• Non ci sono risultati.

Lo stato africano, come si è visto, nasce sotto forma di una costruzione debole ed incompleta che ha attraversato parecchie vicissitudini (instabilità, frequenti colpi di stato, conflitti intra-statali) nella seconda metà del XX secolo.

Tuttavia, il lungo processo disgregativo che ha portato all’erosione e talvolta alla perdita della sovranità si è accelerato alla fine degli anni novanta, da un lato con la fine della contrapposizione tra i blocchi e l’incedere della globalizzazione,

24

Robert H. Jackson – Carl. G. Rosberg, Personal Rule in Black Africa: Prince, Autocrat, Prophet and Tyrant, Berkeley, University of California Press, 1982, p. 14, cit. in Richard Cornwell, “The Collapse of the African State”, in Jakkie Cilliers – Peggy Mason (eds.), Peace, Profit, or Plunder? The Privatisation of Security in War-Torn African Societies, Pretoria, Institute for Security Studies, Halfway House – Ottawa, Canadian Council for International Peace and Security, 1999, pp. 64-65.

16

dall’altro con la diversa natura della violenza organizzata su scala locale e globale, anch’essa generata dal mutato sistema internazionale.

In questa prima parte, si cercherà di far luce sui processi che hanno spinto il

warfare, dalla interpretazione di Clausewitz (attività razionale limitata nello spazio e

nel tempo, finalizzata a uno scopo) alla tipologia riconosciuta come “nuove guerre” (l’espressione è di Mary Kaldor), e sulla cui natura ancora ci si interroga. A tal proposito, diviene inevitabile soffermarsi sui cambiamenti intercorsi al termine della guerra fredda, e alle interpretazioni che ad essi sono state fornite

Le teorie clausewitziane hanno a lungo costituito una potente chiave interpretativa per i conflitti scoppiati nell’emisfero occidentale, specie durante il XIX secolo. Le guerre intraprese dagli stati europei risultavano limitate, miravano ad un fine essenzialmente politico e terminavano una volta raggiunto.

In parte, la lezione del generale prussiano si rivelò utile anche per spiegare le guerre totali del XX secolo, molto vicine alla sua idea di guerra assoluta. La Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, aveva costituito una grande novità e Clausewitz non avrebbe potuto immaginare le proporzioni con cui una spaventosa combinazione di produzione di massa, politica di massa e comunicazione di massa potesse essere finalizzata alla distruzione di massa. Il conflitto era stato totale e aveva portato all’erosione delle distinzioni tra pubblico e privato, militare e civile, interno ed esterno, anticipando quella sorta di psicosi permanente tipica della successiva Guerra Fredda.

Questa nasceva profondamente condizionata dall’avvento dell’era nucleare, basata sulla teoria della deterrenza ben riassunta dallo slogan di George Orwell in

1984: “La guerra è pace”. L’atomica era destinata a modellare gli assetti

geostrategici della seconda metà del secolo, da un lato tenendo viva l’idea della guerra dall’altro tenendone lontana la realtà.

Dal punto di visto politico internazionale, la conseguenza era stata la costituzione di un sistema bipolare “disomogeneo”, per utilizzare le parole di Raymond Aron, e che in Europa aveva dato vita ad un tipo di alleanze in cui i paesi avevano rinunciato, a favore delle due superpotenze, ad uno degli attributi essenziali della sovranità, ovvero al monopolio della violenza legittima organizzata25.

Dal punto di vista strettamente militare, gli esiti di un nuovo ordine imperniato sulla minaccia nucleare erano complessi e contraddittori, ma proprio dai

25

17

conflitti irregolari e informali, e dalle proxy wars della seconda metà del ventesimo secolo e della guerra fredda erano destinate a prender forma le nuove guerre.

Benché alcuni conflitti nella seconda metà del ‘900 abbiano riproposto lo schema clausewitziano dello scontro tra due entità statali (Egitto – Israele, Grecia – Turchia, Iran – Iraq, per citarne alcuni), la maggior parte delle operazioni belliche ha seguito una nuova tipologia definita “conflitto a bassa intensità” (Low-Intensity

Conflict, LIC). Questo nuovo tipo di guerra – caratterizzato dall’assenza di scontro

diretto tra due eserciti regolari, dal mancato accesso ad armi tecnologiche e dalla maggiore diffusione nel Terzo Mondo – nascerebbe nel contesto della Guerra Fredda dall’esigenza delle superpotenze di de-localizzare lo scontro nelle aree periferiche di propria influenza. L’origine dei LIC è da ricercare, infatti, nell’appoggio fornito da USA e URSS a regimi o guerriglie considerati alleati ideologici in una contrapposizione manichea che vedeva su due fronti “bene” e “male”, ossia combattenti “per la libertà” e combattenti “per il socialismo”.

