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Dopo aver analizzato il mutamento del concetto di guerra e l’emergere delle nuove guerre, resta ora da comprendere come i processi di globalizzazione e i trend economici planetari, avviatisi già all’inizio degli anni ottanta, abbiano contribuito a minare le deboli fondamenta dello stato nazione africano.

E’ invalso, infatti, che le forme in cui la nuova violenza organizzata si manifesta, specie nel Sud del mondo, trovano un’origine in processi istauratisi negli ultimi due decenni a livello globale; questi processi danno vita ad esiti complessi, difficilmente etichettabili con formule ad effetto.

Alcune caratteristiche aiutano a meglio comprendere il processo di disfacimento delle istituzioni statuali vissuto da molti di quegli “Stati di aiuto”45,

ossia paesi del Sud del mondo, la cui esistenza, negli anni della Guerra Fredda, era in parte garantita dagli aiuti pubblici allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA) elargiti dai paesi industrializzati.

In primo luogo, il venire meno del sistema clientelare di patronage su scala mondiale grazie al quale, anche in cambio della loro scelta di campo, molti paesi del

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Herbert M. Howe, “African Private Security”, Conflict trends, No. 6, June 2000, p. 24.

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Alex de Waal, “Contemporary Warfare in Africa”, in Mary Kaldor - Basker Vashee (eds.), Restructuring the Global Military Sector, cit., pp. 287-289.

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Terzo Mondo usufruivano di prestiti agevolati o a fondo perduto, quasi sempre su base multilaterale. Già dalla metà degli anni ’80, la disponibilità creditizia dei paesi industrializzati cominciò a ridursi e tale fenomeno divenne più significativo nel momento in cui, dai primi anni ’90, agli ODA si sostituirono gli investimenti diretti esteri (Foreign Direct Investment, FDI), ossia flussi privati di capitale con l’obiettivo di creare possibilità produttive, destinati a favorire un numero minore di paesi.

La riduzione degli aiuti multilaterali46 deve considerarsi strettamente correlata ad un altro fenomeno, ben più importante del primo per gli effetti avuti sul tessuto economico sociale di molti Paesi in Via di Sviluppo (PVS): i programmi di aggiustamento strutturale (PAS) promossi dalla metà degli anni ’80 dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Ispirati al nuovo pensiero liberale e basati su drastici tagli alla spesa pubblica, privatizzazioni e deregulation, i PAS sono stati contestati per aver conseguito obiettivi macroeconomici pur importanti (risanamento pubblico e riduzione dell’inflazione) a prezzo di un netto peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Terzo Mondo. Gli effetti disastrosi su settori quali l’istruzione, la sanità, l’assistenza sociale hanno indebolito fortemente il ruolo dello Stato, spogliandolo di prerogative chiave.

I contemporanei processi di globalizzazione economica riassumono, e allo stesso tempo amplificano, la portata dei due fenomeni precedenti. Nel Sud del mondo, gli effetti della deregulation economica e della crescente influenza dei mercati generano un’interconnessione e una sovrapposizione di più reti decisionali che, anziché spingere verso l’omogeneizzazione, acuiscono i processi di inclusione ed esclusione. Un’autorità delocalizzata su più livelli – organizzazioni internazionali (OI), organizzazioni non governative (ONG), settore del volontariato47 - porta all’esistenza di nuove entità che finiscono inevitabilmente con l’erodere l’autorità statale, contribuendo ad estendere il governance gap tra governanti e governati.

Di conseguenza, quei processi che nei paesi industrializzati portano verso una ri-definizione dell’autorità politica generano in molti PVS più centri decisionali senza un’autorità centrale, alimentando l’entropia del sistema, dovuta al fatto che

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Alcuni dati sono illuminanti riguardo il peso risibile della cooperazione allo sviluppo, che attraverso gli ODA consentiva prestiti a condizioni migliori di quelle di mercato, rispetto agli investimenti privati. Nel 1996, un paese come la Cina, ad esempio, ha ricevuto oltre 40 miliardi di dollari sotto forma di FDI e appena 2,5 miliardi di aiuti pubblici. Lo stesso può dirsi per quanto riguarda l’Indonesia e il Messico che passano rispettivamente da 1,2 miliardi di USD (ODA) 7,9 (FDI) e da 0,285 (ODA) a 7,6 (FDI).

