Carlo Cappa
4. L’amicizia: dimensione politica, portato ontologico
Considerare l’educazione comparata come una disciplina delle differenze, tenendo ben salda l’imprescindibile dimensione politica, significa, innan- zitutto interrogare la nostra tradizione trascegliendo concetti che, anche oggi, si pongono quali chiavi di volta per immaginare la relazione con l’al- tro da sé, ponendosi in ascolto del passato attraverso strumenti concettuali filosoficamente fondati. Tra questi, proprio per il suo carattere nel quale confluiscono politica, filosofia ed educazione, ci si vuol soffermare sul tema dell’amicizia che, nella nostra storia, sembra emergere con tanta più forza quanto meno ne hanno altri legami sociali: in periodi di “crisi”, la cui ci- clicità scrive la peculiarità della singolarità europea naturalmente intrisa di un afflato tragico, pensatori e pensatrici hanno fatto riscorso a questo topos della nostra tradizione per svincolarsi dall’esacerbata conflittualità che fu- nestava le loro epoche.
Nata concettualmente in seno alla filosofia greca, nelle pagine più pre- gne di testi con forti risvolti pedagogici, come la Politica e l’Etica Nicoma-
chea di Aristotele, l’amicizia quale vincolo elettivo giunge nell’Umanesimo
e nel Rinascimento attraverso la cruciale mediazione dello stoicismo roma- no, grazie a Epitteto, Seneca e il De amicitia di Cicerone. Questa solida continuità storica e l’ampia diffusione nella seconda metà del XVI secolo
fecero eleggere il tema dell’amicizia a guida di quell’ardito florilegio che fu il De amicitia di Matteo Ricci (2010): composto probabilmente nel 1595 mentre il gesuita si trovava a Nanchang, questa breve opera sfrutta con rara sensibilità le assonanze tra la nostra cultura e il confucianesimo per far breccia nella Cina dell’epoca. L’intento del volume intrecciava abilmente politica e cultura, come ne dà testimonianza la documentazione a nostra disposizione (Ricci, 2000; 2001) e come scrisse lo stesso autore. Si conser- va, infatti, una sua lettera datata 13 ottobre 1596 e indirizzata all’impor- tante Claudio Acquaviva che, già il 15 febbraio del 1581 era stato eletto quinto generale della Compagnia e la cui figura è inscindibile dalle alterne vicende della Ratio studiorum; la penna di Ricci narra efficacemente le “vi- cende editoriali”, la positiva accoglienza e la rapida circolazione (Lettera 32, Ricci, 2001, pp. 337-338 e Ricci, 20102, p. 12) del manoscritto che avreb-
bero portato, nel 1601, alla prima stampa dell’opera con prefazione di Feng Yingjing. Il lavoro compiuto da Ricci fu un’accurata accordatura mo- dulata in cento brevi paragrafi nei quali, senza mai indugiare in pedanti ri- ferimenti, si costituiva una summa del pensiero occidentale trasposto in lingua cinese, prestando attenzione a ricalcare forme lessicali che potessero rendere la nostra cultura più vicina a quella dei suoi lettori.
Per meglio comprenderne la ricchezza e le implicazioni educative, basti qui riportare il decimo paragrafo dedicato all’amicizia e alla musica:
L’amicizia e l’inimicizia sono come la musica e il frastuono, che si di- stinguono a seconda che ci sia o non ci sia armonia; infatti l’essenza dell’amicizia è l’armonia. Con la concordia le cose piccole crescono, con la discordia le cose grandi crollano.
La musica conduce alla concordia, mentre il frastuono conduce alla discordia. L’accordo degli amici è come la musica; il disaccordo dei nemici è come il frastuono (Ricci, 20102, p. 67).
In questo breve passo, i riferimenti classici si propendono verso un pos- sibile incontro tra mondi distanti ma con insospettate propinquità, intes- sendo una comparazione proattiva: i doveri universali e le fondamentali vir- tù “sotto il cielo” tematizzate da Confucio si rivelano così consonanti con l’Etica Nicomachea di Aristotele (VIII, I, 1155a), con il De re publica di Ci-
cerone (II, 42, 69) e con il De civitate Dei di Agostino (II, 21, 1). Solo pochi anni prima, d’altronde, nel capitolo De l’Amitié dei suoi Essais (I, XXVIII),
politica dell’epoca, la segretezza, donava un caldo affresco della sua relazio- ne con Étienne de la Boétie: “L’unique et principale amitié découd toutes autres obligations. Le secret que j’ai juré ne déceler à nul autre, je le puis sans parjure communiquer à celui qui n’est pas autre, c’est moi” (Montai- gne, 2012, p. 348). L’arco che si crea tra due culture, come tra due indivi- dui, nella tensione dell’amicizia, è una comparazione che, senza far perdere nulla delle singolarità coinvolte, le definisce vicendevolmente, in una vici- nanza che ne libera potenzialità educative e politiche che vanno ben oltre paradigmi di meccanica giustapposizione o formale comunicazione.
Dato il carattere politico dell’amicizia e il suo veemente proporsi in mo- menti di crisi, non sorprende che proprio a questo ricco legame siano state dedicate molte pagine da intellettuali contemporanei appartenenti all’alveo del postmoderno: ribadendo il carattere agonale della filosofia, Deleuze e Guattari hanno fatto dell’amico la condizione imprescindibile per il pen- siero (Deleuze, Guattari, 1991), presupposto recuperato da Agamben in un testo che richiama, fin dal titolo, l’opera dei francesi (Agamben, 2016). Egli aveva già consacrato una densa riflessione a tale concetto ne L’amico (2007), in cui, grazie all’analisi di un particolare del quadro di Giovanni Serodine, Incontro di San Pietro e San Paolo sulla via del martirio (1624- 1625), e interpretando un saliente passo di Aristotele (Etica Nicomachea, IX, IX, 1170a 28-1171b 35), aveva riallacciato la dimensione politica a
quella ontologica: “L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con– sentire originale che costitui- sce la politica” (Agamben, 2007, p. 19). Proseguendo un’elaborazione del concetto di comunità (Agamben, 1990), il filosofo italiano propova un’amicizia che ha il suo radicamento nell’apertura ontologica all’altro, in una prossimità che non cessa di erodere qualunque tentazione identitaria. Non c’è dubbio che in tale postura vi siano delle possibili implicazioni eti- che, ma esse si librano unicamente attraverso l’interrogazione ontologica rivolta allo statuto del soggetto, obbligando, nel voler utilizzare tali concet- ti, a una piena presa in conto di tale versante che, per di più, ha rilevanti portati pedagogici.
Nell’affiancare continuità di lunga durata a episodi nodali della nostra contemporaneità, l’educazione comparata italiana può nutrire la sua capa- cità critica mantenendo sorgiva la conversazione con una tradizione che, ancor più di quanto non sia avvenuto in altri contesti nazionali, nel nostro Paese ha trovato nella storia delle idee e nella elaborazione filosofica un in-
dispensabile motore per costruire il suo riconoscibile profilo. Senza perdere nulla della sua specificità, della capacità di “reading the global”, ed evitan- do di cedere a mode dettate da tendenze internazionali, le quali, casomai, più che alveo nel quale collocarsi, potrebbero essere materiale d’indagine, la comparazione si rivelerebbe – si continuerebbe a rivelare – un approccio per costruire un metalinguaggio (Cheng, 2002) in grado di intessere rela- zioni amicali con l’altro da sé, con la plurale complessità del nostro tempo, nella piena consapevolezza della costitutiva insufficienza di ogni voce che rifugga dalla tensione agonale della polifonia.
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