2. INT GIORNO CASA LULLI CUCINA
2.3.1 Il tema del padre
Il tema del padre è quello più complesso e sfaccettato del film. Si presenta, infatti, in varie declinazioni. La prima e la più evidente, è quella del padre inteso come biologico o reale: il film, infatti, si apre con un conflitto fra padre e figlio, Franco Lulli e Renzo Lulli, e il film ripresenta in chiusura, al parlatorio del carcere, la resa dei conti di questo conflitto mostrato all’inizio.
Da questo “grado zero” del tema, il film si spinge in altri territori, prima in quello psicologico (la figura del mentore-padre Masi, sia per Lulli ma soprattutto per Gismondi) e poi politico-ideologico: secondo la nuova ottica il padre è adesso visto e raccontato come l’autorità: lo Stato.
C’è da notare, infatti, che il film, prima ancora che con la scena a casa Lulli, parte con immagini di repertorio che raccontano gli anni della dittatura greca, della lotta di studenti e giovani contro l’autorità-Stato, e dei tentativi falliti di instaurare la dittatura in Italia, degli scontri e manifestazioni dei giovani contro le forze dell’ordine (in sceneggiatura questa introduzione era spostata solo un po’ più in là, prima dell’assemblea sulla Grecia). Possiamo, quindi, asserire che anche in questo caso il film mostra un conflitto fra il simbolo del figlio ribelle contrapposto al simbolo del padre autoritario.
Ma anche nelle scene successive abbiamo una riproduzione di questo microcosmo di tipo tematico: le discussioni durante l’assemblea, la figura dei militari, la paura dei tre ragazzi, l’autorità dei Carabinieri al confine, l’istituzione carceraria in Austria.139
139 Questa contestazione della figura del padre è in qualche modo pervasiva. Si enuclea non solo contro la figura del padre dittatore, come è ovvio, ma perfino contro l’autorità del capo dell’assemblea che viene contestato dagli altri: in questo caso, però, anziché autoritario è un padre troppo compromissorio nella lotta contro l’autorità.
Tornando all’analisi del rapporto figlio-padre biologico, direi che potremmo definire il padre di Lulli come il prototipo del padre di quei tempi. Un uomo tutto di un pezzo che ha fatto della disciplina il suo metro di vita e la regola per l’educazione del figlio. Una sorta (applicando le dovute sfumature) di padre padrone, che pone al centro del proprio metodo educativo i divieti, che continua a dire al figlio “questa cosa non va fatta, questo confine non va attraversato”, che reputa il giovane Lulli non capace quanto se stesso.140 È un
padre, insomma, che non capisce il figlio, che non ne condivide né le irrequietezze, né i sogni, né gli sporadici slanci d’affetto. Per esempio, durante la telefonata alla stazione di servizio, quando ormai Renzo è convinto che il colpo di stato sia imminente, azzarderà a dire al padre un “vi voglio bene” ma quello, che comunica seguendo un altro codice, “legge” quello slancio di affetto unicamente come una mossa per farsi perdonare qualche guaio.
Il mondo del ’68, insomma, portando con sé la contestazione, il movimento studentesco e una nuova sensibilità, sta cambiando prima di tutto le relazioni umane, e il padre non può che erigere un muro a difesa della sua norma. L’unico modo di confrontarsi con Renzo è vietare ogni distrazione dallo studio, reprimere in lui “ogni grillo per la testa”. Ed è a questa barriera di divieti che suo padre ha eretto attorno a lui, che Renzo risponde non solo scavalcando la recinzione (“vietato vietare” era uno degli slogan del ’68), ma sconfinando in territori sconosciuti e imprevedibili. Il personaggio di Lulli, dall’essere inizialmente il più moderato e compromissorio, arriverà a essere il più deciso nelle scelte di contestazione verso la figura paterna. Questo lo deve
140 Renzo Lulli mi ha raccontato in un’intervista che suo padre non gli ha mai dato ragione una volta nel corso dell’intera vita.
prima di tutto ai “lupi cattivi” Masi e Gismondi, che lo fanno deviare dal consueto e protetto sentiero nel bosco, per portarlo dentro la bocca del lupo, dove il rischio che si corre è grande, però, grande è la ricompensa per la deviazione: l’autonomia e l’indipendenza rispetto a quel che dev’essere rivista come l’oppressiva e soffocante figura del padre, così permettendo il raggiungimento della maturità.
