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I presupposti sui quali il concetto di peacekeeping si è basato a partire dagli anni cinquanta e che hanno guidato la maggior parte, se non tutte, le operazioni di mantenimento della pace delle Nazioni Unite fino agli anni novanta non sono più applicabili alle situazioni di conflitto contemporanee. I mutamenti del sistema politico internazionale, nella fattispecie, hanno drasticamente limitato la rilevanza della tradizionale attività di peacekeeping come strumento di risoluzione dei conflitti.

Questa impostazione separava nettamente le attività di peacekeeping da quelle di peace enforcement (ovvero le due componenti di quello che viene generalmente definito peacemaking): l’imposizione della pace, infatti, costituiva un secondo livello rispetto al suo mantenimento ed implicava una forma di coercizione verso le parti belligeranti. Ciò veniva meno alle caratteristiche del peacekeeping, che restava la tipologia di intervento dei conflitti inter-statali e che erano riassumibili in quattro distinte categorie: personale (la sua natura esclusivamente militare), valori (l’imparzialità dei caschi blu, equipaggiati solo con armamento leggero allo scopo di autodifesa), funzioni (quella di stabilizzazione e disinnesco delle crisi) e contesto (il consenso delle parti in lotta al dispiegamento della forza di pace). Durante la guerra fredda, l’ONU portò avanti anche operazioni di peace-enforcement: se la First United

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Nations Emergency Force (UNEF I) in Medio Oriente nel 1956 costituì una delle prime operazioni di peacekeeping tra due fazioni in lotta (Israele, Regno Unito e Francia da un lato, Egitto dall’altro), la United Nations Operation in Congo (UNOC) del 1961 segnò il primo ed unico caso, durante la guerra fredda, di strategie di

peacekeeping e peace enforcement combinate in una singola operazione. I 20.000

uomini delle forze internazionali si confrontarono militarmente contro i secessionisti della regione del Katanga e i numerosi mercenari che li appoggiavano.

Questi quattro presupposti hanno retto negli anni della guerra fredda, costituendo il nucleo dei pochi interventi delle Nazioni Unite fino al 1990. Poi, le crisi in Cambogia, Somalia ed ex Jugoslavia – caratterizzabili nella categoria delle “nuove guerre” – hanno decretato la crisi del peacekeeping tradizionale, portando molti osservatori a definire come peacekeeping di seconda generazione quell’insieme di differenti presupposti alla base delle missioni di pace realizzate a partire dai primi anni novanta10. La pre-condizione del consenso delle parti, in particolare, è venuta meno, facendo sì che i caschi blu (oltre che le popolazioni civili) diventassero bersaglio di attacchi indiscriminati e si ritrovassero a lavorare in un ambiente fortemente ostile. Altresì, la scarsa professionalità e il basso livello di coordinamento, gravi pecche delle forze di pace, sono spesso venute alla luce in tutta la loro drammaticità nel momento in cui queste si sono trovate a far fronte a minacce militari gravi.

Oggi, le missioni di peacekeeping prendono la forma di forze multi-funzione, a forte partecipazione civile e caratterizzate da un pletora di attività, non più riconducibili alle mere operazioni militari, e comprendenti smobilitazione, disarmo e re-inserimento degli ex combattenti, osservazione elettorale, sminamento umanitario, e comunque diverse azioni volte alla ricostruzione di quel tessuto sociale che finisce per essere la principale vittima delle nuove guerre.

Oltre alle debolezze della macchina organizzativa delle Nazioni Unite, la mancanza di volontà politica tra gli stati membri delle Nazioni Unite, in particolare le potenze occidentali, a mettere a disposizioni uomini e mezzi in missioni pericolose, rimane uno degli ostacoli principali alla soluzione delle crisi. Per far fronte a questa debolezza, sono state definite diverse strategie in sede sia internazionale che nazionale. In particolare, le grandi potenze hanno cercato di ovviare al ridimensionamento strategico di talune aree del mondo attraverso un non

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Uno studio sulle diverse categorie di peacekeeping è in ‘Funmi Olonisakin, Reinventing Peacekeeping in Africa: Conceptual and Legal Issues in ECOMOG Operations, The Hague, Kluwer Law International, 2000.

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semplice approccio che consentisse da un lato di evitare coinvolgimenti massicci e dall’altro di dimostrare alla comunità internazionale un certo livello di impegno, più

ex ante che ex post, per tentare di porre freno alle crisi più drammatiche.

All’interno di questo schema, ad esempio, ha preso corpo il programma statunitense noto come African Crisis Response Initiative (ACRI), finanziato dal Dipartimento della Difesa, attraverso il quale gli USA hanno mirato a rafforzare i legami di Washington con i paesi africani per mezzo della creazione di forze regionali di peacekeeping pronte ad essere dispiegate nel corso delle crisi. Ben quattro paesi dell’Africa occidentale - Benin, Ghana, Mali, Senegal e Costa d'Avorio – hanno partecipato all’ACRI, a partire dal suo varo nel 1997, e molti di questi hanno ricevuto corsi di addestramento a Fort Bregg, negli Stati Uniti. Contingenti addestrati nell’ACRI hanno gia operato in missioni di mantenimento della pace, come le unità maliane e ghanesi presso l’Economic Community of West African States Cease-fire Monitoring Group (ECOMOG) in Sierra Leone. A partire dal 2004, l’ACRI è stato sostituito dall’Africa Contingency Operations Training Assistance (ACOTA), un programma destinato a formare gli addestratori e a fornire pacchetti di assistenza ad

hoc ai diversi paesi.

