• Non ci sono risultati.

2. INT GIORNO FOGGIA ALBERGO (BIANCO E NERO)

4.3 L’inizio del film e i final

Siamo stati molto indecisi su quale modalità di racconto scegliere fra quella non-lineare e metanarrativa e quella lineare. Da regista, dovrei difendere il film così com’è adesso e dire che alla fine abbiamo fatto la scelta giusta. Tuttavia, rivedendo il film finito e rianalizzandolo in questa tesi è come se si riaffacciasse l’anima da studioso che, facendo una sorta di “autopsia” al “corpo film” e guardando le cose più a freddo e più oggettivamente, forse in una maniera cinica e però – si spera – proficua, qualche dubbio affiora. Il compito dell’analista è, di solito, quello di analizzare le scelte finali dell’autore,                                                                                                                

ma, essendo in questo caso sdoppiato in ambedue i ruoli e soprattutto, conoscendo il ventaglio delle opzioni fra cui si poteva scegliere, credo sia mio dovere domandarmi: “siamo sicuri che sia stata questa la scelta migliore?” Non è questo, in fondo, uno dei privilegi di scrivere una tesi del genere?

La scelta A (non-linearità) presenta, di primo acchito, un livello d’intuizione, di ritmo, di originalità. Tuttavia, rispetto alla scelta B (linearità), l’alternativa A non è, oggettivamente o del tutto, la migliore: ha alcuni punti di pregio e alcuni di difetto. Il pregio che attribuisco alla versione non-lineare e metanarrativa è che sarebbe forse riuscita a risolvere le difficoltà che, anche adesso, vedendo il film, riconosco nella prima parte della sceneggiatura. Avendo visto I primi della lista ormai molte volte e avendo avuto riscontri da diversi tipi di pubblico, da quello più popolare a quello universitario, fino alle giurie di altri registi e sceneggiatori,163 sono ormai convinto che la seconda

parte del film sia migliore della prima. Certamente ci sono state anche delle ragioni produttive, come il fatto che la prima parte del film era oggettivamente più complicata da girare perché caratterizzata da una varietà di situazioni e ambientazioni. Nella seconda parte, invece, i tre protagonisti sono in carcere e tutto si svolge lì dentro. Avevamo una situazione produttiva quasi da “teatro di posa”, quale era, in fondo, un carcere vuoto: non avevamo problemi di rumore, di logistica e avevamo sempre la tranquillità di poter tornare il giorno dopo. Era una situazione protetta e quindi io lavoravo meglio con gli attori, tutta la troupe era più tranquilla e Santamaria, Cioni e Turbanti si erano conosciuti meglio. Tutto questo era amplificato dal fatto che nasco come                                                                                                                

163 Ho accompagnato il film, oltre all’iniziale promozione, quando è stato distribuito nelle sale

cinematografiche italiane, anche ai dibattiti tenutisi in più di venti festival italiani e internazionali, viaggiando per quattro continenti e, tra l’altro (scusate lo scatto d’orgoglio!), vincendo più di una quindicina di premi.

sceneggiatore e ho fatto poca pratica di regia; per questo, ho sempre avuto più problemi nelle situazioni di azione, per esempio, nella scena in cui avviene la fuga in macchina oltre il confine, oppure quelle in cui bisogna molto velocemente, senza possibilità di tornare sul set il giorno dopo.

Queste considerazioni ci portano a un più profondo livello di riflessione che configura il nostro spazio teorico non più all’interno di una linea che va dal lavoro dello sceneggiatore a quello dell’analista e poi ritorna, ma all’interno di un triangolo al cui vertice c’è la figura del regista. A lui il compito di trasformare quella che è una “prefigurazione” del film164 nella “figurazione”

(che poi diventerà “postfigurazione” per lo studioso). Questo passaggio porta la sceneggiatura in un tasso di provvisorietà che è più alto o più basso, a seconda delle circostanze (anche storiche) in cui accade il processo di produzione cinematografico. Come testimoniano forse le uniche due ricerche italiane complete sulla storia della sceneggiatura,165 nell’ambito del cinema

europeo, che ha un approccio non industriale, ma artistico-artigianale, la sceneggiatura è considerata un punto d’appoggio: non è il mai il testo finito, e non è nemmeno una brutta del testo finito, è una speranza, che non è definita, perché è una speranza vaga dove ognuno ci legge una sua versione.