Continuando con l’analisi dei padri biologici presenti nel film, dobbiamo parlare di un’altra figura di assoluta importanza: il padre di Masi.
Anche se invisibile (in effetti, non lo vediamo mai, ma lo immaginiamo grazie ai racconti dei nostri personaggi), il padre di Masi è forse una versione ancora più potente e devastante e inquietante del padre di Lulli. È un padre fascista (quindi incarna in toto il simbolo del padre contro cui ribellarsi), un tiranno che picchia il figlio e la moglie. È questa la vera ragione della fuga di Masi, più che la paura del colpo di stato. O, per raffinare ancora l’analisi, direi che il padre-stato, il padre-fascismo, il padre-mussoliniano è nient’altro che un’ombra ingigantita del padre reale di Masi tornato a cercarlo. Il fatto che Masi fugga da suo padre, pur non vedendolo mai, aumenta questa sorta di proiezione di cui abbiamo parlato adesso. In questo senso, la metafora del padre di Masi rispecchia il fantasma del fascismo per l’Italia. È una figura pesante, che ha lasciato profonde cicatrici (rappresentate in forma concreta nella stessa cicatrice che ha sul petto il personaggio del Masi), ma è fondamentalmente invisibile, non presente, e quindi proietta ombre e paranoie e può essere facilmente trasfigurato: è più un ghost, appunto, che una figura fisica a cui opporsi.
Il padre reale di Gismondi è la figura più debole dei tre veri padri proprio perché, come già spiegato, è stato sostituito da un’altra figura paterna psicologica, cioè quella del leader padre, ossia Masi. Col proprio padre biologico, infatti, Gismondi si confronta al parlatorio del carcere seguendo modalità che ricordano più un rapporto fra amici, più che con modalità padre- figlio, confidandosi con lui e alla fine (guarda caso) parlando, appunto, del rapporto difficile con il suo padre-mentore Masi.
La parabola del racconto del film si chiude con la risoluzione di questi conflitti con i padri reali e psicologici: Gismondi che in qualche modo spodesta e “uccide” il padre Masi, per poi vederlo finalmente umano; mentre Lulli finalmente fronteggia suo padre, nella scena speculare a quella iniziale, e lo zittisce:
LULLI
(Al babbo) Cosa hai detto? BABBO LULLI
Nulla.141
E, ancora più significativamente, prende una decisione contro la volontà paterna, non cedendo al ricatto materno e compromissorio del “ti intestiamo la macchina”, restando accanto ai suoi amici, perché forse è diventato lui finalmente padre dei suoi amici, essendo diventato il più maturo di tutti.
Così anche Masi ha imparato a fare i conti con la propria chimera; nonostante sia stato sconfitto (anche nella misura in cui Gismondi, che era
una po’ la sua figura filiale, lo ha ucciso a sua volta), è diventato finalmente figlio, è diventato figlio di Gismondi e di Lulli. La sua vittoria sulla figura paterna è quella di averla affrontata e sconfitta in sé. Ammettendo che lui stesso picchiava la sua ragazza, ha in qualche modo esorcizzato il padre che picchiava la moglie e quindi sua madre, accettando di non dover essere il leader tutto di un pezzo, ha esorcizzato la parte di padre (padrone e fascista) che era in lui. Infatti lascia a Lulli la decisione di riunciare all’asilo politico e tornare in Italia, e, anche dal punto di vista visivo, nella camminata verso l’interrogatorio, questa volta è Lulli davanti ai tre, quando la volta precedente il primo è stato Masi. E ancora: nell’ufficio, nel centro è seduto Lulli, non più Masi, perché è lui che prenderà la decisione. Lulli è diventato padre e Masi finalmente ha un peso in meno sulle spalle; finisce il film più leggero.
La figura ideologica e simbolica del padre è racchiusa, invece, nella figura dello stato reazionario, repressivo e armato, che, con la paura del colpo di stato s’incarna finalmente nel suo simbolo più puro: il dittatore. Quale figura paterna più forte? La fuga dei nostri tre personaggi è, infatti, dal potenziale tiranno e dalle sue emanazioni che incontrano durante il viaggio.
