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Una retta educazione

Livia Romano

2. Una retta educazione

Secondo Krishnamurti l’educazione non deve preparare alla vita, perché il suo scopo non è inserire l’individuo nella società: “quando preparate i vo- stri bambini a introdursi nella società – avrebbe detto nel 1969 rivolgen- dosi ai genitori – li state preparando a essere uccisi”, protraendo “la guerra, il conflitto, e la brutalità” (Krishnamurti, 1969, p. 63). L’educazione, così come veniva comunemente intesa, era per lui antieducazione, qualcosa che allontana dalla verità e dal vero significato della vita (Vigilante, 2013, p. 184).

A questo proposito, Visalberghi (1958, p. VIII) rintracciava in questo atteggiamento radicale una “fede tolstoiana”, ipotesi interpretativa condi- visa da Egle Becchi (1960, p. 219) che, in una recensione del volume, di- ceva che “i toni anarchici” spesso evidenti nell’opera di Krishnamurti face- vano parte della “tradizione polemica” che aveva fra i suoi rappresentanti più significativi Tolstoj per il quale “l’educazione rovina, non corregge gli uomini” (1975, p. 48). Questo carattere negativo dell’educazione era da at- tribuire al prevalere in essa dei modelli teorici sulla realtà, mentre, secondo

2 Va ricordato che il dibattito dell’ADESSPI divenne particolarmente acceso attorno al- la questione della istituzione della scuola media unica, a cui lo stesso Visalberghi par- tecipò in qualità di componente di una commissione nazionale d’indagine composta da socialisti e comunisti incaricata di elaborare delle precise indicazioni di riforma sco- lastica da proporre all’allora ministro Gui. Cfr. Santoni Rugiu (2005, p. 20) e Vertec- chi (2007, pp. 1-6).

Krishnamurti andava negata “qualsiasi funzione educativa agli ideali. […] Non c’è nessun ideale – diceva – al quale sia lecito sacrificare anche un solo individuo, non c’è nessun futuro che valga più del presente” (Visalberghi, 1958, p. IX).

Visalberghi vedeva in questa critica agli ideali uno dei motivi “degni di meditazione accurata” del volume di Krishnamurti, ma – aggiungeva – questo aspetto è stato già affermato con altrettanto vigore anche da Dewey e da tutta quell’educazione “più spregiudicatamente moderna che rifiuta di essere semplice preparazione alla vita, e vuol essere vita essa stessa, vita quanto più piena, integrata, ricca e possibile” (Visalberghi,1958, p. IX).

Lo sguardo con cui Visalberghi leggeva L’educazione e il significato della

vita era pertanto deweyano e attivistico, in linea con la presa di distanza che

egli, insieme a molti altri pedagogisti, che pur alla scuola di Gentile si erano formati, dal modello educativo che era prevalso durante il ventennio fasci- sta, speculativo e magistrocentrico. A questo proposito, in una recensione del 1959, Idana Pescioli (2014, pp. 744-747), richiamando l’attenzione sui “preziosi stimolanti spunti di riflessione e di rinnovamento” che “l’interes- sante libretto” di Krishnamurti offriva, confermava come questo si muo- vesse in modo chiaro nella stessa direzione di Dewey e Kilpatrick.

L’educazione – diceva Krishnamurti (1958, pp. 13-14) – non può con- formarsi a modelli preconfezionati:

quando lavoriamo insieme per un ideale, per il futuro, forgiamo gli individui in modo rispondente alla nostra concezione di quel futu- ro; ci occupiamo non già di esseri umani, ma della nostra idea di ciò che dovrebbero essere. Ciò che si dovrebbe essere diventa assai più importante per noi di ciò che è, cioè dell’individuo con la sua com- plessa natura”.

Egli proponeva invece, secondo una definizione di educazione che la Pe- scioli considerava felice (1959, p. 746), la Right Kind of Education (Kri- shnamurti, 1953, pp. 17-51), cioè una retta educazione che “non ha niente a che fare con nessuna ideologia […]. Educazione nel vero senso è aiutare l’individuo a farsi maturo e libero, e a fiorire in amore e bontà”.

Anche se a prima vista le due posizioni anti– idealistiche, quella di Vi- salberghi, che si faceva portavoce di una parte della pedagogia italiana del tempo, e quella krishnamurtiana, potevano apparire uguali, a uno sguardo più attento esse erano molto distanti. Si potrebbe ipotizzare che ciò che le

differenziava era il diverso orizzonte culturale: occidentale quello di Visal- berghi e della pedagogia italiana che, pur portandosi oltre il primato della ragione teoretica del neoidealismo, affermava al suo posto il primato di una ragione pratica, di cui Dewey era il principale rappresentante (Romano, 2017, pp. 213-219); orientale, invece, quello di Krishnamurti, il quale, pur formatosi in Occidente, ad Oxford, risentiva dell’influenza esercitata su di lui dall’orientamento eclettico e sincretico della Società Teosofica, che ave- va un forte debito nei confronti delle tradizioni orientali, prima fra le altre quella buddhista, una forma di saggezza pratica dalle forti intonazioni pe- dagogiche (Romano 2018, p. 137).