La fine della Guerra Fredda, lungi dal determinare l’esaurirsi di conflitti considerati sostanzialmente ideologici, da un lato ha visto il permanere in molte regioni dell’instabilità accompagnata da una riduzione totale del numero delle vittime, dall’altro ha prodotto un nuovo tipo di conflitto più lungo, più pervasivo, meno decisivo26. Secondo Van Creveld, i LIC sarebbero stati il genere di ostilità di gran lunga più diffuso dal 1945 ad oggi e, sotto forme sensibilmente diverse, soprattutto legate agli interessi economici che perseguono e al contesto in cui divampano, costituiscono la violenza organizzata dell’età globale. Pertanto, rientrerebbero in questa tipologia non solo molti dei conflitti ereditati dalla Guerra Fredda, ma anche quelli, non meno gravi, nati sulle macerie del socialismo reale (ex- Jugoslavia, Caucaso).

Come si è visto, le tesi circa la genesi delle nuove guerre non trovano affatto concordi gli studiosi, spingendoli a ricercare spiegazioni diverse e talvolta opposte. Nel proliferare degli studi sulle teorie del mutamento, agli inizi degli anni novanta, alcune tesi sono state inizialmente prese a prestito per dare una interpretazione ai conflitti che divampavano alla “periferia” del “nuovo ordine mondiale”. Non sempre, tuttavia, queste impostazioni si sono rivelate utili. La tesi di Francis Fukuyama, sulla “fine della storia”27 – trionfo urbi terraque della liberal-democrazia occidentale,

26

Mary Kaldor - Basker Vashee (eds.), Restructuring the Global Military Sector. Volume I: New Wars, London, Cassel-Pinter, 1997, p. 8.

27

Si veda il testo di Francis Fukuyama, The End of History and The Last Man, New York, Free Press, 1992.

18

“omogeneizzazione” e “mercato-comunizzazione della politica mondiale” – si rivelò presto infondata28. Infatti, nel momento in cui sempre più numerose regioni del mondo cominciarono ad essere interessate da nuovi conflitti e a fatica si riuscì a porre freno a quelli ereditati dalla contrapposizione dei blocchi, divenne prioritario occuparsi della “disomogeneità” del sistema internazionale piuttosto che sulla sua “omogeneità”. Ingovernabilità e caos organizzato29 erano gli elementi caratterizzanti il nuovo ordine mondiale, almeno nelle sue regioni periferiche.

La tesi più celebre per spiegare la permanenza dei conflitti divenne quella di Samuel Huntington legata allo “scontro tra civiltà”, secondo cui le ostilità tendono a scoppiare nelle zone di faglia tra le diverse civiltà (ad esempio Medio Oriente e Kashmir) per quel che riguarda il livello locale e, secondo la formula “The West

versus The Rest”, a livello globale. Malgrado l’enorme credito riscosso ancora oggi,

la teoria di Huntington pecca di eccesso di determinismo. Parte infatti dal presupposto che le diverse civiltà siano dei blocchi monolitici, uniformi, non problematici, immodificabili, e nega di fatto che possano coesistere più anime, anche contraddittorie, al loro interno e che queste siano in grado di dar vita ad esperienze autonome ed innovative. In breve, si finisce con l’adottare una logica per cui ad ogni civiltà, dato il suo patrimonio valoriale, debba corrispondere un certo comportamento30.