La figura, quindi, del padre nella nazione, dalla mano ferma e dittatore, pronto a ristabilire l’ordine e la disciplina, è appunto associata a quelle delle forze dell’ordine – militari, carabinieri, carcerieri. Chi mantiene l’ordine e vieta, chi ha il diritto della violenza e, infine, chi punisce. Tuttavia, il fatto che il dittatore in sé rimanga una figura oscura e invisibile funziona appunto da perfetto specchio alla figura del padre del Masi.
Nel finale del film, quando ormai questa figura sembra essersi dissolta nell’illusione del suo equivoco storico (e nella sublimazione del conflitto del
Masi con il proprio padre), in realtà la figura di quel padre ideologico e dittatore ha un ultimo “colpo di coda”.142
Si lascia lo spazio alla figura del padre-dittatore di riemergere in due punti distinti alla fine del film: dal dialogo nel cortile del carcere fra Masi e Gismondi, e dalla prima scritta su nero, finito il film. Masi, come prospettiva, vaticina uno Stato che continuerà a comportarsi come un padre assassino e non sarà disposto a mollare il potere: il futuro sarà carico di bombe e di altre ingiustizie. La scritta finale racconta il tentativo del golpe Borghese e dà credito a queste sue ipotesi. Quella generazione che ha provato a sconfiggere il padre ne è rimasta sconfitta. In parte perché ha imbracciato le stesse armi, è caduta nello stesso errore di quel padre violento, in parte perché alcuni hanno preferito mettersi da parte e continuare la fuga.
Finisco l’analisi della figura del padre attraversando il film alla ricerca di quelle figure paterne occulte che fanno risuonare “l’unità tematica” aristotelica che parla dell’opera d’arte come un modello ricorsivo in cui temi e DNA dell’intero si ritrovano nel particolare.143
Intanto, in linea con tutto quanto ho finora sostenuto, la figura paterna è presente nell’assemblea sulla situazione che si era venuta a creare in Grecia. Il capo della riunione degli studenti è un padre compromissorio, è un leader che tenta di non fare avvenire quel delitto edipico, che tende a non arrivare allo scontro, ma a scoprire una via pacificatrice.
142 Si potrebbe quasi trarre un parallelo con alcune pellicole dell’orrore, quando alla fine, risolta la vicenda del film in maniera positiva, spunta una mano dalla terra che dà l’ultimo sussulto allo spettatore e, tra l’altro, apre le strade dei sequel. In questo caso direi invece molto più amaramente, apre una finestra su quello che è successo poi, con la storia che ha seguito il suo corso.
Nelle scene successive in cui sarà rivelato l’equivoco storico di cui i tre sono cascati, nelle scene che si configurano come fossero “di apertura del punto di vista”, abbiamo tre momenti incentrati sulla figura del padre:
Intanto, vediamo i genitori di Lulli e Gismondi i quali, di fronte all’avvocato, mostrano un atteggiamento di preoccupazione e non più di divieto, sebbene ancora li giudichino con sufficienza:
Tutti adesso sono rimasti in silenzio, presi in contropiede dall’ultima affermazione. Il babbo del Gismondi interviene per la prima volta.
BABBO GISMONDI
Quindi son tre coglioni.
L’avvocato sospira alzando gli occhi come a dire: “l’ha detto lei”.
AVVOCATO
Dobbiamo chiarire con precisione la dinamica dei fatti. Anche perché c’è un altro problema di natura diplomatica…
BABBO LULLI
Pure.144
Non riescono ad adottare un atteggiamento di amore, affetto e preoccupazione per i propri figli, non dispongono ancora degli strumenti per risolvere quel rapporto.
