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In precedenza (Capitolo II), si è fatto già riferimento alle origini e a talune caratteristiche del Revolutionary United Front (RUF) il cui ruolo di gruppo armato nel costituire una sfida “anti-sistema” alle istituzioni della Sierra Leone merita di essere qui ripercorso al fine di metterne in luce le peculiarità, le relazioni – spesso ambigue - con gli apparati politici e militari sierraleonesi, nonché le interpretazioni che il fenomeno ribelle ha ricevuto. Tra i gruppi armati africani, infatti, il RUF è uno di quelli che ha avuto maggiori attenzioni da parte di storici ed osservatori che talvolta ne hanno fornito giudizi divergenti.

Tra i primi ad analizzare il ruolo del gruppo ribelle, l’antropologo inglese Paul Richards lo definì “a small but quite coherent movement”3. Nel suo lavoro destinato a rimanere un punto di riferimento (più tardi ribaltato) nello studio del movimento guerrigliero sierraleonese, Richards rifiuta le tesi – assai in voga nella metà degli anni novanta - sul “neo-barbarismo”, l’anarchia e la violenza fine a stessa. Egli riconobbe l’”efficienza” del terrore messo in campo dal RUF, collegato, a suo dire, con l’assenza di risorse ed equipaggiamenti. L’autore, inoltre, scrive che la guerra in Sierra Leone doveva interpretarsi come una crisi della modernità, fenomeno che interessava pesantemente la società e le giovani generazioni del paese africano, lacerato dai richiami alle tradizioni e all’importanza della foresta vergine dal un lato, e dai continui influssi occidentali dall’altro4. Ciò che più interessa dell’analisi di Richards, è l’interpretazione che egli da del RUF come movimento di liberazione nazionale finalizzato a rovesciare il regime patrimonialistico e cleptocratico delle élites sierraleonesi (alleate ai potentati occidentali nello sfruttamento delle miniere) e ad instaurare un sistema rivoluzionario ed egalitario. I leader del RUF dovevano considerarsi “intellettuali esclusi”5 e “molecole sparse”. La loro formazione – che secondo l’antropologo consisteva in una miscela di panafricanismo di Gheddafi e di teorie della “Terza Onda” del futurologo americano Alvin Toffler - li aveva inseriti nella ristretta élite istruita, ma allo stesso tempo erano stati posti ai margini della società dopo le repressioni degli anni sessanta e settanta sotto la dittatura di Siaka Stevens (1968-85), in un periodo in cui i confini tra politica

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Cfr. Paul Richards, Fighting for the Rain Forest: War, Youth, & Resources in Sierra Leone, The International African Institute in association with James Curry, Oxford – Heinemann, Portsmouth, (N.H.), 1996, p.1.

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Ibidem e ss. Nella fattispecie, l’autore sostiene che la diffusione dei film di guerra prodotti in occidente e della saga del personaggio di Rambo hanno avuto un influsso di rilievo sui giovani ribelli, creando nel loro immaginario idee di riscatto e nuovi e più giusti equilibri sociali che la politica non aveva saputo fornire.

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e criminalità diventarono blandi, portando alla nascita di quello che William Reno chiamerà lo “stato-ombra”6.

Ad una lettura delle prime fasi della crisi, le considerazioni di Richards potevano ritenersi corrispondenti al vero. Il 23 marzo 1991, l’incursione da parte di circa un centinaio di ribelli nei distretti sud orientali di Kailahun e Pujehun, al confine con la Liberia, sembrò rafforzare la tesi di un movimento di liberazione destinato a rovesciare la sclerotica dittatura dell’All People’s Congress (APC), il partito unico al potere dal 1978. Le violenze e i saccheggi commessi furono attribuiti alla presenza di elementi esterni ai ribelli, nella fattispecie mercenari burkinabé e liberiani. Più tardi, la pubblicazione da parte dei ribelli di un pamphet intitolato

Footpath to Democracy: Toward a New Sierra Leone, contribuì alla nascita del mito

effimero del RUF quale movimento rivoluzionario ed antimperialista che legava la lotta alla dittatura con la difesa della foresta, le sue risorse e le sue comunità dallo sfruttamento portato avanti da una classe politica corrotta alleata con le potenze neo- coloniali occidentali.

