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Come l’Angola, anche la Sierra Leone possiede tra le migliori aree diamantifere del mondo. Scorrendone rapidamente la storia recente, si può vedere come la guerra civile scoppiata nel marzo del 1991 sia un conflitto nato dalla complessa interazione tra fattori politici e socioeconomici interni ed esterni; uno di

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questi è stato l’accaparramento delle risorse che ha portato alla distruzione dello stato “convezionale”105.

A partire dai primi anni novanta, il venir meno degli aiuti pubblici allo sviluppo (ODA), le richieste di drastici tagli alla spesa pubblica da parte delle istituzioni finanziarie internazionali e la rapida deregulation impedirono la perpetuazione di un sistema politico basato su una concezione clientelare del potere. La concentrazione del potere politico ed economico nelle mani della classe dirigente aveva portato ad una progressiva politicizzazione dell’esercito, del sistema giudiziario e della burocrazia, tutti strumentali alla sopravvivenza del regime autoritario basato su un’astuta combinazione di cooptazione e coercizione. L’inaspettata indisponibilità di risorse inceppò quella gestione patrimonialistica del potere in base alla quale era possibile “acquistare” la fedeltà delle forze armate, della burocrazia e dei capi clan locali. Alla guerriglia del RUF106, che dal 1991 aveva portato il paese alla guerra civile, si aggiungeranno presto i soldati delle forze armate (RSLMF), proprio perché le casse dello stato, prese in consegna dalla BM e dal FMI,

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David J. Francis, “Mercenary intervention in Sierra Leone: providing national security or international exploitation?” Third World Quarterly, Vol. 20, No. 2, 1999, p. 324 e William Reno, “Privatizing War in Sierra Leone”, Current History, No. 230, May 1997, p. 227.

Per una breve storia del conflitto in Sierra Leone, in cui emerge chiaramente la scarsa volontà da più parti di porre fine al conflitto, si veda John L. Hirsch, “War in Sierra Leone”, Survival, Vol. 43, No. 3, Autumn 2001, pp. 145 162.

Il processo di disfacimento dello stato subito dalla Sierra Leone è simile a quello che ha caratterizzato la vicina Liberia, insanguinata per tutti gli anni ’90 dalle ostilità tra i cosiddetti “signori della guerra”.

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Il Revolutionary United Front (RUF) affonda le sue radici nella stagione di proteste e movimenti studenteschi che negli anni ’70 investì il paese neo-indipendente. In seguito alla loro messa al bando, parte dei loro aderenti iniziò ad essere conquistata, verso la metà degli anni ’80, dalla propaganda populista e vagamente panafricana di un gruppo radicale noto come Mass Awareness and Participation (MAP). La maggiore radicalizzazione di questo movimento verrà poi strumentalizzata da Foday Sankoy, ex ufficiale delle forze armate a lungo imprigionato per la partecipazione a un tentativo di golpe nel 1971 e poi fondatore del RUF. Con il supporto logistico e finanziario della vicina Liberia e della Libia di Gheddafi, paesi in cui verranno addestrati molti guerriglieri del RUF, intellettuali e studenti provenienti da quel movimento inizieranno a programmare strategie insurrezionali e di lotta armata. Progressivamente il RUF cominciò a seguire la stessa parabola di molti movimenti analoghi nel contesto africano: nato nelle università dall’impegno di studenti ed intellettuali, esteso al movimento operaio finì, per ragioni generalmente ignote, con l’essere svenduto ad avventurieri militari quali Foday Sankoh. Viene così parzialmente spiegata la deriva violenta e la ferocia del RUF che, alimentatosi per anni con traffici illeciti con i paesi vicini, tradurrà le originarie istanze di un socialismo rurale e il richiamo al maoismo cinese in campagne di terrore e abusi di ogni genere proprio ai danni delle popolazioni contadine. Cfr. Abdel-Fatau Musah, “A Country Under Siege: State Decay and Corporate Military Intervention in Sierra Leone”, in Abdel-Fatau Musah - J. ‘Kayode Fayemi (eds.), Mercenaries, cit., p. 81 e ss.

Per un’analisi approfondita sul ruolo dei gruppi armati e sul loro rapporto con la mobilitazione dei giovani e le relazioni centro-periferia, si veda William Reno, Patronage Politics and the Behavior of Armed Groups, Northwestern University, Department of Political Science, Evanston (Il.), 2006; e “The Politics of Insurgency in Collapsing States”, Development and Change, Vol. 33, No. 5, 2002, pp. 837-858. Si veda anche Krijn Peters, Examining Volunteerism: Youth Combatants in Sierra Leone, Monograph No. 100, Pretoria, Institute of Security Studies, April 2004.