È tenendo conto di questa profonda differenza di orizzonti che si spiega il diverso approccio all’astrattismo pedagogico denunciato da entrambi: per Visalberghi si trattava di riportare l’educazione all’esperienza, senza pe- rò rinunciare all’uso della ragione, anche se di una ragione pratica ed em- pirica che faceva della pedagogia una teoria della prassi educativa agita nei contesti educativi come la scuola; per Krishnamurti il problema era, inve- ce, di ordine spirituale, ma non spiritualistico, come sottolineava la Pescioli (1959, p. 745), la quale vedeva nella sua appartenenza a tradizioni culturali diverse da quelle dell’Occidente “una ragione in più per credere che alla fi- ne dovremmo pure arrivare ad una forma di educazione internazionale fon- data non tanto su principi e credenze, su ideali e utopie quanto invece su pratiche di vita”.

Per riportare l’educazione alla verità, diceva Krishnamurti (1958, p. 56), occorre liberarla dalle “molteplici illusioni” prodotte dalla mente ra- zionale, cioè le teorie, le conoscenze, il dover essere, la stessa ragione prati- ca, che allontanano dalla realtà del presente, dall’esperienza concreta che è ben più importante del modo in cui dovrebbe essere vissuta. Questo spiega la sua critica, oltre che all’idealismo, anche al materialismo, che considera- va “un altro modo di negare le profondità insondabili del presente. […] L’uno e l’altro si consumano in desideri, ambizioni e conflitti, e non cono- scono la via che conduce alla tranquillità” (Krishnamurti, 1958, p. 56). A parlare era un mistico orientale, che dava priorità alla fioritura integrale dell’educando, da realizzare attraverso un cammino di formazione che do- veva avvenire nell’interiorità, con la costante osservazione di sé e la com- prensione degli altri; l’educazione non ha come fine – diceva – lo sviluppo dell’intelletto attraverso l’acquisizione di conoscenze e abilità, essa deve piuttosto sviluppare l’intelligenza, termine che veniva adoperato in un sen- so spirituale, qualcosa che ha a che fare con l’amore e con la consapevolezza

di sé. Krishnamurti infatti teneva distinti intelletto e intelligenza: “l’intel- letto è la facoltà di discernere, ragionare, immaginare, creare illusioni” avrebbe detto nel 1979 (Krishnamurti, 1981, p. 98), mentre l’intelligenza è capacità di sentire non meno che capacità di ragionare”, è “integrazione di pensiero e sentimento” (Krishnamurti,1958, p. 3). L’intelligenza non è conoscenza ma saggezza, che non “si trova nei libri, non può venir accumu- lata, memorizzata o immagazzinata” (Krishnamurti, 1958, p. 59), di essa si fa esperienza diretta.

Per queste affermazioni, Egle Becchi (1960, p. 220) accusava Krishna- murti di irrazionalismo, poiché, “evadendo da un preciso piano di discus- sione scientifica e facendo appello ad elementi imponderabili”, finiva col far prevalere una concezione orientale dell’intelligenza che veniva ricon- dotta alla saggezza. Similmente Visalberghi aveva notato che “il richiamo continuo di Krishnamurti all’interiorità e alla conoscenza di sé” sembrava eludere “una impostazione scientifica delle questioni”, che lo portava ad una sfiducia totale verso le tecniche e i metodi educativi, ripresentando il luogo comune di una “critica verso l’economicismo e il culto dell’efficien- za” (Krishnamurti, 1958, p. XI). Visalberghi vedeva in questo atteggiamen- to antitecnicistico una tendenza verso tentazioni idealistiche e quindi una contraddizione nella visione krishnamurtiana che non poteva non destare forti dubbi.

Di diverso avviso era la Pescioli (1959, p. 744), la quale scriveva che le riflessioni di Krishnamurti non avevano

nulla a che vedere con atteggiamenti […] idealistici, vaghi o utopi- stici; le sue affermazioni indicano piuttosto una vigorosa presa di posizione in favore dell’opera educativa della scuola attiva moderna.

A ben guardare, non si trattava di incoerenza, poiché Krishnamurti cri- ticava il primato della ragione, sia teoretica che pratica, prediligendo il pri- mato del percorso spirituale, che implicava un’educazione religiosa al di fuori delle religioni organizzate: bisognava educare all’intelligenza, cioè alla consapevolezza di sé oltre il conosciuto, fare dell’educando un individuo intimamente integrato liberandolo da schemi, “formule e conclusioni belle e fatte” che, lungi dal farne una personalità creativa, lo avrebbero reso “un mero automa” (Krishnamurti, 1958, p. 92); riflettere sull’esperienza edu- cativa, sui suoi modi, non era più importante dell’esperienza stessa, concre- ta e presente.