In effetti, la percezione dello sfruttamento e delle ingiustizie subite ad opera di profittatori nazionali e stranieri era assai diffusa nelle campagne della Sierra Leone, come testimoniato da quegli studi che hanno basato l’analisi delle violenze sul greed, cioè l’avidità quale molla della ribellione, e sulle grievances7, ossia le ingiustizie e i torti subiti. In particolare, i quadri del RUF ebbero gioco facile nel reclutare individui che si vedevano come outsider nelle loro comunità ed erano l’obbiettivo di continue estorsioni da parte di quei capi locali le cui connessioni politiche con la capitale li avevano allontanati dagli obblighi tradizionali di ospitalità e protezione8.

Tuttavia, se è plausibile che all’epoca del lavoro di Richards, nel 1996, il RUF non avesse ancora palesato il suo volto peggiore, più tardi il terrore sistematico e le terribili atrocità commesse sveleranno l’inganno del RUF e l’assenza della

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La tesi dello “shadow state” è in William Reno, Corruption and State Politics in Sierra Leone, Cambridge, Cambridge University Press, 1995.

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In realtà, si tratta di due filoni di studio contrapposti. Da un lato, si è cercato di ridurre la guerra civile quasi esclusivamente all’avidità e alle brame di potere dei movimenti ribelli; si veda ad esempio Paul Collier, “Doing Well Out of War: An Economic Perpesctive”, in Mats Merdal – D.M. Malone (eds.), Greed and Grievance, Economic Agendas in Civil Wars, Boulder (Co.), Lynne Rienner, 2000. Dall’altro – come negli studi di Paul Richards – ci si è soffermati sulla percezione di ingiustizie anteriori alla ribellione del RUF e legate alla povertà e al sottosviluppo. Cfr. David Keen, Conflict & Collusion in Sierra Leone, Oxford, James Currey - New York, Palgrave, 2005, pp. 36-81.

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William Reno, Patronage Politics and the Behavior of Armed Groups, Northwestern University, Department of Political Science, Evanston (Il.), 2006, p. 17.

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benché minima connotazione ideologica, tanto che l’analisi assai benevola dell’antropologo britannico verrà in seguito criticata.

Le tesi prevalenti, a quel punto, si soffermarono sull’assenza di un vera agenda politica-sociale da parte del RUF, che andasse oltre un “insieme disarticolato

e mal digerito di cascami di populismo gheddafiano sulla rivoluzione popolare”9. Inoltre, si è sostenuto che accanto ad una logica di uso politico della violenza – che tuttavia non può spiegare le immani crudeltà ai danni delle popolazioni contadine, il saccheggio, lo stupro, il rapimento e la coscrizione di adolescenti e le tristemente note amputazioni degli arti – ne coesistevano altre, assimilabili a puro banditismo e alla mera brutalità. In questa scia, prese definitivamente il sopravvento la tesi di Ibrahim Abdullah e Patrick Muana10: il RUF ha fatto storia proprio per il suo carattere nichilista: non un movimento separatista, né etnico, tanto meno riformista, e neppure ascrivibile alla categoria del “Signori della guerra” come Taylor in Liberia. Tutto questo spiegherebbe come né i contadini, né gli studenti abbiano fornito un appoggio significativo ai guerriglieri. In particolare, il RUF avrebbe tratto sostegno da giovani emarginati senza alcun riferimento sociale, inclini alla piccola criminalità, alienati e poco istruiti e spesso dipendenti da sostanze stupefacenti, frutto di una società vittima di un tragico ed inesorabile declino. Per descriverli è stato utilizzato il termine di “lumpen”, come il lumpenproletariat cui alludevano Marx ed Engels, spinto al declino morale e al crimine dalla povertà e dallo sfruttamento. Il sottoproletariato sierraleonese era sia urbano – già negli anni settanta la sua variante criminale era stata cooptata dalle élites per il lavoro sporco e la repressione degli avversari politici – sia proveniente dai villaggi, sia appartenete alle bande dei cercatori illegali di diamanti che proliferavano nel paese.