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non saranno più in grado di garantire la paga all’esercito107. Nella metà degli anni novanta, ciò che rimaneva della Sierra Leone erano solo zone controllate da signori della guerra e da banditi, dal momento che l’autorità statale era ormai del tutto assente. Insieme, guerriglieri del RUF, soldati ribelli – i Sobels, come vennero chiamati (“soldiers by day, rebels by night”) – comandanti militari allo sbando e capi locali controllavano il mercato clandestino agricolo e quello dei diamanti per un ammontare di 200 milioni di dollari, quando le entrate governative totalizzavano appena 60 milioni di dollari all’anno. Con un esercito sottopagato, indisciplinato ed incapace di garantire la sicurezza, le compagnie straniere legate all’industria mineraria e il governo ormai assediato decisero di rivolgersi ai mercenari.

La prima PMC ad operare in Sierra Leone fu la britannica Gurkha Security Guards (GSG). Con l’obiettivo di proteggere Sierra Rutile, un impianto minerario di proprietà statunitense ed australiana, e di addestrare alcuni reparti delle RSLMF, furono subito dispiegati, nel febbraio 1995, 58 Gurkha ai comandi dell’ex ufficiale britannico James Maynard, dell’ex sergente Andrew Myres e dell’ufficiale americano Robert Mackenzie. La missione si rivelò presto al di fuori delle possibilità della GSG. Appena un mese dopo l’inizio delle operazioni, a causa di una soffiata delle forze armate stesse, 20 Gurkha caddero in un’imboscata del RUF e vennero sterminati. Nonostante questo incidente che lasciò sul campo anche il sergente Myres e il comandante Mackenzie, -quest’ultimo catturato, torturato e infine mangiato dai ribelli108 - i GSG restarono nel paese fino all’aprile dello stesso anno, ma si rifiutarono di cercare lo scontro diretto con il RUF.

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La gestione patrimonialista e cleptocratica del potere fu inaugurata negli anni ottanta dal presidente Siaka Stevens che affidò l’industria diamantifera ai propri fedeli, esentandoli dalla tassazione: l’industria forniva quasi il 70% delle esportazioni del paese e costituiva un quarto del PIL. I successori di Stevens, Momoh nel 1985 e il golpista Strasser nel 1992, non ebbero la forza e la capacità di restaurare il controllo legale sull’economia, trovandosi inermi di fronte alla dissoluzione dello stato. Per una dettagliata analisi politico economica della guerra civile in Sierra Leone, vedi William Reno, “Privatizing War”, cit., pp. 227-230 e David J. Francis, “Mercenary intervention in Sierra Leone”, cit., pp. 319-336.

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Tale versione dell’accaduto, fornita da Tim Ripley nel suo Mercenaries. Soldiers of Fortune, è parsa a molti osservatori romanzata e poco attendibile. Cfr. Abdel-Fatau Musah, “A Country under Siege”, cit.

Per quanto riguarda GSG – da non confondersi con il celebre reggimento di nepalesi integrato nelle forze armate britanniche - la pubblicità negativa generata dalla disfatta in Africa occidentale ha limitato le capacità della compagnia di firmare contratti remunerativi con altri paesi clienti, e dal 1994 la GSG è rimasta una PMC solo sulla carta. Malgrado la tragica fine, nessuno tuttavia metteva in dubbia l’eccellente preparazione dei suoi leader. Una completa trattazione di questa vicenda si trova in Johan Peleman, “Mining for Serious Trouble. Jean-Raymond Boulle and his Corporate Empire Project”, in Abdel-Fatau Musah - J. ‘Kayode Fayemi (eds.), Mercenaries, cit., pp. 155 – 168 e in Alex Vines, “Gurkhas and the private security business in Africa”, in Jakkie Cilliers – Peggy Mason (eds.), op. cit., pp. 123 – 140.

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Nessuna delle compagnie che in quei mesi operavano in Sierra Leone accettò di confrontarsi militarmente con il RUF. Soltanto EO costituì un’eccezione. Il presidente golpista Valentine Strasser, che aveva rovesciato il predecessore Momoh per l’incapacità di quest’ultimo di fermare l’avanzata del RUF verso la capitale, trattò nell’aprile del 1995 l’intervento della PMC sudafricana.

