Congo. Le parole di Annan erano destinate a rivelarsi profetiche e in quell’occasione, come del resto in molte altre, gli eserciti privati, in parte legati alle grandi multinazionali, fecero a modo loro quello che avrebbe dovuto essere il compito dell’ONU. La stabilità, naturalmente transitoria, fu raggiunta attraverso la cessazione, con l’uso della forza, dei combattimenti. Cfr. Kevin A. O’Brien, “Military Advisory Groups and African Stability: Privatized Peacekeeping?”, International Peacekeeping, Vol. 5, No. 3, autumn 1998”, p. 95 ed idem, “Private Military Companies and African Security 1990-98” in Abdel-Fatau Musah - J.‘Kayode Fayemi (eds.), Mercenaries. An African Security Dilemma, London, Pluto Press, 2000, p. 71.

David Shearer, a proposito del caso sierraleonese, ricorda che il neo-eletto presidente Kabbah, sicuro di un imminente intervento di peacekeeping dell’ONU, nei primi mesi del ’97 ritenne opportuno liberarsi dell’imbarazzante presenza di EO. Tuttavia, l’indifferenza alle vicende del piccolo paese africano da parte della comunità internazionale, alla base del mancato intervento delle Nazioni Unite, contribuì a precipitare il paese nel caos lasciandolo alla mercè di bande militari. Secondo Shearer – uno dei primi studiosi della sicurezza privata e un suo fautore - ciò si sarebbe evitato se l’ONU avesse riconosciuto ufficialmente il ruolo della compagnia, dal momento che anche le maggiori istituzioni finanziarie internazionali avevano accettato che fosse introdotto nel bilancio dello stato il pagamento degli stipendi del personale di EO. Cfr. David Shearer, Private Armies, cit. p. 68.

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il Bangladesh e il Ghana32. Secondo molti osservatori, ciò contribuirebbe a diminuire la già carente professionalità delle truppe in forza alle Nazioni Unite.

Non deve stupire, di conseguenza, se una delle reazioni principali al Rapporto Brahimi33 del 2000 sulle possibilità di un peacekeeping dell’ONU più efficace è stato l’inizio di una riflessione che non considerava più un tabù la “privatizzazione” delle operazioni di mantenimento della pace, e avanzava la possibilità di collaborazione tra le Nazioni Unite e le PMC34.

A partire dal 2000, le lobbies delle PMC si sono impegnate in una incessante pressione verso un ruolo più propositivo giocato dal settore privato nelle operazioni di pace. Si afferma che le PMC, rispetto alle Nazioni Unite, sono più economiche, più efficaci, più disposte ad accettare un maggior tasso di perdite di vite umane, più agili, più controllabili e più neutrali. A sostegno di queste tesi, si è sottolineato: il costo dell’intera operazione di EO in Sierra Leone è stato di soli 36 milioni di dollari, rispetto ai 3 milioni di dollari al giorno spesi nello stesso paese dalle Nazioni Unite; il numero del personale impiegato da EO in Sierra Leone è stato di sole 300 unità, rispetto alle 17.000 richieste dalle Nazioni Unite. Si fa poi riferimento alla capacità delle PMC di agire come “moltiplicatrici di forza” e come forza di intervento rapido, nonché alla assenza (presunta) di secondi fini, come quelli perseguiti da alcune potenze regionali nell’intervento nel paese dei diamanti.

Non si è mancato, tuttavia, di riconoscere i rischi connessi all’intervento delle PMC, che gli stessi fautori della sicurezza privata hanno identificato nella paura di un ritorno del mercenariato del XX secolo, nelle connessioni con network minerari, nella violazione dei diritti umani, della scarsa responsabilità. A tal proposito, vengono auspicati contratti più specifici, con una dettagliata elencazione dei servizi da erogare: questi potranno eventualmente comprendere obbiettivi successivi alla

32

Cfr. Philippe Chapleau, “Privatiser la paix ?”, Politique Internationale, n.103, printemps 2004, p. 2.

33

Nel marzo 2000, il Segretario Generale ha chiesto ad un gruppo di esperti internazionali guidati da Lakhdar Brahimi, suo consigliere di lunga data (ex Ministro degli affari esteri dell’Algeria) di esaminare le operazioni di pace dell’ONU e di identificare dove e quando il peacekeeping dell’ONU potesse essere più efficace e di conseguenza potesse essere migliorato. Il Rapporto del gruppo di lavoro sulle operazioni di pace ONU—noto anche come Rapporto Brahimi— ha offerto indicazioni chiare circa i requisiti minimi per garantire il successo di una missione di pace delle Nazioni Unite. Tra questi: un mandato chiaro e specifico, il consenso all’operazione delle parti coinvolte nel conflitto, risorse adeguate, sia per implementare il mandato in modo efficace, sia per scongiurare eventuali interferenze dannose.