All’epoca in cui questa tesi veniva formulata, il RUF aveva già seminato il terrore nelle campagne. I ribelli, malgrado il loro carattere apparentemente anarchico ed imprevedibile, avevano portato avanti vere proprie campagne di mutilazioni tremendamente razionali: il taglio degli arti e in particolare delle mani - una pratica introdotta in Africa dai belgi ai tempi Leopoldo II e del suo “Stato libero del Congo” – serviva a dissuadere i sierraleonesi a recarsi alle urne per le consultazioni che nella

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Cfr. Arthur Abraham, “Dancing with the Chameleon: Sierra Leone and the Elusive Quest for Peace”, Journal of Contemporary African Studies, Vol. 19, No. 2, July 2001, p. 207.

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Ibrahim Abdullah - Patrick Muana, “The Revolutionary United Front of Sierra Leone: A Revolt of Lumpenproletariat”, in Cristopher Clapham (ed.), African Guerrillas, Oxford, James Currey, 1998, pp. 171-216.

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primavera del 1996 avrebbero portato Ahmed Tejan Kabbah al potere11. Inoltre, rendere invalidi era devastante psicologicamente (tanto che molte vittime imploravano di essere uccise piuttosto che perdere gli arti) ma costituiva anche un peso per la società: le vittime non avrebbero più potuto svolgere un’attività economica, come coltivare la terra o cercare diamanti. Con il golpe del 26 maggio 1997, anche la popolazione della capitale conobbe direttamente le violenze e gli orrori del RUF, che raggiungeranno l’acme con l’operazione “No Living Thing” del 6 gennaio 1999. La composizione del RUF - non solo composto da elementi lumpen, ma anche dai bambini-soldato spesso drogati e per questo delle vere e proprie schegge impazzite – congiuntamente al carattere mercenario, nel senso di una più generale assenza di obiettivi, e alla fiducia nell’impunità contribuirebbero a spiegare il ricorso a forme di violenza così estreme12.

Se a questo punto risulta più semplice contestualizzare il fenomeno RUF, occorre ancora indicare le risorse a cui fecero ricorso i ribelli e quale fu (se ci fu) la risposta degli organismi istituzionali preposti. Questi quesiti aprono due ulteriori campi di analisi, la cui indagine non solo aiuta a capire le motivazioni dei ribelli, ma anche il ruolo giocato da attori esterni (internazionali) e interni, ossia le forze governative e l’esercito.

In particolare, per quanto concerne le risorse dei ribelli, l’analisi verte sul ruolo dei diamanti, o per meglio dire sul ruolo dei “blood diamonds”, le pietre insanguinate13. Esse hanno costituito il motore delle violenze del RUF e il suo mezzo di sostentamento, grazie all’occupazione di miniere governative e giacimenti alluvionali, e al lavoro coatto dei prigionieri. La commercializzazione delle pietre preziose sul mercato internazionale, finalizzata all’acquisto di armi, dimostra la capacità di un modesto gruppo ribelle di un piccolo paese africano a sfruttare le opportunità offerte dal mercato internazionale attraverso i suoi canali illeciti. Il fatto stesso di basare il proprio potere politico sui diamanti ha finito per modellare i tratti

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In particolare, le amputazioni divennero la risposta dei ribelli ad uno slogan che Kabbah aveva rivolto ai suoi concittadini: “The future is in your hands”. Spesso, sacchi contenenti gli arti amputati venivano fatti recapitare nottetempo dal RUF davanti il palazzo presidenziale a Freetown, oppure molte vittime di amputazioni venivano mandate nei villaggi vicini con un cartello al collo a testimonianza dell’arrivo imminente dei ribelli.

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Lansana Gberie, A Dirty War in West Africa : the RUF and the Destruction of Sierra Leone, London, Hurst, 2005, pp. 145-155.

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I diamanti insanguinati hanno contribuito molto a far conoscere al mondo la tragedia della Sierra Leone, un luogo remoto e poco conosciuto dalle cronache occidentali, il cui conflitto civile non avrebbe altrimenti ricevuto una tale copertura mediatica a livello internazionale. Un ruolo fondamentale in questo senso l’hanno avuto il testo di Greg Campbell (tradotto in italiano), Diamanti di sangue. Lo sporco affare delle pietre più preziose al mondo, Roma, Carocci, 2003, e soprattutto la produzione cinematografica Blood Diamond (2007) diretta dal regista statunitense Edward Zwick ed interpretata da Leonardo Di Caprio, Djimon Hounsou e Jennifer Connelly.