All’arrivo di EO, i ribelli del RUF si trovavano già a venti chilometri dalla capitale e avevano costretto molti stranieri residenti in Sierra Leone a lasciare il paese. Inoltre, le truppe regolari avevano perduto il controllo della miniera di titanio Sierra Rutile a Gbangbatok e di quella di bauxite di proprietà della svizzera Sierra Leone Ore and Metal Company (SIEROMCO) a Makanji. Insieme, queste miniere producevano i due terzi delle esportazioni del paese. Infine, anche l’area diamantifera orientale di Kono era caduta nelle mani dei ribelli.

La compagnia si diede quattro obiettivi principali: • Garantire la sicurezza della capitale Freetown;

• Riassicurarsi il controllo delle risorse cruciali, in particolare la miniera Sierra Rutile e le aree diamantifere (assicurando nuove entrate al governo che avrebbe così potuto pagare EO);

• Distruggere i quartieri generali del RUF;

• Liberare le aree rimanenti dall’occupazione dei ribelli109.

EO cominciò a addestrare le RSLMF e a programmare una serie di attacchi diretti. Un ulteriore successo della PMC fu l’addestramento dei Kamajors, un corpo di cacciatori tradizionali a base etnica trasformati in milizia da EO. I Kamajors, che nel panorama dei gruppi armati attivi in Sierra Leone erano tra quelli meno inclini a compiere abusi sulla popolazione civile, sarebbero stati utilizzati in molte importantissime operazioni, ma avrebbero anche costituito – a campagna conclusa - un ulteriore elemento destabilizzante per la fragile realtà sierraleonese. Dal 1996, i

Kamajors si fusero nelle Civil Defence Forces (CDF), una struttura armata quasi- ufficiale sotto la guida di Sam Hinga Norman che combatté a fianco dell’esercito regolare contro il RUF110.

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Intervista ad un ex ufficiale di EO, 17 aprile 1997, citata in David Shearer, Private Armies, cit., p. 49.

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Nelle società tradizionali africane, la caccia era uno dei criteri chiave per stabilire il coraggio e la virilità. I Kamajors si ritenevano invincibili - una sicurezza vivificata dal culto esoterico mende dell’invincibilità – e facevano parte della Poro, un insieme di logge segrete nella complessa società tribale della Sierra Leone. Se nella tradizione mistica queste logge si occupavano solamente della educazione religiosa dei giovani, più tardi alcune di loro come la Poro, modernizzatesi, avocarono a

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Dal punto di vista tattico, vi furono cinque offensive principali in cui la partecipazione della compagnia giocò un importante ruolo strategico. La prima offensiva fu lanciata nell’aprile del 1995 alla periferia di Freetown, allentando così la pressione sulla capitale. I ribelli furono costretti ad arretrare verso l’interno di 126 Km, soffrendo grosse perdite con centinaia di miliziani uccisi e almeno mille diserzioni. La seconda operazione vide EO impegnata nella riconquista della vitale area diamantifera di Kono: l’attacco, che durò solo due giorni benché ne fossero stati previsti sette, diede al governo limitati diritti di sfruttamento minerario. La distribuzione di queste concessioni gli offrì la possibilità di ricevere un maggiore appoggio politico. La terza offensiva, nel dicembre 1995, consentì la riconquista di un obiettivo chiave, la miniera Sierra Rutile111.

La quarta e la quinta offensiva erano destinate a colpire direttamente il RUF. Nella prima di queste, EO, cui si aggiunse una forza supplementare di 200 uomini provenienti dalla Repubblica Sudafricana, distrusse con un attacco di terra la roccaforte del RUF presso Kangari Hills. Fu allora che Sankoh, per la prima volta in cinque anni, si mostrò disposto a negoziare con il governo. Tuttavia EO fu costretta ad organizzare un ultimo attacco alla fine del 1996, quando, in seguito alle elezioni che frattanto avevano dato il potere ad Ahmed Tejan Kabbah, il RUF era venuto meno alla promessa di una soluzione negoziata del conflitto. In seguito all’ennesima sconfitta, Sankoh firmò i termini di un accordo di pace ad Abidjan il 30 novembre 1996.