34

Jean-Philippe Daniel, “Les nouveaux mercenaires ou la privatisation du mantien de la paix”, Géopolitique Africane, N° 5, hiver 2002. Nelle conclusioni del Rapporto Brahimi, si chiede che le Nazioni Unite siano in grado, in un futuro non troppo remoto, di dispiegare un’operazione di peacekeeping entro trenta giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza nel caso di una missione classica ed entro novanta nel caso di una complessa. Si auspica altresì una maggiore efficacia e professionalità delle truppe nonché l’istituzione di “partenariati” nel quadro dei sistemi delle forze messe in campo.

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mera cessazione delle ostilità, ossia smobilitazione dei combattenti, disarmo, sminamento umanitario.

Si auspica altresì che l’intervento delle PMC possa essere monitorato da osservatori dell’ONU o dell’UA, allo scopo di verificare il completo svolgimento delle azioni previste dal contratto. Vanno in questa direzione anche il richiamo ad una maggiore trasparenza, con la possibilità di ispezionare le liste del personale e i

business plan, ed una libera competizione attraverso bandi e pubbliche gare

d’appalto. Viene previsto anche un gruppo di mediazione, composto dalle fazioni in lotta, da responsabili di governi stranieri, ONG, da tutti gli stakeholders a vario titolo coinvolti nel conflitto nonché dalla PMC stessa, allo scopo di valutare eventuali modifiche del contratto in corso d’opera. Ogni compagnia, poi, dovrebbe obbedire ad una “dichiarazione di principi”, ossia una serie di linee guida ispirate alle Convenzioni di Ginevra sul rispetto dei civili, nonché garantire la rimozione del materiale bellico necessario all’intervento, evitando così di alimentare la proliferazione delle armi.

Per quanto concerne la responsabilità legale, infine, si propone che venga considerata su due livelli: in base al primo livello, la responsabilità si fa ricadere sullo stato di origine della PMC, che è responsabile sulla compagnia in sé; per il secondo livello, riguardante i reati commessi dalla compagnia o dai suoi dipendenti, è responsabile la compagnia stessa.

La natura di queste considerazioni suggerisce l’esistenza di un approccio apparentemente complesso ed esaustivo verso l’adozione di soggetti privati nello svolgimento di funzioni di peacekeeping. Anche se può suonare strano, oggi sono proprio le PMC a chiedere a gran voce che le loro attività vengano regolamentate, consapevoli del crescente business connesso delle operazioni di mantenimento della pace. Discutere delle possibilità di impiego e di regolamentazione delle PMC, infatti, ha consentito di spostare il dibattito dal diritto all’esistenza o meno delle PMC stesse35.

Sulla scia di queste idee, è nata a Washington nel 2001 l’International Peace Operation Organisation (IPOA), presieduta dallo studioso statunitense Doug Brooks,

35

Doug Brooks, “Write a Cheque, End a War. Using Private Military Companies to end African Conflicts”, Conflict Trends, Vol. 6, 2000, p. 35. Si devono allo stesso autore le idee sulle prospettive di controllo precedentemente analizzate. Cfr. anche Creating the Reinassance Peace : The utilisation of private military companies for peacekeeping and peace enforcement activities in Africa, Paper for the Africa Institute of South Africa’s 40th Anniversary Conference, 30 May – 2 June 2000, Pretoria South Africa e “Hope for the ‘Hopeless Continent’: Mercenaries”, Traders: Journal for the Southern African Region, Issue 3, July – October 2000.

122

a quanto sembra un ex mercenario in Sierra Leone36. L’IPOA è un consorzio di imprese commerciali impegnato nella lobbying a favore delle PMC. 36 di queste – tra cui importanti società come Erynis, PAE, Blackwater e MPRI – avevano incaricato l’organizzazione di gestire una parte della loib comcoicazione e aÿÿra. Le argomentazioni dell’IPOA, che ha varato un proprio codice di condotta, sono ben rodate: le PMC sono innovative flessibili e creative – non si manca infatti di auspicare, oltre a quanto già visto, poteri ampi, grande libertà di manovra e l’uso di tattiche non convenzionali. Agli stati, le PMC permetterebbero di concentrarsi sulle loro funzioni primarie, come i processi di nation-building alla fine di un conflitto; alle imprese multinazionali e alle ONG di operare in ambiente ostile libere da preoccupazioni. Infine, l’IPOA ha redatto anche degli standard minimi per l’addestramento degli operatori della sicurezza, al fine di garantirne la professionalità.

Una delle recenti proposte dell’IPOA, nel gennaio 2003, è stata quella di candidarsi per conto della Mission de l’Organisation des Nations Unies au Congo (MONUC), ritenuta costosa ed inefficiente, ad intraprendere le operazioni di

peacekeeping nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo

(RDC). I membri dell’IPOA, che offrono sia servizi ad alto contenuto tecnologico come la sorveglianza aerea, sia supporto umanitario e liberazione di ostaggi, hanno sostenuto che senza il loro apporto la MONUC avrebbe mancato gli obiettivi prefissati di stabilizzazione e protezione umanitaria. Le PMC si sono pertanto offerte di garantire una “cortina di sicurezza” ad un costo compreso tra 100 e 200 milioni di dollari, solo il 20 per cento del costo annuale della missione dell’ONU, e hanno proposto che questa somma potesse essere coperta dagli Stati Uniti sotto forma del 27 per cento di contributo annuo che Washington destina alla MONUC. Significativamente, l’IPOA ha affermato: “The consortium members fully expect to

be held to a higher standard than typical UN operations and are committed to earning the confidence of all concerned parties with professionalism and responsiveness”37.