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caratteristici del RUF: piuttosto che cercare l’appoggio delle popolazioni contadine, o impegnarsi a creare una base di consenso per potersi trasformare in movimento di massa capace di rovesciare un governo inetto e dittatoriale, i comandanti ribelli hanno preferito arricchirsi combattendo contro il governo grazie alle armi acquistate con i proventi del contrabbando dei diamanti verso la Liberia14. Come è oggi ben documentato, il processo che dall’estrazione dei preziosi ha portato alla vendita e all’acquisto di armamenti era ben oleato e aveva un partner insostituibile nella Liberia di Taylor15.

L’incapacità delle istituzioni centrali di controllare le risorse minerarie ha permesso, inoltre, una lunga e consolidata tolleranza - se non vera e propria sponsorizzazione – del commercio illecito e del contrabbando dei preziosi da parte delle élites politiche, inclini ad utilizzare i propri canali privati e a sfruttare i rapporti con il capitale straniero al fine di alimentare le proprie ricchezze ed espandere le proprie reti clientelari. Pratica già in atto in epoca coloniale quando le autorità inglesi avevano concluso un accordo della durata di 99 anni con la Sierra Leone Selection Trust (SLST), una filiale della compagnia de Beers, per il diritto esclusivo di prospezione e sfruttamento su tutto il territorio nazionale, e che è viva sino alla sollevazione del RUF. Durante tutti questi decenni si assistette, infatti, ad una progressiva erosione del commercio lecito dei diamanti a favore del contrabbando, nel quale la potente comunità libanese costituì il partner principale, in grado di ricoprire posizioni di potere, influenzare le decisioni del potere politico e non ultimo fornire protezione.

Le multinazionali impegnate nel commercio dei diamanti hanno agito egualmente da complici. Dapprima il colosso De Beers, anche se in una posizione non più monopolistica, e poi le cosidette juniors (Rex Diamonds, AmCan Minerals e la più nota DiamondWorks) si assicureranno fette di mercato in un contesto di cronica debolezza istituzionale, grazie alla loro capacità, tipica da “imperialismo su invito”, di fornire protezione militare. La segretezza e l’oscuro funzionamento degli organi di controllo, commercializzazione e vendita dei diamanti hanno contribuito a mascherare le anomalie del commercio dei preziosi, grazie anche alla capacità di

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Anche Reno riconosce l’assenza di una “base” nel RUF. Cfr. William Reno, “The Failure of Peacekeeping in Sierra Leone”, Current History, Vol. 100, No. 646, May 2001, p. 222.

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La Liberia ha sempre avuto una lunga tradizione di traffico illecito di diamanti. Non è un caso che, se negli anni novanta la produzione diamantifera di Freetown crollava, nelle esportazioni della Liberia – un paese che normalmente produceva 60.000 carati di pietre grezze all’anno – figurasse la voce relativa ai diamanti per un ammontare di ben 8,3 milioni di carati. Si veda su questo argomento lo studio di Ian Smillie – Lansana Gberie – Ralph Hazleton, The Heart of the Matter. Sierra Leone, Diamonds & Human Security, Ottawa, Partnership Africa/Canada, January 2000.

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compagnie che, raggiungendo dimensioni di quasi monopolio, hanno controllato la produzione mondiale dei diamanti, assicurandosi così che la loro circolazione sul mercato si limitasse a soddisfare la domanda e che i prezzi restassero elevati e stabili16. Ovviamente, portare avanti queste politiche ha coinciso con lo stringere relazioni pericolose con cartelli e gruppi criminali quali il RUF, acquistandone i diamanti allo scopo di garantirsi il controllo del mercato17.

Infine, occorre analizzare la risposta delle istituzioni al fenomeno del RUF. Generalmente, si è puntualizzato che gli apparati di sicurezza di uno stato in declino e in profonda crisi finanziaria non potessero garantire una forma di difesa adeguata, neppure contro un manipolo di uomini male armati inizialmente attivi solo in una regione periferica del paese. Le forze armate, in anni di gestione patrimoniale del potere, erano state deliberatamente indebolite e costrette a ricoprire un ruolo poco più che cerimoniale, dal momento che la sicurezza degli uomini politici e dei personaggi più influenti era garantita da milizie private ben addestrate ed equipaggiate, nettamente più efficienti dell’esercito18.