C’è tutto questo da considerare, è vero, ma, dopo il lavoro di analisi della sceneggiatura compiuto grazie a questa tesi, so bene che non è solo questo: l’inizio (includendovi più del primo terzo del film) costituisce quella parte del film che è drammaturgicamente quella più debole, poiché quello è il luogo delle scene esplicative di preparazione. Sarà solo nella parte successiva che il

                                                                                                               

164 Maurizio Ambrosini, La prefigurazione del film. Sulle sceneggiature di Paolo e Vittorio Taviani, op. cit.;

165 Giuliana Muscio, Scrivere il film, Audino, Roma, 2009 (prima ediz. Savelli, Roma, 1981; Mariapia Comand (a cura di), Sulla carta: storia e storie della sceneggiatura in Italia, Lindau, Torino, 2006.

conflitto scoppierà in tutta la sua potenza drammaturgica e anche, ovviamente, in tutta la sua forza comica.

Il film aveva bisogno di alcuni passaggi obbligati per descrivere sia i personaggi, sia il setting della storia: e quindi rischiava di andare nel didascalico e già visto. Questo metteva seriamente a repentaglio il potenziale comico di quella parte del film e per questo tendevamo ad accentuare, magari forzare, battute o situazioni per renderle ridicole. Oltre a questo, restava, comunque, la parte più debole perché il conflitto scoppia da quando si capiscono quali sono le speranze, la situazione e il paradosso e l’equivoco surreale in cui si è entrati. Si può dire che questo film è come po’ come un diesel: la tensione emotiva (e comica) si costruisce un po’ alla volta e gradatamente, ponendo un tassello sull’altro; è sempre raro in un film partire

in medias res, ma in questo caso era ancora più complesso. Recentemente, ho

ascoltato una intervista a Farhadi, il regista di Una separazione166 il quale,

più o meno, diceva: “Racconto fatti di coppie e di problemi che hanno marito e moglie, perché so che non devo spiegare nulla, perché tutti sanno di che cosa stiamo parlando, l’abbiamo visto declinato in mille modi”. Per I primi della

lista avevamo un film che partiva proprio dal presupposto contrario, cioè non

poteva fare a meno del contesto storico, non poteva fare a meno di spiegare bene i personaggi e in che grado erano sviluppati e attaccati a questo contesto. Con la versione non-lineare, noi saremmo riusciti a raccontare il contesto storico e i personaggi ma con un ritmo più alto, con delle situazione buffe e comiche che avrebbero fatto ridere grazie a delle trovate originali, surreali: una delle migliori, ad esempio, penso fosse l’idea di fare l’intervista a Pinelli mentre stava cadendo da un piano alto della questura di Milano.

                                                                                                               

Per tutte queste considerazioni, ritorna prepotente la domanda che ha guidato noi nei mesi di scrittura, e guida ora questa parte del lavoro di analisi: abbiamo fatto la scelta migliore?

L’elemento che sicuramente si sarebbe perso con questo tipo d’inizio (non lineare rispetto all’altro), - era che si operava una forzatura sulla natura della storia, poiché la storia del film – la storia di questi tre ragazzi pisani che scappano, illudendosi che ci fosse in atto un colpo di stato e poi finendo in Austria per chiedere asilo politico – è una storia che per sua natura si presta senza sforzo a una narrazione lineare, proprio perché è una storia che ha un inizio, uno sviluppo e una fine molto consequenziali. Se analizziamo di nuovo