Ancora una volta, fu riconosciuto ad EO il merito di aver spinto i ribelli alla resa momentanea e alla firma di accordi di pace. Lo stesso Sankoh ammise infatti che sarebbe stato in grado di occupare Freetown e di vincere la guerra qualora EO non fosse intervenuta e, così come aveva fatto Savimbi, condizionò la firma degli accordi di pace alla cessazione delle attività da parte della PMC sudafricana112.

sé un ruolo di primo piano nella garanzia della sicurezza interna. A proposito del ruolo dei Kamajors, un ex ufficiale di EO ha dichiarato: “Non sarebbero mai stati in grado di fare ciò che hanno fatto senza di noi – l’appoggio tecnico e logistico. D’altronde, neanche noi avremmo potuto farlo senza di loro”. Intervista con un ex ufficiale di EO, citata in David Shearer, Private Armies, cit., p. 54. Cfr. anche Gabriella Pagliani, op. cit., pp. 185 – 186.

Dalle indagini della Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sierra Leone, è emerso che i Kamajors sono stati responsabili del sei percento delle violenze commesse, il RUF del sessanta e le forze armate di oltre il trenta percento. Secondo William Reno, la ragione di questa inferiore propensione a commettere crimini di guerra risiede nella natura dei Kamajors quale gruppo armato nato in una comunità in cui le élites politiche locali non godevano di posizioni di rilievo nel sistema di patronage con il centro; nasceva quindi l’esigenza ad agire in difesa delle comunità locali dalle strategie di sfruttamento illecito perpetrate dalla capitale. Cfr. William Reno, Patronage Politics, cit., pp. 10 – 11.

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David Isenberg, Soldier of Fortune Ltd., cit., p. 6.

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Il prezzo della sicurezza

I costi economici dell’intervento di EO in Sierra Leone furono proporzionali alla qualità dei servigi resi. Per un governo costantemente sull’orlo della bancarotta, inoltre, affrontare le spese si rivelò particolarmente arduo, sebbene i dirigenti di EO si dimostrassero abbastanza flessibili sulle scadenze dei pagamenti113.

L’operazione complessiva, della durata di 21 mesi, era costata 35,2 milioni di dollari, pari ad un terzo dell’intero sforzo militare. Si trattava di cifre molto elevate specialmente se paragonate alle entrate del paese dallo scambio con l’estero, meno di 39 milioni di dollari114. Tuttavia, analisti meno critici nei confronti degli eserciti privati facevano notare che si trattava di costi comunque inferiori a quelli delle missioni ONU. In effetti nel 1998, il costo della United Nations Observer Mission in Sierra Leone (UNOMSIL) - composta da 740 osservatori con il compito di monitorare, per un periodo di otto mesi, la sicurezza nel paese – fu stimato in 40,7 milioni di dollari. EO del resto, non considerandosi “un’organizzazione di beneficenza”, ha cercato di sfruttare tutte le potenzialità del mercato aldilà del semplice calcolo di costi e guadagni. Basando la propria struttura dei prezzi sul ragionamento del “fino a che punto ci conviene salvare il vostro paese”, la compagnia ha di fatto sfruttato la vulnerabilità di un governo che non aveva molte alternative.

Il costo totale dell’operazione era dato da tre diversi contratti. Il primo, firmato nell’aprile 1995, stipulava una paga mensile di 1,8 milioni di dollari, anche se gli stipendi sarebbero stati erogati qualora la situazione militare e finanziaria del governo fosse migliorata. Dopo parecchi mesi di mancato pagamento e le conseguenti minacce di ritiro da parte di EO, il governo si decise a pagare gli arretrati e fu possibile la stipula di un secondo contratto, del prezzo di 5 milioni di dollari, richiesto per i 200 mercenari supplementari necessari all’offensiva di Kangari Hills. Il terzo contratto, nell’aprile 1996, fu più basso: 1,2 milioni di dollari. Fu questo lo stipendio mensile che la neo-eletta amministrazione Kabbah, restia all’uso di mercenari stranieri, pagò agli uomini di EO fino al gennaio 1997115.

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“Loro dissero di non essere in grado di pagarci”, ricorda Laffras Luitingh. “Noi accettammo che ci pagassero quando ne fossero stati in grado”. Intervista con Laffras Luitingh, giugno 1996, citata in Herbert M. Howe, “Private Security force”, cit., p. 314.

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West Africa, 24-30 June 1996, cit. in ‘Funmi Olonisakin, “Arresting the Tide of Mercenaries”, in Abdel-Fatau Musah - J. ‘Kayode Fayemi (eds.), Mercenaries, cit., p. 234.