Se le tesi fin qui esaminate pongono l’accento sul mutamento e sul nuovo ordine mondiale successivo all’era bipolare, altre teorie, non meno importanti, hanno preferito scoprire quali effetti la ri-definizione della politica internazionale avrebbe avuto nei paesi in via di sviluppo e nelle aree non ancora integrate nel nuovo ordine mondiale. A tal proposito, una preoccupazione costante ha indotto a verificare in che termini la liberal-democrazia diveniva trasferibile ed applicabile a contesti sociali diversi, nel momento in cui veniva meno l’alternativa rappresentata dal socialismo. Tuttavia, le condizioni di instabilità e di conflittualità presenti in quelle aree costringevano piuttosto a fare i conti con i processi di trasformazione della guerra e

28

Stando a questa tesi, a fatica si sarebbe spiegato lo scoppio della prima guerra mondiale, visto che nel 1914 il livello di interdipendenza economica all’interno del sistema internazionale (per giunta “omogeneo”, per dirla con Aron) era di gran lunga superiore a quello contemporaneo. Poco tempo dopo la fine della Guerra Fredda, non fu necessario ricorrere ad esempi tratti dall’età liberale per accorgersi che le tesi di Fukuyama risultavano quanto meno velleitarie.

29

Cfr. David Keen, “Organised Chaos. Not the World We Ordered”, The World Today, January 1996.

30

Samuel P., Huntington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, New York, Simon&Schuster, 1996. Si rimprovera a questa tesi l’incapacità di spiegare, ad esempio, l’appoggio fornito dagli Stati Uniti ai Bosniaci durante la guerra nella ex-Jugoslavia o l’alleanza dei primi con l’Arabia Saudita nel teatro mediorientale.

Per quanto riguarda il suo approccio troppo deterministico, si veda ad esempio Raffaele Mastrolonardo, “I nemici aggressivi”, in Guerre&Pace, N° 83, Anno 9, ottobre 2001, pp. 51-53.

19

ad interrogarsi sulla forma assunta dalle nuove guerre. Ancor più che nel caso di Huntington, le impostazioni degli studiosi si sono rivelate pessimiste, giungendo ad influenzare in più d’una occasione le scelte delle élites politiche, in seguito dall’opinione pubblica accusate di inazione31.

E’ utile ricordare la tesi di Robert D. Kaplan, secondo cui l’unica interpretazione che oggi meglio analizzerebbe il panorama politico economico e sociale di molte regioni del mondo è quella di una realtà inevitabilmente immersa in un regime di totale anarchia32. Kaplan è alquanto scettico circa l’effettiva compatibilità del modello di sviluppo politico occidentale con molti paesi del Sud del mondo. In altre parole, ritiene la democrazia una formula vuota e un tipo di organizzazione della società in grado di emergere in maniera soddisfacente solo come corollario di altre conquiste sociali ed economiche. A tal proposito, gli occidentali considerati da Kaplan come dispensatori della “democrazia”, piuttosto sembrerebbero simili agli antichi colonizzatori. Stati che pur vengono chiamati democrazie sono spesso stravolti da tensioni ed annosi conflitti, che non possono che lasciare disarmati circa le reali possibilità di fornire soluzioni di lungo termine a situazioni che Kaplan definisce di caos ed anarchia.

Al di là delle numerose tesi fin qui viste, resta ancora prioritario comprendere le caratteristiche ed intuire gli elementi innovativi della nuova violenza organizzata, a prescindere da tesi più o meno riduttive e fuorvianti.

Un’evidenza inoppugnabile, ad esempio, di quella che Luttwak ha definito “nuova bellicosità”33 è costituita dal fenomeno che vede le popolazioni civili come bersaglio dei combattimenti, in una misura molto più elevata rispetto al passato. Si tratta in primo luogo di guerre contro i civili e contro la società civile, le vittime principali della nuova violenza organizzata: se nelle guerre d’inizio secolo la proporzione tra vittime militari e civili era di otto a uno e durante la Seconda Guerra Mondiale raggiungeva la parità, oggi muore solo un militare ogni otto civili34.

31

Ci si riferisce principalmente alle teorie già esaminate di Martin Van Creveld, di Daniel Patrick Moynihan in Pandaemonium: Ethnicity in International Politics, Oxford, OUP, 1993 e soprattutto di Robert D. Kaplan che, con il suo Balkan Ghosts: A Journey Through History, New York, Vintage Books, 1994, sembra aver fortemente influenzato l’amministrazione Clinton inducendola a desistere, negli anni novanta, da ogni ipotesi di intervento nella regione balcanica, dipinta come un teatro di inestricabili odi etnici immerso in un stadio avanzato di anarchia in cui sarebbe stato vano e controproducente intervenire a favore di chicchessia.