Pur tuttavia, la mera inettitudine delle forze armate non è sufficiente, secondo alcuni studiosi, a spiegare il successo del RUF, le cui atrocità furono spesso il frutto di un atteggiamento a dir poco ambiguo da parte dei soldati. Al di là del fenomeno dei “sobels”, il ruolo “funzionale” della violenza dei ribelli trova spiegazione in quello che David Keen ha chiamato il “sell-game”19, ossia quegli elementi di cooperazione e collusione tra ribelli ed esercito che divennero sempre più evidenti a partire dal 1993-94. L’alternarsi di colpi di stato e dittature militari, più tardi con la diretta partecipazione del RUF, rivelerebbe il cui prodest della ribellione, ossia l’esercito stesso che grazie ad essa ebbe un maggiore accesso alle risorse: sarà proprio con il golpe del maggio 1997 a uscire allo scoperto la collusione tra ribelli ed

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Greg Campbell, Diamanti di sangue, cit., p. 114.

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Tra le anomalie del sistema, si può ricordare che il Consiglio Supremo dei Diamanti, un ente no- profit con sede ad Anversa ufficialmente preposto a rappresentare l’industria belga dei diamanti, richiede all’importatore di citare esclusivamente il paese di “competenza” dei diamanti, vale a dire l’ultimo stato da cui sono transitati prima di oltrepassare il confine belga. Questo stratagemma ha reso possibile riciclare i diamanti illeciti rendendoli accettabili per l’industria. Si vedano Idem, pp. 130-1, e Ian Smillie – Lansana Gberie – Ralph Hazleton, The Heart of the Matter, cit., p. 3.

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Queste milizie erano poi diventate ricettacolo di criminali ed elementi “lumpen”, cooptati dalla classe politica tra i quartieri più malfamati di Freetown allo scopo di sopprimere il dissenso e sbarazzarsi degli avversari politici. La sigla della più violenta ed aggressiva di queste milizie, la Internal Security Unit (ISU), fu ri-soprannominata “I Shoot You” dalla popolazione della capitale. Più tardi, la stessa milizia – la cui fondazione sancì la nascita dello “shadow army”, fu chiamata Special Security Division (SSD), di nuovo traslitterata dalla popolazione come “Siaka Stevens’ Dogs”. I ricchi trafficanti di diamanti libanesi, invece, erano soliti affidare la propria sicurezza a milizie di feddayn palestinesi. Cfr. David Keen, Conflict & Collusion, cit., p 17.

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esercito. D’altronde, la ribellione stessa servirà al potere politico come pretesto per ritardare il processo democratico: strumentalizzando la “minaccia ribelle”, si finì per seguire la logica manichea per quale chiunque criticasse pur pacificamente le scelte del governo veniva automaticamente considerato un ribelle, giungendo a criminalizzare e quindi reprimere l’opposizione politica non armata. E’ dall’analisi di azioni ed obbiettivi di chi commetteva atti di violenza che emerge la natura di un conflitto “strangely co-operative”20, testimoniato non solo dalle azioni congiunte e talvolta contemporanee di violenze e saccheggio (i numerosi attacchi concordati) da parte di esercito e ribelli ai danni delle popolazioni civili – gli autentici nemici delle “nuove guerre” – ma anche dal livello dello scontro politico, come la comune diffidenza di forze armate e ribelli verso il ruolo crescente delle Civil Defence Forces (CDF).

La collusione trovava ragion d’essere dalla condivisione di interessi economici e politici in un certo senso “razionali”: anche una guerra ha una funzione economica rivelante, ed una economia di guerra – per dirla con Herbert Howe21 – è pur sempre preferibile all’assenza di una qualsiasi forma di economia. Ciò è ancor più vero alla periferia del nuovo ordine mondiale, laddove diventano assai labili i confini tradizionali tra ciò che dovrebbe essere naturalmente contrapposto.