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Mark Duffield, Post-Modern Conflict. Warlods, Post-Adjustment States and Private Protection, University of Birmingham, School of Public Policy, 1998, p. 3 e ss.

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quest’ultimo si coordina a fatica proprio perché l’autorità statale implementa decisioni prese da altri attori, spesso non-istituzionali.

Come si vede, esistono meccanismi ben identificabili alla base di quel “disordine durevole” caratterizzato da caos istituzionale, crescente marginalizzazione e disuguaglianza, etnicità politica, diffusione delle no go areas, crescente disarticolazione Nord-Sud. Il volto assunto dalla globalizzazione nei paesi del Terzo Mondo, più che di integrazione orizzontale, è quello di uno sfruttamento di forza lavoro e risorse tra diverse aree economiche, mentre la conseguenza più diretta è la diffusione su larga scala dell’economia informale. In sintesi, nel Nord del mondo il volto della globalizzazione è stato quello di una concentrazione dell’economia mondiale all’interno di diversi sistemi produttivi regionali, generando maggiori vantaggi comparati; nel Sud, l’economia convenzionale si è contratta, a vantaggio di quella sommersa fatta di zone grigie e affari illeciti. Parallelamente, è emerso un nuovo progetto politico non-statuale, associato spesso ad illiberalismo, esclusione etnica, separatismo religioso48.

L’insieme di queste ragioni dimostra pertanto che alla base di tensioni e conflitti vi è un chiaro processo di disfacimento dello stato-nazione e l’emergere di nuovi meccanismi di inclusione ed esclusione dovuti ad un diverso accesso alle risorse, e non, come vorrebbe Kaplan, al riemergere di ataviche e mai sopite tensioni etniche. Alla base dei conflitti “post-moderni”, dunque, non è tanto un “Neobarbarismo”, quanto piuttosto un “Neomedievalismo”, legato all’esistenza di sistemi statuali non più in grado di ricercare un’autorità politica basata sul consenso (alquanto dubbio in molti contesti in cui la democrazia è solo di facciata), sul territorio (che il più delle volte non si riesce a controllare), sul sistema burocratico (indebolito dai PAS, delegittimato, corrotto).

Le circostanze economiche in cui si trovano quasi tutti i PVS sono state profondamente influenzate dai PAS varati da BM e FMI. Oggi, la fase di post- aggiustamento e di privatizzazione, condizione essenziale quest’ultima per ottenere aiuti internazionali, coincide spesso con il modello neo-medievale di autorità politica, e fenomeni quali il separatismo etnico, la frammentazione regionale, il disastro ambientale sembrano divenuti elementi strutturali.

Oggi, molti PVS appaiono agli antipodi di quella concezione evoluzionistica, tanto cara a teorici della modernizzazione, secondo la quale questi paesi si

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Idem, Internal Conflict. Adaptation and Reaction to Globalisation, Dorset (UK), The Corner House, The Corner House Briefing No. 12, January 1999, p. 7.

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troverebbero all’interno di un continuum teleologicamente indirizzato all’adesione alla democrazia liberale. Katherine Verdery preferisce parlare di “transizione al feudalesimo” e William Reno ha parlato del ritorno di sistemi simili a quelli africani precoloniali, caratterizzati da più entità decisionali e da un centro debole. Effettivamente, molte forme assunte dalla nuova violenza organizzata, nella fattispecie quella dei cosiddetti “Signori della guerra”, diffusa non solo in Somalia ma anche in Africa occidentale, si sono basate sull’esistenza di un’autorità centrale debole impossibilitata a controllare l’emergere di uomini forti e signori locali49. In pratica, un processo opposto a quello che ha portato alla nascita dello Stato moderno.

