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La scuola della vita

Livia Romano

3. La scuola della vita

Uno dei temi krishnamurtiani che Visalberghi maggiormente apprezzava era il rifiuto di ogni forma di autorità, sia educativa che spirituale. Krishna- murti infatti negava l’autorità del maestro spirituale e metteva in guardia i suoi seguaci dal considerarlo tale, mentre riguardo all’autorità in educazio- ne diceva:

la direzione di una scuola dovrebbe avere carattere collegiale, fon- darsi sulla libera associazione di insegnanti mossi da aspirazioni co- muni e decidenti collegialmente su tutte le questioni principali. E gli studenti stessi, tramite loro comitati, dovrebbero collaborare al- l’affermarsi di un’atmosfera donde i personalismi siano banditi, e dove la cosa importante sia «scoprire cosa sia giusto, e non chi abbia ragione»” (Krishnamurti, 1958, p. 89).

Visalberghi così replicava:

pur potendo sembrare un’affermazione a tutta prima sconcertante, a ben riflettere è perfettamente congruente con gli sviluppi della mi- gliore pedagogia contemporanea. […] Non è proprio in questa di- rezione che stanno operando le più serie associazioni di insegnanti, in svariati paesi del mondo? Il nuovo impulso dato alla cooperazio- ne, alle discussioni di gruppo senza leader prefissato, alla pianifica- zione democratica del lavoro nei convegni e negli stages, non punta forse verso forme di organizzazione educativa?” (Visalberghi, 1958, p. X).

Per Krishnamurti (1958, p. 87), anche se l’assenza di un’autorità centra- le nella scuola poteva sembrare utopistica, un insegnante impegnato senza riserve nell’educazione genuina, che si sente “corresponsabile dell’anda- mento generale”, non avrebbe certo sentito l’esigenza “di essere diretto o controllato”: il problema reale dell’educazione era per lui l’insegnante, la cui figura veniva delineata, notava la Pescioli (1959, p. 747), in modo “tale da reggere il peso della trasformazione del mondo”; egli, infatti, non doveva essere “semplice trasmettitore di informazioni”, ma un uomo capace di in- dicare “la via verso la saggezza e la verità. La verità per Krishnamurti (1958, p. 95) era “di gran lunga più importante del maestro”.

più caratterizzato da successo, dominio, potere e coercizione, ma da coo- perazione, dialogo e libertà. Krishnamurti (1958, p. 88) aveva in mente “un retto tipo di scuola” in cui prevalesse “un’assoluta eguaglianza” fra tutti, un laboratorio dove gettare le basi per la costruzione di una società diversa da quella esistente, “pacifica e illuminata” (Krishnamurti, 1958, p. 93). E la responsabilità maggiore pesava sugli insegnanti che, educando con amo- re e libertà, con interesse e comprensione per l’esigenze degli educandi, li avrebbero resi “esseri umani spontanei, sempre vigili e attenti” (Krishna- murti, 1958, p. 92), cooperando in questo modo alla realizzazione di una profonda trasformazione sociale.

La scuola di Krishnamurti, come egli avrebbe chiarito nel 1978, doveva aiutare lo studente “a imparare la grande importanza dei buoni rapporti”, primo fra tutti quello tra l’insegnante e lo studente. Ma questo era possibile solo superando il principio di autorità, che metteva l’insegnante su un pie- distallo e faceva sentire lo studente inferiore. La scuola doveva divenire “un luogo di riposo in cui entrambi, l’insegnante e lo studente, imparano. [… ] Riposo significa una mente che non si occupa costantemente di qualcosa […] implica una mente quieta” (Krishnamurti, 1981, pp. 13-14). Solo così gli allievi potevano risvegliare la propria intelligenza e imparare l’arte di vi- vere.

La scuola doveva pertanto interagire con la società, con l’ambiente e con la natura, temi deweyani, questi, a cui Visalberghi guardava con molto in- teresse: l’importanza data da Krishnamurti alla relazione e alla continuità tra individuo e ambiente – diceva – “è la miglior premessa all’inserimento delle esigenze espresse in questo libro nella realtà sociale della scuola” (Vi- salberghi, 1958, p. XIV). A questo proposito, va ricordato come Krishna- murti, non credesse nella scuola di massa:

ma queste masse cosa sono? – diceva – Voi e me. Non lasciamoci fuorviare dalla preoccupazione che le masse debbano essere anch’es- se rettamente educate. Questa preoccupazione può costituire una forma di evasione dal dovere di un’azione immediata. La retta edu- cazione si farà universale se cominciamo ad agire su quelli con cui siamo in rapporto immediato” (Krishnamurti, 1958, pp. 82-83).

Krishnamurti (1958, p. 90), per il quale la retta educazione non è mai educazione ‘en masse’”, polemizzava contro la diffusa tendenza a organizza- re istituzioni scolastiche enormi dove i singoli studenti non potevano rice-

vere cura e attenzione, ma solo un insegnamento che si riduceva a “mero accumulo di fatti, sviluppo di abilità particolari e l’abitudine a pensare meccanicamente in conformità ad un modello”. I luoghi dove realizzare la retta educazione dovevano essere pertanto “piccole scuole”, create dalle fa- miglie “nelle immediate vicinanze o nella loro stessa casa”, dove il numero di allievi per ogni classe fosse limitato per permettere ad ogni educatore di dedicare a ciascuno la propria attenzione (Krishnamurti, 1958, pp. 84-90).

Simili affermazioni non potevano non apparire a Visalberghi e a gran parte della pedagogia italiana, utopistiche e poco condivisibili. Mentre ci si batteva per una riforma della scuola affinché questa diventasse luogo di istruzione per tutti, i suggerimenti provocatori di Krishnamurti di un’istru- zione privata al posto di un’istruzione pubblica e istituzionale erano in- comprensibili; si trattava, tuttavia, di provocazioni che mettevano in di- scussione la funzione sociale della scuola come apparato di stato, anticipan- do le tendenze dei movimenti antipedagogici degli anni Settanta e l’inte- resse che oggi, nella nostra epoca tarda, va riscuotendo sempre più l’idea di una scuola non istituzionale come, ad esempio, l’home schooling.

A conclusione della sua prefazione, Visalberghi, pur considerando le af- fermazioni di Krishnamurti discutibili, apprezzava il modo scevro da ogni compromesso con cui egli prospettava “le esigenze di un’educazione rige- neratrice” (Visalberghi, 1958, p. XI). In un momento di ricostruzione della vita democratica del paese, il suo continuo invito a combattere contro ogni forma di educazione che fosse imposizione di modelli di condotta e di mo- di di pensare, si rivelava “come un salutare lavacro contro le più subdole forme di conformismo, […] suscitando nel lettore di mente aperta quello ‘spirito d’avventura’, quel divino ‘scontento’ che sono l’unico ‘varco verso la libertà’”. In effetti l’educazione krishnamurtiana, aggiungeva la Pescioli (1959, p. 746), coincideva con “la conquista della libertà […] dal ‘confor- mismo’ paralizzante che suona accettazione di valori esistenti e si manifesta come costrizione e obbedienza, ricompensa e punizione”.

Rileggere oggi, nella tarda modernità, le istanze di fondo e il messaggio di liberazione della proposta pedagogica di Krishnamurti, può essere un’occasione per riconsiderare e rifondare una scuola che, lungi dal sotto- stare alle leggi di mercato che favoriscono l’educazione all’efficienza, abbia come fine ultimo il senso autentico della vita.

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