In realtà, quella dell’IPOA è stata solo una delle proposte che dalla fine degli anni novanta hanno analizzato le possibilità dell’uso di PMC come strumenti di

peacekeeping. Oltre al già citato Green Paper del governo britannico, lo studio di

Peter H. Gantz per la ONG Refugees International, raccomanda alla Nazioni Unite di

36

Philippe Chapleau, “Privatiser la paix ?”, cit., p. 3.

37

123

considerare l’uso di contractors come fornitori di logistica alle missioni di pace e ipotizza che le PMC possano addestrare i Caschi Blu aumentandone l’efficienza e la professionalità. Comunque non manca di riconoscere che l’uso dei neo-mercenari non costituisce la panacea di tutti i mali, e che non sarebbe necessario se l’ONU funzionasse a dovere38.

Un’altra idea, indirizzata a colmare le lacune degli interventi di peacekeeping dell’ONU, è emersa dal gruppo privato Global Peace and Security Partnership39 (GPSP). Il GPSP ha proposto di affidare le missioni di pace ad una compagnia privata no profit regolata dal diritto britannico, dotata di un database di 5000 soldati - pronti ad operare dietro compenso giornaliero stabilito dall’ONU – comprensivi di una forza di intervento rapido di 200 uomini. Le decisioni sul dispiegamento dovrebbe essere prese da un consiglio internazionale di “respected peoples” – sulla cui selezione il GPSP è molto vago – mentre l’equipaggiamento dovrebbe esser fornito dalla compagnia britannica Repaircraft.

Se tutte queste proposte sono sottese dalla logica di una implicita accettazione e conseguente “normalizzazione” del fenomeno neo-mercenario, vale la pena citare iniziative della società civile internazionale che invece si sono poste l’obbiettivo di una messa al bando dei mercenari. Una di queste viene portata avanti dalla ONG con sede a Londra: Africa Research and Information Bureau (ARIB). Negli ultimi anni ARIB ha condotto una campagna per l’introduzione di un registro nominale internazionale dei mercenari, in modo che essi possano essere individuati e fermati negli aeroporti e ottenere così un certo controllo sulla loro attività. Il modello è quello utilizzato per il mercato delle armi negli Stati Uniti, poiché considerare le PMC alla guisa delle armi consentirebbe di regolamentarle attraverso appositi registri40.

38

Peter H. Gantz, “The Private Sector’s Role”, cit., pp.1-2.

39

Si veda il sito Internet: www.gpsp.co.uk. Cfr. anche Stephen Fidler, “Proposal for private soldiers in conflicts gathers steam”, Financial Times, November 5, 2003 ed Oldrich Bures, “Private Military Companies: A Second Best Peacekeeping Option?”, International Peacekeeping, Vol. 12, No. 4, Winter 2005, p. 535.

40

Cfr. Gabriella Pagliani, (con la collaborazione di Aldo Pigoli), Il mestiere della guerra. Dai mercenari ai manager della sicurezza, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 270-271.

124

Conclusioni

Le ipotesi fin qui analizzate di privatizzazione delle forze di peacekeeping possono essere riassunte, secondo Singer, in tre grandi scenari41.

Il primo prevede la privatizzazione della protezione, destinata principalmente agli operatori del settore umanitario. Si tratta già di una realtà, visto che molte agenzie dell’ONU hanno subappaltato ai privati l’incolumità del proprio personale nei teatri di conflitto, i cui benefici sono numerosi: si evita che i convogli umanitari vengano depredati dalle fazioni in lotta, si potenzia l’azione umanitaria, si liberano gli eserciti da compiti di polizia che le PMC sono più adatte a svolgere.

Il secondo scenario prevede l’utilizzo di PMC come forze di reazione rapida all’interno di una missione di peacekeeping. Le compagnie potrebbero garantire un temporaneo uso della forza vitale in alcune fasi del conflitto.

Infine, si prevede di affidare l’intera operazione umanitaria a compagnie private, come previsto dall’IPOA. Se questo può essere considerato un caso estremo, allo stesso tempo potrebbe rivelarsi l’unica opzione in casi di gravi minacce umanitarie e genocidio. Una delle occasioni in cui si ventilò quest’ipotesi fu la crisi scoppiata nei campi profughi dell’ex Zaire orientale nel 1996: sia il Dipartimento per il Operazioni di Pace delle Nazioni Unite che il National Security Council statunitense proposero l’uso di PMC per garantire un corridoio umanitario, ma il piano venne abbandonato non essendo stato chiarito chi dovesse finanziarlo.

Come si vedrà più avanti, ognuno di questi scenari presuppone degli interrogativi non solo di carattere etico e politico in generale, ma anche tecnico ed operativo.

41

Capitolo IV