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Silvano Calvetto

2. Scuola e lavoro

Un elemento ricorrente nelle valutazioni dei giovani è il giudizio sostanzial- mente positivo che viene dato all’ampliamento della frequenza scolastica da parte delle classi sociali più basse. Salvo qualche resistenza che permane soprattutto nell’ambito di coloro che frequentano le scuole private, lo do- cumenta Grasso, cresce sin dal dopoguerra la consapevolezza che quello dello studio è un diritto che deve essere garantito a tutti, in particolare per quanto riguarda le possibilità di emancipazione sociale che ne possono de- rivare. Siamo, in molti casi, negli anni a ridosso dell’introduzione della scuola media unica e una diversa percezione del ruolo della scuola è andato evidentemente maturando nel paese se è vero che, come ricorda Baglioni, “l’idea chiave dei discorsi dei giovani su questi temi è che la scuola non deve essere più di pochi, ma di tutti i giovani, perché essa prepara o dovrebbe preparare alla vita professionale” (p. 255).

Se largamente condivisa è dunque l’idea di una scuola che deve essere aperta alle istanze del cambiamento, è tuttavia interessante sostare sulle motivazioni di questa scelta, poiché se è vero che essa testimonia in qualche modo dei processi di democratizzazione che si stanno compiendo, per altri versi conferma un dato che tutte le ricerche sociali mettono in evidenza: la rappresentazione dello studio in chiave prettamente utilitaristica, funzio- nale alla ricerca di una professione qualificata o di un mestiere. Pochi sono infatti i riferimenti allo studio come attività in se stessa formativa, come fattore di crescita personale indipendentemente dalle prospettive di lavoro cui può legarsi; diffusa, allo stesso tempo, la convinzione secondo la quale “più che a scuola una persona si forma nella vita, nella vita che conduce, a casa e specialmente fuori casa” (Baglioni p. 254). Sembra così tramontare definitivamente l’idea di una scuola di cultura capace di porre al centro del- la propria proposta educativa una formazione sostanzialmente estranea alle preoccupazioni per il domani. Se quel modello era funzionale ad una scuo- la di carattere elitario che ancora negava l’accesso ai gradi più alti dell’istru- zione alla maggioranza dei giovani, l’avvento della scolarizzazione di massa comporta un mutamento profondo che porta i giovani a guardare in chiave prevalentemente strumentale alla loro esperienza scolastica. Nella stragran- de maggioranza dei casi la principale motivazione allo studio, con tutto il suo portato di ansie e preoccupazioni che gravano sui vissuti di molti gio- vani rispetto al successo o all’insuccesso scolastico, è ora infatti quella di acquisire una licenza che possa garantire l’accesso al mondo del lavoro. Tra-

lasciamo in questa sede naturalmente di entrare nei dettagli delle aspettati- ve dei giovani al riguardo, che in molti casi ricevono una valutazione posi- tiva da parte dei ricercatori, che ne sottolineano la ponderatezza e la matu- rità per quanto riguarda le aspettative, giacché poche sarebbero le profes- sioni “avventurose” cui i giovani guarderebbero (Baglioni, 1962, p. 167) in favore di quelle ritenute maggiormente utili sul piano sociale (Grasso, 1954, p. 243). Con i piedi ben piantati a terra, i giovani sarebbero quindi lontani da atteggiamenti velleitari, evidenziando pragmatismo e senso di responsabilità. Un giudizio diffuso, non esente, tuttavia, da limiti e con- traddizioni con cui è opportuno fare i conti.

Quel che è certo, in questi anni di grande trasformazione, è che sono in molti a testimoniare una volontà di emancipazione sociale rispetto alla ge- nerazione precedente che passa in molti casi attraverso l’aspirazione ad un lavoro diverso da quello dei genitori. Lo ricorda Baglioni quando afferma che “nessuno intende, almeno esplicitamente, seguire l’itinerario professio- nale del padre, né raggiungere e mantenere la posizione del genitore” (1962, p. 166). Così alla scuola possono essere affidate aspettative anche molto elevate, nella speranza che per il suo tramite sia possibile avere “il po- sto da tutti noi giovani sognato”, come afferma uno degli intervistati da Grasso (1954, p. 151), ma allo stesso tempo possono crescere disincanto e delusione nella misura in cui si ritiene che l’istruzione ricevuta non sia utile all’acquisizione di competenze da spendere domani nel lavoro. Sono così in molti a sottolinearne la distanza dalla vita reale, e non solo negli istituti professionali, dove comunque il dato è significativamente elevato, e a de- nunciare, poi, il peso e la fatica dello studio poiché considerato “verboso” e “astratto”. Ricorrente, ad esempio, la valutazione negativa di molti stu- denti relativa alla presenza del latino nel Liceo scientifico, dove secondo molti dovrebbe essere dato maggiore spazio alle discipline tecnico– scien- tifiche a scapito di quelle umanistiche.