C’eravamo tanto amati o Trainspotting, ci accorgiamo che il tipo di racconto,

di storia che si va a raccontare e si considera, per esempio, anche la tipologia dei personaggi è, invece, di natura completamente diversa. C’eravamo tanto

amati racconta di tre personaggi che, per la maggior parte del film, sono divisi

fra loro: iniziano insieme sui monti innevati del Nord d’Italia, ma poi si dividono subito per ritrovarsi insieme solo alla fine del film. È un racconto che si dipana (e non solo nell’introduzione come avviene per I primi della lista) per trent’anni di storia italiana, mentre i protagonisti di questo episodio raccontato da Lulli sono sempre assieme in scena. C’eravamo tanto amati è un film che deve raccontare l’evoluzione storica, filmica, culturale, sociale dell’Italia, mentre qui dovevamo raccontare un tema e avvenimento specifico, e cioè la paura del colpo di stato all’interno di quel gruppo di persone. La versione non-lineare ci costringeva ad allargare la messa a fuoco sull’intero contesto e allora il film rischiava di diventare non più il racconto di quei tre ragazzi che hanno paura del colpo di stato, ma di un’intera nazione, o di una parte consistente di essa. Inoltre, se avessimo allargato l’orizzonte prospettico

all’inizio, probabilmente, per una questione di coerenza, saremmo stati costretti a trapiantare questo tipo di approccio anche nella parte centrale e finale del film. Avremmo, insomma, in parte tradito la natura della storia. Ed è per questo motivo che, quando ne abbiamo preso coscienza, abbiamo alla fine deciso di tornare alla versione lineare.

Sebbene fossero stati proprio i miei studi a farmi affascinare alla versione postmoderna, ancora una volta i miei studi mi hanno riportato alla versione lineare: forse merito, in qualche modo, di nuovo, di Aristotele.

Come dunque nelle altre pratiche imitative, l’imitazione unitaria è quella di un unico oggetto, così pure è necessario che il racconto, poiché è imitazione di un'azione, lo sia in forma unica e, insieme, intera, e che le parti dei singoli fatti siano connesse, in modo che, trasposta o sottratta una parte, l’intero ne risulti mutato e alterato, perché quel che, aggiunto o non aggiunto, non produce nulla di evidente, non risulta parte dell’intero.167

E ancora:

I racconti sono alcuni semplici altri complessi, perché tali sono anche le azioni di cui i racconti sono imitazioni. Chiamo semplice un’azione nel cui svolgimento, come è stato definito, continuo e unitario, ha luogo il mutamento senza rovesciamento e riconoscimento; complessa, invece, quella dalla quale il mutamento ha luogo insieme con riconoscimento, rovesciamento o entrambi. Questi devono prodursi dalla stessa composizione del racconto, sì che, dai fatti già avvenuti, accada che essi sorgano di

                                                                                                               

necessità o secondo verisimiglianza, perché c'è molta differenza che una cosa si produca a causa di un’altre o dopo un’altra.168

Aristotele, dunque, afferma che nella drammaturgia ben riuscita – e ipotizziamo che I primi della lista sia un film ben riuscito – il tema, lo stampo, il modello, il grande si ritrova nel piccolo. Aristotele dice, a modo suo e, dopo lui, altri si sono appropriati di questo concetto e lo ripropongono, 169 che una

buona narrazione deve avere una struttura frattale: tutto, perché sia compatto, deve essere composto dalla stessa unità minima. Il tema, il cuore della storia, il suo DNA, è in qualche modo un dono che ti è arrivato e quindi devi seguirlo. Tradirlo è commettere un peccato, oltre che correre un grande rischio, perché stai andando contro il gene, la natura stessa dell’identità della storia. Per commettere questo peccato, bisogna avere delle validissime ragioni e la consapevolezza profonda che si sta mutando l’essenza della storia, che si sta compiendo un’operazione contro natura: da una storia che si è trovata, si prende spunto per farne un’altra, la cui identità è differente.