In realtà, diversi programmi di questo tipo sono attivi negli Stati Uniti, anche se con un minore impatto rispetto all’ACRI/ACOTA: l'International Military and Education Training Program (IMET) tra il 1991 e il 1995 ha addestrato circa 3.400 ufficiali africani in scuole americane. L’IMET, che viene definito un programma low

cost, ha tra i suoi principali obbiettivi la stabilità regionale, da perseguire attraverso

una maggiore cooperazione militare con gli Stati Uniti, e l’incremento della capacità delle forze armate destinatarie di “assorbire valori democratici e proteggere i diritti

umani internazionalmente riconosciuti”11.

Tornando all’ACRI/ACOTA e al suo significato, diverse critiche hanno interessato la sua composizione, il controllo e il mandato. Anzitutto, l’ACRI ha addestrato esclusivamente nell’ottica del peacekeeping, laddove in Africa molti conflitti necessitano un approccio più risolutivo che contempli elementi di peace

enforcement. Altri fattori, poi, condurrebbero a credere che l’ACRI non sia in grado

di risolvere la tradizionale assenza di professionalità e lo scarso controllo di molti eserciti africani, se si considera il ruolo delle forze armate ugandesi, assistite a lungo dall’ACRI, e resesi protagoniste dell’invasione delle regioni orientali della

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Si veda il sito Internet del Dipartimento di Difesa statunitense (www.dsca.mil/home/international_military_education_training.htm)

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Repubblica Democratica del Congo nel 1998 e della destabilizzazione dei paesi limitrofi. Infine, se si considera che l’ACRI ha addestrato solo qualche decina di migliaia di soldati, decidendo tra l’altro di scartare la Nigeria e ricevendo il rifiuto da parte del Sudafrica, si comprende la natura ancora limitata dell’iniziativa.

In definitiva, l’ACRI non è stato immune dalla critica di rappresentare una indesiderata interferenza occidentale, considerata la natura discrezionale con cui gli USA decidono di inserire determinati paesi al posto di altri, in base alla presunta accettazione da parte dei paesi riceventi della supremazia dell'ordine politico democratico. Tuttavia, i rapporti di organizzazioni come Amnesty International rilevavano forti dubbi sulla reale esistenza di tali requisiti in paesi come il Senegal o lo stesso Mali, le cui forze di sicurezza non erano nuove ad accuse sul mancato rispetto dei diritti umani. Piuttosto, sembra si sia cercato di favorire paesi che mostravano fedeli alleati degli Stati Uniti, con buona pace delle velleità “panafricaniste” dei promotori del programma, e il suo approccio selettivo e discriminatorio lo ha fatto apparire un’alleanza con gli USA piuttosto che un autentico sistema di sicurezza regionale12.

Al di là delle esperienze unilaterali dei singoli stati – su questa scia si possono citare iniziative francesi e britanniche - il peacekeeping multilaterale a base regionale merita di essere approfondito alla luce dei mutamenti intercorsi nel sistema internazionali. Il suo principale vantaggio, infatti, risiede proprio in una maggiore disponibilità ad intervenire nelle crisi che si verificano nella propria regione, ovviando in tal modo al più controverso ostacolo della mancanza di volontà da parte delle potenze occidentali. Di converso, il suo rischio principale è che gli interventi non siano sempre così “disinteressati”. Il crescente affidamento di mansioni di

peacekeeping ad iniziative regionali, sub-regionali e ad hoc viene contemplato dal

Capo VII della Carta delle Nazioni Unite, che riconoscono alle organizzazioni regionali un ruolo sussidiario ma integrale nell’espletamento di funzioni mantenimento della pace. Questa pratica sempre più diffusa – nota come burden

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Cfr. Ken Silverstein, Private Warriors, London, Verso, 2000, pp. 175 e 178-179 e Herbert M. Howe, Ambiguous Order, cit., pp. 243-268.

Dopo l’11 settembre, l’Africa sub-sahariana riveste per Washington una maggiore importanza dal punto di vista strategico. Sotto questa luce si legge la formulazione di iniziative ad hoc e di politiche mirate alla lotta al terrorismo internazionale, mentre il capacity-building nel mantenimento della pace rimane un obbiettivo di second’ordine: in quest’ottica, si colloca l’idea americana di istituire lo Usa Africa Command (AFRICOM), un comando integrato con cui gestire in maniera integrata la sicurezza nel continente, allo scopo di rimpiazzare l’architettura di sicurezza tuttora vigente, basata su tre comandi distinti. In materia, si veda Aldo Pigoli, “Africa: la creazione dell’AFRICOM”, 15/03/2007, (www.equilibri.net).

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sharing13 – ha trovato un forte impulso non solo nell’Africa sub-sahariana, ma anche con le operazioni della NATO in Kosovo e di OSCE e NATO in Bosnia Erzegovina alla fine degli anni novanta.

In questa ottica vanno viste le esperienze africane di mantenimento della pace, il cui contesto e i cui destini risultano fortemente condizionati alla natura delle organizzazioni regionali da cui le operazioni stesse sono scaturite.