Nella scena immediatamente successiva, riconosciamo la figura di Moro: il padre comprensivo per eccellenza, che deve accogliere il figlio nonostante la sua distanza, che ha le preoccupazioni del padre- amministratore dello Stato; egli è, in realtà, quel padre che, quando gli
spiegano cos’è successo, si mostra, più che arrabbiato, disorientato. Trovandosi a dover affrontare eventi che escono dal suo paradigma di comprensione normale, stenta a capirli.145
Segue, quindi, la scena dei carabinieri che sono redarguiti, rimproverati dal padre comandante dei carabinieri:
COMANDANTE CARABINIERI
E quindi stamattina il ministro degli esteri Aldo Moro ha chiamato il comandate dei Carabinieri, che ha chiamato me. E adesso vi
sbattiamo alla forestale o in
qualche posto dimenticato da dio.146
Il padre che dovrebbe essere un “tutt’uno”, un unico corpo (di polizia) fatto di sostanza e serietà, che invece si disgrega in vari padri, fra cui uno rimprovera l’altro, in una sorta di piramide dell’autorità che diventa appunto barzelletta.147
145 Moro è, in altre parole, il padre che è un padre-stato; con l’ingresso della sua figura, l’immagine dello Stato diventa più sfaccettata. Nella paura dei ragazzi, lo Stato è solo quello autoritario, violento, golpista, fascista. In realtà, c’era anche un’altra parte di Stato, che era appunto quello che non capiva più il proprio figlio, che non era necessariamente violento, ma non aveva più gli strumenti necessari per capire quel cambiamento epocale che stava avvenendo.
146 Cfr. Appendice: Sceneggiatura, Sc. 49.
147 In questa scena, tra l’altro, c’è una sorta di matrioska di padri, perché si riferisce quello che Aldo Moro ha riferito al generale, il quale ha riferito a sua volta a lui.
2.3.2 La fuga
L’altro tema centrale del film, un tema ancora più esplicito e immediato, è quello della fuga.
Questa sceneggiatura comincia con una fuga,148 ritrova nella fuga il suo
cuore narrativo e finisce con una fuga ancora più grande, ideale e ideologica. Le immagini di repertorio a inizio film, così come accadeva rispetto al tema del padre, nei confronti del quale esse dichiaravano la base di realtà dalla quale partivamo, riportano a un preciso concetto iconico: fughe di manifestanti, di cariche, con poliziotti che rincorrono studenti che scappano.
E anche i nostri protagonisti fuggono da un’ipotetica eppure ragionevole carica dell’esercito nei confronti dei militanti di sinistra e gruppi studenteschi. Non a caso, una delle prime idee raffigurate nella locandina del film era un disegno di una sorta di fumo della macchina che faceva vedere dietro, un po’ lontani e intravisti, i carri armati e l’esercito. E la locandina finale del film (che, devo ammettere, non amo)149 in ogni caso poggia le sue
basi su un’idea buona: vedere i tre protagonisti di spalle. Si richiama così, ancora una volta, il concetto della fuga.
Anche in questo caso, mi sembra giusto ricercare dentro la sceneggiatura quelle scene dove possiamo ritrovare quella ricorsività dei temi di cui parla Aristotele. Anche perché, a rianalizzare la sceneggiatura adesso, arrivo a capire che il film ne è pervaso (alcune scelte sono quelle che io e Lantieri abbiamo pensato e scelto razionalmente, altre sono ricadute naturali di questo tema di fondo così persistente). Nella prima scena, Lulli esce dalla cucina, nella seconda scena egli prova a uscire dalla finestra (nella versione
148 La prima scena, poi tagliata, di Lulli che fugge nel bosco inseguito dai carabinieri. Cfr. Appendice: Sceneggiatura, Sc. 1.
finale è solo un tentativo, in altre versioni antecedenti ci è riuscito), e in ogni caso, grazie alla mediazione della madre, può scappare indenne da casa e dal padre.