Quanto detto, tuttavia, non si limita alla constatazione di uno “stato di declino”. Sembra si stia assistendo piuttosto a nuove forme politico-organizzative che, modellate dalla globalizzazione economica, sono caratterizzate da una

governance minima e da un’autorità politica esercitata su più livelli. Gli esiti ai quali

si va pervenendo non sono quindi casuali, ma sembrano spingere verso forme di società in cui fenomeni un tempo opposti quali “guerra” e “pace”, diventeranno concetti relativi i cui confini tenderanno a svanire o risulteranno sempre più blandi.

Pertanto, dalla guerra stessa, dal conflitto “post-moderno”, sembra nascere un modo nuovo di progettare il potere politico. Le sue caratteristiche costituiranno probabilmente un ibrido difficilmente assimilabile a forme tradizionali di organizzazione della società. Questo nuovo “spettro”, suggerisce Zakaria, potrà forse chiamarsi “democrazia illiberale” dal momento che “così come esistono diversi tipi

di capitalismo possono esistere diversi tipi di democrazia”50.

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E’ esemplare il caso di “Taylorland”, nota anche come “Greater Liberia”, una sorta di sistema statuale alternativo “istituito” dal National Patriotic Front of Liberia (NPFL) di Charles Taylor nei primissimi anni ’90 e che raggiunse l’acme nel 1992-93, prima che l’Economic Community of West African States Cease-fire Monitoring Group (ECOMOG) - la forza d’interposizione della Economic Community of West Africa States (ECOWAS/CEDEAO) – riuscisse a ristabilire almeno una parvenza d’ordine nella regione. Taylor, in grado di destabilizzare anche il governo della vicina Sierra Leone, facendo a meno del sistema giuridico batteva moneta, possedeva propri istituti di credito e persino stazioni radiotelevisive. Basandosi su un sistema di coercizione locale, istituì un solido regime di scambi con l’estero, potendo contare su risorse agricole, legname pregiato e diamanti. Consapevole delle potenzialità offerte dal mercato globale, Taylor strinse una serie di alleanze strategiche con imprese straniere impegnate nel fiorente settore della gomma, quali la Firestone e la Tyre and Rubber Co., con il governo francese, di cui Taylorland era il terzo fornitore di legname tropicale, con compagnie di import-export libanesi e con aziende ucraine dalle quali il “signore della guerra” acquistava armi. Le basi del consenso di Taylor erano milizie locali e una gioventù emarginata, mentre tutto ciò si realizzava nella pressoché totale assenza di un’autorità centrale incapace di ristabilire un ordine minimo. Il caso liberiano, che costituisce quasi un estremo della tipologia dei cosiddetti “Stati collassati”, non è molto diverso da quello somalo, una realtà in cui le fazioni in lotta consolidatesi al potere in alcune regioni del paese non hanno impedito la creazione di fitte reti commerciali in cui sono coinvolte compagnie occidentali. Cfr. Idem, Post-Modern Conflict, cit., pp. 13-14. Sulle politiche del warlordism, si veda William Reno, Warlord Politics and African States, Boulder (Co.), Lynne Rienner, 1998.

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Qualunque siano le forme di organizzazione politica cui si perverrà, esse difficilmente saranno frutto di esiti casuali ed imprevisti. Le condizioni alle quali certi regimi prosperano sembrano garantite dalla loro capacità di inserirsi negli spazi offerti dal libero mercato e dal commercio internazionale51. Lo Stato, come si è visto, non è necessario al funzionamento di reti commerciali all’interno di aree economiche che, anche se definite “grigie” e informali, garantiscono profitti sia ad attori locali che internazionali. Dalla guerra, come si è visto, nasce anche un alternativo sistema di profitto52.

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