32

Si veda l’opera di Robert D. Kaplan, The Coming Anarchy: Shattering the Dreams of the post Cold War, New York, Random House, 2000.

33

Mary Kaldor, Le nuove guerre, cit., p. 41.

34

20

La nuova violenza organizzata sfugge da semplici interpretazioni, o almeno da quelle comunemente utilizzate. La guerra, sempre meno appannaggio esclusivo dello stato-nazione, istituzione recente e attraversata da una profonda crisi strutturale, tende ad essere promossa piuttosto da entità molto simili a quelle feudali, ovvero gruppi etnici, città-stato, associazioni religiose, corporazioni economiche. Parimenti, banditi, terroristi, guerriglie, compagnie mercenarie esautorano progressivamente eserciti professionali ed istituzionali. Anche la loro natura è pronta a cambiare, avvicinandosi a quella di corpi di polizia o di bande armate. All’interno di una guerra non più istituzionalizzata, che farà uso di armi vietate e colpirà oggetti simbolici, la lotta non avverrà più in campo aperto, ma non per questo le distruzioni e la crudeltà diminuiranno. Secondo Donald Snow, in questo nuovo tipo di conflitti,

“Manca un comune centro di gravità al quale i combattenti fanno

riferimento; in molti casi non è chiaro se i “ribelli” hanno l’interesse o l’obiettivo di acquisire potere politico o rappresentanza; e non sono posti limiti alla violenza che le parti in conflitto sono disposti ad adottare. Questi conflitti sembrano costituire un nuovo tipo di violenza interna organizzata”35

Diviene chiaro come lenuove guerre proliferino laddove l’istituzione statale è implosa. Parallelamente a questa tesi di fondo, un’altra costante di questa analisi lega il fenomeno delle nuove guerre ai processi di globalizzazione dei mercati.

Questi conflitti tendono a coinvolgere reti transnazionali che organizzano idee, soldi, armi, mercenari e che avanzano rivendicazioni politiche in nome della religione o dell’etnicità. Queste reti, infatti, fioriscono nelle aree del mondo dove gli Stati sono implosi in seguito all’impatto della globalizzazione su sistemi un tempo chiusi ed autoritari, e si compongono di gruppi privati e “signori della guerra”, oltre che di residui dell’apparato statale.

Facendo proprie le logiche della globalizzazione dei mercati, le nuove guerre presuppongono anche una nuova economia di guerra, ben distante da quella classica imperniata sullo sforzo produttivo, la protezione e l’autarchia. Oggi il conflitto rafforza legami economici e commerciali paralleli al sistema statale, spesso “collassato”, e si basa sulla spoliazione e sul saccheggio, traendo linfa vitale dai traffici illeciti di droga, armi, clandestini, contrabbando, e dall’imposizione della “tassazione” sugli aiuti umanitari. L’obiettivo principale è proprio la conquista del

35

Cfr. Donald Snow, Uncivil Wars: International Security and the New Internal Conflicts, Boulder (Co.), Lynne Rienner, 1996, p. ix.

21

potere economico, mentre l’effetto più immediato e visibile è quello dei flussi di sfollati e rifugiati generato dai conflitti.

In sintesi, la guerra clausewitziana non rispecchia più la violenza organizzata dell’età globale. All’interno del conflitto la vittoria o la sconfitta non sono più “assolute”, così come le battaglie e in genere gli scontri decisivi tra gli opponenti si fanno molto rari. La guerra stessa, invece che uno strumento politico limitato nello spazio e nel tempo, è divenuto un modo della convivenza tra i contendenti, tanto che risulta sempre più difficile tracciare una netta distinzione tra guerra e pace. Spesso, ciò che si è voluto perseguire attraverso una politica di sistematica destabilizzazione della società, seminando paura e odio tra la popolazione, creando un clima di terrore, eliminando le voci moderate e sconfiggendo la tolleranza36, è stata la permanenza e la perpetuazione di un regime di perenne instabilità ritenuto favorevole alla ricerca e alla salvaguardia di determinati interessi. Parafrasando Clausewitz, si può sostenere che la guerra, un tempo “la continuazione della politica con altri mezzi”, sia oggi divenuta “la continuazione di interessi politico-economici di gruppi con altri mezzi”.