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I contratti prevedevano pagamenti in denaro contante, ma moltissime fonti, rivelarono - malgrado il FMI a tal proposito abbia sottolineato la mancanza di prove - che EO veniva pagata con concessioni per lo sfruttamento dei diamanti. Il caso più esemplare è quello della Branch Energy, legata al gruppo di Anthony Buckingham il quale nel dicembre 1995 si era recato a Freetown, probabilmente con l’obiettivo di mediare tra il governo e la PMC116. Alla Branch Energy, nel luglio 1996, EO consegnò la regione diamantifera di Kono appena liberata e altre istallazioni minerarie lungo il fiume Sewa. La compagnia mineraria pagava al governo un affitto di 250.000 dollari all’anno, dei quali 50.000 andavano ai capi locali. Il governo prendeva il 5% del valore di tutti i diamanti estratti e il 37,5% dei profitti netti117.

Gli stretti legami tra EO e il Branch Group si sono rivelati di estrema importanza. L’investimento di 80 milioni di dollari, da parte di Branch Mining, in una nuova miniera di diamanti nel bel mezzo delle aree contestate dalla guerriglia avrebbe portato alla nascita di un regime alleato. Questo, poi, avrebbe potuto pagare la PMC per garantirsi la sicurezza e ricevere dalle compagnie minerarie aiuti economici insperati nei momenti di grave crisi118. In cambio la Branch avrebbe ottenuto concessioni di sfruttamento a condizioni molto favorevoli, tassazioni agevolate o addirittura esenzione, da un governo che aveva un disperato bisogno di assistenza militare. Nella sua campagna EO fece affidamento solo su ufficiali dell’esercito con agganci politici di rilievo. Tale partnership consentì ai militari un accesso privilegiato ai diamanti; molti di loro ebbero modo di intraprendere l’estrazione e il commercio dei preziosi, grazie a concessioni che erano state sub- affittate ad imprese straniere più piccole che operavano in un clima di relativa stabilità sotto l’ombrello di EO. Il vecchio sistema di patronage e l’elargizione di favori ai propri alleati permanevano come fattori determinanti nella cultura politica sierraleonese.

A molti sembrò che il connubio EO/Branch Group stesse principalmente garantendo le compagnie straniere, consentendo loro di continuare a ricevere un

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Herbert M. Howe, “Private Security force”, cit., p. 319.

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David Shearer, Private Armies, cit., p. 52.

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Le dinamiche tra compagnia commerciale, stato cliente e PMC hanno trovato nel caso della Sierra Leone una rappresentazione quasi idealtipica: nel momento in cui lo stato cliente paga una PMC, la strategia della compagnia commerciale è quella di rendere il paese ospitante in grado di generare profitti, che serviranno alla perpetuazione di forme di sicurezza privata. Indirettamente, questa strategia consente alle aziende di garantirsi la loro sicurezza e libertà di azione. L’affidamento su attori privati stranieri, poi, esenta lo stato da oneri fiscali aggiuntivi (come l’investimento su apparati di sicurezza propri), tanto che Freetown fu in grado di rispettare, persino negli anni della guerra civile, le misure di austerità finanziaria promossi da BM e FMI. Cfr. William Reno, “Internal Wars, Private Enterprise, and the Shift in Strong State – Weak State Relations”, International Politics, Vol. 37, No. 1, March 2000, p. 65.

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trattamento privilegiato e di vedere le loro aree economiche al riparo dai rischi della guerra. Si trattava, nei fatti, della continua ridefinizione e della conseguente espressione di quei rapporti di potere che in si instaurano nei PVS. Come sostiene Reno, a Freetown, in quei giorni, tutti sapevano che il contratto col governo era stato firmato in realtà per conto delle compagnie minerarie straniere, e che i “cittadini” di EO – come venivano chiamati i mercenari sudafricani in giro per le vie della capitale – erano azionisti stranieri in attesa che le loro operazioni militari si trasformassero in profitti119. La Sierra Leone rappresentava infatti straordinarie possibilità di guadagno economico. Consapevoli di questo, le imprese private impegnate nell’industria estrattiva erano convinte che la stabilità sarebbe stata la garanzia migliore per continuare ad operare nel paese. Fu così che, malgrado il ritiro ufficiale, 100 dei 285 addetti di EO rimasero in Sierra Leone anche dopo il gennaio 1997, in parte impegnati in altre PMC, tra cui la LifeGuard Systems, sussidiaria di EO, col compito di proteggere le installazioni di Koidu. La compagnia, contrariamente alle sue affermazioni circa l’attenzione prestata agli aspetti democratici120, forniva una stabilità strumentale solo agli investimenti delle compagnie minerarie e petrolifere.