Comunque, lo studio di un inizio e di uno stile alternativo ha poi influito sulla versione finale della sceneggiatura, seppure abbia prevalso la                                                                                                                

168 Aristotele, Poetica, op. cit., p. 151 della traduzione italiana.  

169 Primi fra tutti, hanno contribuito al dibattito i formalisti russi, Tomasevskij e Todorov in particolare. Angelo Marchese, nel suo Officine del racconto (Mondadori, Milano, 2009) sintetizza così il loro apporto: “L’opera letteraria, nel nostro caso il testo narrativo, è concepita come una combinazione di proposizioni tenute insieme da una idea comune o tema. Il tema rappresenta l’unità di una serie di elementi minori (i

motivi), disposti in determinati rapporti. Ci sono due tipi fondamentali di rapporti: 1) il rapporto causale-

temporale; 2) il rapporto non casuale” (p. 9). La sua disamina procede poi sui noti concetti di fabula e sjuzet, cioè intreccio. Più recentemente, anche la trattazione modellistica americana, in particolare Dara Marks (nel già citato Inside Story: The Power of the Transformational Arc) considera il tema come il punto di vista dell’autore che dovrebbe essere il sigillo di garanzia dell’unità del racconto. Anche in Italia, recentemente, si è aperto un vivace dibattito sull'argomento, in particolare sulle colonne della rivista “script”: F. Scardamaglia, Scrivere

il tema, pp. 82-84 in «script» 32-33, Audino, Roma, gennaio-luglio 2003; F. Scardamaglia, Il percorso di cambiamento come ricerca di identità in «script» 49, Audino, Roma, luglio 2010. In questo caso, il tema viene

visto da una prospettiva non tanto analitica, quanto operativa: il tema è il perno attorno a cui si costruisce la storia e la sua identità.

linearità. In particolare, sul punto di “apertura centrale” e sulla fine, lasciando, come dicevamo prima, dei “fossili” di quella versione alternativa.

Io e Lantieri avevamo individuato altri momenti, oltre all’inizio, dove accentuare lo stile non-lineare e metanarrativo di quest’altra versione della sceneggiatura. Una era la scena del furto di una Jaguar, su cui non potrò soffermarmi, l’altra invece era l’apertura a metà film: che, come ho già spiegato, è diventata una sorta di fossile della versione postmoderna in quella lineare, e poi, ovviamente, il finale. In questo modo, aprendoci altre due, tre volte, provavamo a raccontare anche che cosa erano per noi gli anni ’70, riallacciandoci ad alcuni personaggi che avevamo visto di sfuggita durante il film e che venivano ripescati in fondo: il signore che incrociano mentre escono dalla soffitta del Masi, sarebbe stato Licio Gelli, il signore della Jaguar un imprenditore che aveva capito la potenza della pubblicità, il capo dei tre carabinieri che inseguono i ragazzi oltre l’Austria uno dei soldati dell’esercito della forestale170 coinvolto nel tentato golpe di Borghese.

Quando abbiamo scelto la versione lineare, quei fossili erano diventati ancora più ingombranti e poi, piano piano, li abbiamo quasi tutti scartati. Ora anche il finale non è l’apertura sugli anni ’70, ma è una piccola chiosa che chiude il discorso: la paura del colpo di stato era verosimile – i nostri protagonisti ne avevano sì paura e forse sono stati avventati e un po’ ingenui, però Borghese ha provato davvero a fare il colpo di stato.

Anche solo tramite i tre protagonisti, è possibile leggere il resto degli anni ’70 o una parte di quella generazione in qualche modo sconfitta ma                                                                                                                

170  La Storia vuole che Borghese andò proprio con una divisione della forestale a provare a fare il colpo di

stato.  

ancora dignitosa. Nella versione non-lineare, ci sarebbero stati degli impulsi sugli anni ’70 che vanno aldilà di questa piccola storia. Nella versione lineare, è possibile, invece, guardare la Storia attraverso un piccolo buco della narrazione – ma forse è sbagliato definirlo così, sembra voyeurismo – forse è meglio dire: attraverso il loro filtro. In questo senso, mi sembra che la versione lineare abbia un suo punto di forza in più. Quindi di nuovo, come spesso succede, ogni opzione, ogni scelta, ha dei suoi pregi e difetti – è difficile, anche adesso, dire quale sia migliore dell’altra.