Riassumendo, le nuove guerre, la forma in cui si combattono e gli obiettivi che perseguono hanno determinato esiti del tutto inediti, difficilmente comprensibili attraverso schemi interpretativi tradizionali37. Molte peculiarità risultano tuttavia

36

Mary Kaldor, “I nuovi conflitti”, trad. it. in Internazionale, 2/8 novembre 2001, N° 410, Anno 8, pp. 38-39.

37

Lo smembramento violento dell’ex-Jugoslavia, legato al prevalere nelle Repubbliche costituenti di forze centrifughe e separatiste conseguenti al venire meno della figura di Tito e al crollo del comunismo, è considerato un caso tristemente paradigmatico delle cosiddette “nuove guerre”. Il conflitto “etnico” ha lasciato sul campo circa 260.000 vittime, in gran parte civili, distruggendo l’economia e la società civile, specie nella sua anima più laica e tollerante, ma la tesi secondo cui il comunismo aveva momentaneamente nascosto, o meglio “congelato” un passato costituito da odi atavici presto destinati a ri-esplodere è vera solo in parte. Piuttosto, e il sanguinoso conflitto in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1995 ne è testimonianza, secoli di convivenza multietnica, di contatti e rispetto reciproco tra le diverse culture e di fioritura artistica e letteraria venivano improvvisamente avvelenati da un etno-nazionalismo montante e da una nuova politica di esclusione su base razziale. L’impegno di Tito di dar vita ad un’unica comunità politica degli Slavi del Sud svaniva nel momento in cui lo jugoslavismo non poteva più contare sul comune principio di legittimazione marxista- leninista.

Le nuove guerre sono spesso ricche di episodi singolari, pur nella loro immensa tragicità. Lungi dal voler alimentare quel gusto per il sensazionalismo, che spesso oscura le vere ragioni di un conflitto, si fornisce di seguito un aneddoto assai significativo delle cosiddette “nuove guerre”.

David Rieff racconta come i soldati serbi di Bosnia, dopo una giornata di sparatorie dalle colline intorno a Sarajevo chiamavano al telefono i loro amici bosniaci musulmani in città. Questo comportamento si spiegava con il fatto che i serbi di Bosnia non credevano di star uccidendo i propri amici, bensì i “Turchi”, e la loro “dominazione” sui Balcani a partire dalla “eroica” sconfitta serba di Kosovo Polije nel lontano 1389. Erano convinti di star “salvando l’Europa” che, ingrata, “non apprezzava i loro sforzi”. Occorre sottolineare come i media nazionali avevano da tempo fomentato tale visione esclusivista e falsata della realtà inducendo, specialmente il pubblico serbo, a vivere una guerra virtuale prima che quella vera avesse inizio. La politica perseguita dalle élites nazionaliste delle singole repubbliche era ormai impregnata di etno-nazionalismo, nonostante la presenza di una larga fetta della società civile ancora tollerante e aperta al dialogo tra le diverse componenti etniche. Alcune iniziative immediatamente anteriori all’inizio delle ostilità, da quelle federali legate agli estremi

22

classificabili se si considera la dimensione internazionale in cui questi conflitti prendono corpo – ossia un nuovo ordine mondiale in cui cadono molte delle inibizioni legate al confronto politico-ideologico tra le due superpotenze – e quella interna, caratterizzata dal disfacimento dello Stato-nazione e dal venire meno dei tradizionali principi di legittimazione sotto l’incalzare dei processi di globalizzazione. Le nuove guerre sfuggono pertanto alle classificazioni tradizionali, e alla luce di questo, appare semplicistico ed inappropriato etichettare sbrigativamente come “anarchici” o “intrattabili” certi conflitti apparentemente irrisolvibili. Questa tendenza nasce piuttosto da una scarsa conoscenza di fondo dei contesti in cui questi divampano. Analogamente, nella feroce violenza delle nuove guerre, e nell’apparente banalità del male, si nascondo precise strategie: sono quelle del perseguimento di precisi interessi economici e politici che risultano assai più comprensibili alla luce dell’economia delle nuove guerre.

In conclusione, il warfare classico sembra aver percorso la stessa parabola dello Stato-nazione, rendendosi strumento funzionale alla sua nascita e al suo sviluppo, ma seguendone inesorabilmente il declino sotto i colpi della globalizzazione.