Nella scena dell’assemblea c’è la fuga per paura dei fascisti, presente nella sceneggiatura, poi eliminata nella versione finale del film (addirittura uno dei partecipanti si buttava dalla finestra dell’aula). C’è la fuga dalla soffitta di Masi subito dopo l’arrivo dei giornalisti; in seguito, c’è la fuga più lunga, verso il confine, la fuga in macchina lungo tutto il nord d’Italia (punteggiata dal richiamo di Masi a fare presto al suono di “Pigia, Lulli, pigia!”); c’è inoltre la fuga dall’inquietante e presidiato confine Jugoslavo e pure la rocambolesca fuga in macchina al confine austriaco, cui segue la fuga di Lulli da solo nel bosco. E poi, dopo la pausa in carcere, abbiamo la vera ultima fuga dei tre personaggi, alla fine del film, che fondamentalmente si pone come una fuga ideologica per Masi, il quale continuerà a scappare sempre più da un sistema economico e politico che non può condividere, e una fuga fisica per gli altri due, i quali andranno a vivere fuori dall’Italia, l’uno in Marocco, l’altro in varie nazioni del mondo. Per tutti, insomma, la fuga iniziata al confine con l’Austria (o nella soffitta del Masi) non si è più fermata.150
Per tutti loro tre è stata una fuga da un mondo che sarebbe poi diventato comunque un posto con tanti di quei tratti e valori che loro avevano combattuto, insomma, al tempo era una fuga verso l’asilo politico, mentre adesso è diventata una fuga in un “luogo” politico situato nel passato.
Ma come la paura del padre per Masi si rispecchiava in una paura del padre dittatore per una popolazione, così la fuga dei nostri tre protagonisti in
150 Uno dei titoli possibili per il film è stato per lungo tempo Il Fugone e anche, parodiando il famoso movimento di Lotta Continua, Fuga Continua.
realtà appartiene a una intera generazione. E’ quella generazione di sconfitti che hanno comunque conservato una loro dignità, che è simboleggiata alla fine del film nella canzone che sta come “manifesto”, Quello che non ho di Fabrizio De André; anch’essa è, a suo modo, una fuga: “non ho” è, sì, una determinazione di identità, ma espressa per contrasto, per distanza, per essere fuggiti da un certo sistema sociale, di potere, di certezze.
Non è un caso che il pezzo sia del 1981, cioè dell’anno simbolicamente di chiusura di quella stagione politica, una sorta di attestato di non appartenenza a un nuovo mondo, contro cui non si combatte più, ma almeno ce ne si allontana.
Per preparami alla scrittura del film avevo, tra l’altro, letto ai tempi il saggio di Henri Laborit dal titolo L'Elogio della fuga (1976);151 da quel
momento avevo iniziato ad avere una sorta di sguardo diverso nei confronti del tema: l’idea che, a quel tempo, ci fosse stato troppo poco diritto alla fuga. In altre parole, che l’imperativo del momento era diretto verso la militanza, quasi una chiamata alle armi e, in quella situazione di “semiguerra civile”, o comunque di situazione politica molto difficile e tesa, le scelte di vita non erano di sicuro all’acqua di rose.
A questo riguardo, una delle cose più scioccanti che mi ha raccontato Gismondi, mentre lo intervistavo durante il lavoro di ricerca per il film, è stata questa: “Alla fine dei conti io sono contento che mi sia successo questo strano episodio, perché probabilmente, visto il carattere che ho, se non avessi fatto questa meravigliosa cavolata, sarebbe successo che sarei rimasto lì nel
151 Henri Laborit, L’Éloge de la fuite , Robert Laffont, Parigi, 1976 (Trad. Italiana, L'elogio della fuga, Mondadori, Milano, 1990) .
movimento e magari avrei potuto prendere una brutta strada... magari perfino quella della lotta armata”. È come se mi avesse confessato che scegliere fra la situazione di sottostare a delle logiche terribili, com’era uno Stato che conviveva e appoggiava o – nell’ipotesi migliore – chiudeva un occhio su fatti gravi come le stragi di Piazza Fontana e della Loggia e altre ancora, e quella di prendere le armi, forse la fuga era una opzione apparentemente vigliacca, in realtà la più saggia di tutte. C’è una sorta di maturità nella fuga, che è un paradosso bellissimo, perché il fatto di fuggire è, di solito, una cosa istintiva che presuppone una scelta sbagliata, retrograda e infantile.
Ripensandoci adesso (e questa è una riflessione che non avevo mai fatto durante la fase di scrittura), c’è da dire un’altra cosa molto bella che porta questo tema e che è racchiusa e radicata nel territorio, un tratto molto specifico della pisanità. Traspare, oltre che l’ironia dissacrante e irriverente