Aspettative alte, quelle verso l’istruzione e la formazione, ma non prive di contraddizioni, se è vero che da un lato si guarda alla scuola nella spe- ranza di ottenere l’istruzione necessaria magari per salire i gradini della sca- la sociale, dall’altra se ne richiamano le inadeguatezze nella convinzione che sia innanzitutto nella vita che si possano apprendere i contenuti per crescere e diventare adulti. Aspettative ancora più elevate, sotto certi aspetti, e ancor più tenacemente coltivate, da parte dei giovani lavoratori che tentano di acquisire una qualifica o un diploma per compiere un salto sotto il profilo professionale. Si vedano al riguardo le ricerche di Diena per

quel che riguarda Milano e Cavalli per quanto riguarda Genova, quanto sia diffuso il ritorno sui banchi di scuola presso gli operai di venti– venticinque anni, anche a costo di sacrifici personali enormi, nel difficile tentativo di coniugare lavoro e formazione. Un dato che si comprende anche alla luce del fatto che siamo in una contingenza storica dove in molti, spesso prove- nienti da un retroterra contadino, vivono l’accesso alla fabbrica come fat- tore di promozione sociale, magari per poi tentare il salto verso la carriera impiegatizia, “il sogno di molti” come sottolinea anche Diena (1960, p. 44).

Questi sono gli anni, è bene ricordarlo, nei quali la forma contrattuale tipica del lavoro giovanile è ancora quella dell’apprendistato, soprattutto nelle piccola e media impresa, come dimostrano i dati dell’Istituto centrale di Statistica, i quali ci dicono che se nel ’57’ risultano circa 450 mila ap- prendisti, nel ’62 ne abbiamo 810 mila (Rapini, 2004). Anni nei quali la vita di fabbrica risulta particolarmente dura, anche per via dei processi di trasformazione dei modi di produzione, là dove la meccanizzazione, se per un verso rende più razionale il processo produttivo, per altro richiede atti- tudine nuove agli stessi lavoratori. Lo testimonia bene uno degli operai in- tervistati da Pizzorno: “Magari quando le macchine sono moderne la fatica fisica è anche minore, ma aumenta la tensione nervosa, perché bisogna far attenzione a un mucchio di cose, non si è mai lasciati in pace” (1960, p. 152). Una durezza di vita che si manifesta soprattutto a causa dell’assenza di diritti e tutele per i lavoratori, che solo negli anni successivi cominceran- no ad affermarsi in modo significativo. Forte, lungo tutti gli anni cinquan- ta, è ancora il controllo padronale sull’attività politica dei lavoratori, dis- suadendola il più possibile e con ogni mezzo (Accornero, 1973). Fatti, que- sti, che finiscono col mettere in crisi le aspettative ottimistiche dei molti che abbandonano l’agricoltura per il lavoro industriale e che entrano ap- pieno nel nostro discorso nella misura in cui finiscono per alimentare tutto un repertorio di rappresentazioni ambivalenti rispetto alla scuola e alla sua funzione educativa e sociale. C’è un dato interessante a questo riguardo, che soprattutto Carbonaro e Lumachi sottolineano per quanto riguarda la realtà di provincia: il crescente disincanto, con il trascorrere del tempo, presso i giovani lavoratori, che forniscono magari una valutazione positiva della loro esperienza in età molto giovane per poi dare una valutazione ben diversa pochi anni dopo (1962, pp. 8-11). Eccoli allora, anche oltre i ven- t’anni, tornare sui banchi di scuola in vista dell’agognato pezzo di carta, pur nella consapevolezza che quel ritardo rischieranno di pagarlo duramente.

Anche questi sono aspetti di cui tenere conto quando si valutino le rappre- sentazioni della scuola da parte dei giovani negli anni del miracolo econo- mico, nello scarto tra attese e disillusioni rispetto a quanto la scuola può lo- ro dare.

Noti a questo riguardo sono i ritardi che essa registra, non riuscendo ad intercettare in modo efficace le nuove esigenze avanzate dalla realtà sociale, soprattutto per quel che concerne il rapporto col mondo del lavoro, il qua- le, a sua volta, non è certo esente da responsabilità per quanto riguarda le criticità che si manifestano in ordine al problema dell’occupazione delle nuove generazioni.

Dalla fine della guerra fino a buona parte degli anni Cinquanta il di- battito sulla scuola era rimasto sostanzialmente scollegato dai pro- blemi dello sviluppo. E non poteva essere diversamente: in assenza di una domanda di forza-lavoro qualificata da parte delle imprese, la scuola restava in qualche modo ripiegata su se stessa e il dibattito re- stava chiuso nei tradizionali termini politico-pedagogici […] Con l’accelerarsi dello sviluppo le cose cambiarono. La scuola come sede di formazione della futura forza-lavoro venne sentita come un pro- blema rilevante (Susi, 2012, p. 156).

Nuove, quindi, le esigenze che si presentano in relazione al problema della qualifica professionale delle nuove generazioni negli anni della grande espansione produttiva. Per un verso, la necessità di una manodopera qua- lificata di tipo nuovo, non più solamente di carattere esecutivo, ma in pos- sesso di capacità acquisite entro una formazione sempre più di tipo “poli- valente”. Ciò che costringerà a fare i conti con le obsolescenze dell’intero sistema dell’istruzione professionale nel nostro paese (Gozzer, 1958). Dall’altro, la necessità di un sistema scolastico capace di garantire una for- mazione di base uguale per tutti, funzionale alla socializzazione delle nuove generazioni anche a fronte dei grandi mutamenti legati al fenomeno delle migrazioni interne. Due aspetti decisivi nel favorire l’avvento della scuola media unica. Quella che sarebbe stata una sfida la quale non solo la scuola, ma l’intera società, avrebbe faticato a cogliere nella vastità e complessità della sua portata, dovendo ora fare i conti non solo con fenomeni sociali del tutto inediti, ma anche con criticità profondamente radicate nel siste- ma scolastico nazionale, soprattutto per quanto riguarda il controverso rapporto con la questione del lavoro, come di lì a qualche anno una cele- bre ricerca mostrerà in modo particolarmente esaustivo (Barbagli, 1974).