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Un esempio pratico: il caso Italia

In seguito all’esame delle variabili demografiche e dei loro effetti sul sistema economico, si ritiene utile presentare un breve caso empirico. Questo consente di mostrare i principali trend in atto in una specifica economia, quella italiana, che è particolarmente rappresentativa del processo di cambiamento demografico in atto nella maggior parte dei paesi avanzati. Il capitolo si compone di due parti principali: una parte storica, che si occupa di riesaminare brevemente i cambiamenti demografici avvenuti nel nostro paese e le riforme di fiscali che sono state messe in atto; una parte che vuole essere uno scorcio sul futuro e sulle difficili decisioni che vanno prese perché non si incorra in difficoltà ancora maggiori per quanto riguarda il bilancio Statale.

6.2 Introduzione

In questo capitolo si vuole portare un esempio di analisi demografica applicato al caso italiano. La situazione italiana è particolarmente interessante in quanto rappresentativa di alcuni cambiamenti demografici che stanno avvenendo nella maggior parte delle nazioni del G8. Ovviamente, le riforme e le manovre effettuate sono invece specifiche del caso italiano e saranno anch'esse discusse. Tutti i dati che saranno mostrati in seguito sono tratti direttamente dall'ISTAT o sono rielaborazioni di dati forniti dall'ISTAT stesso.

Per quanto riguarda l'analisi, ci si concentrerà primariamente sulle politiche fiscali piuttosto che sulle politiche monetarie. Un attento esame delle manovre recenti e delle possibilità future dal punto di vista del controllo della moneta non è sensata nell’ambito dell’Unione Europea, dove le decisioni sono prese a livello centrale dalla BCE. Le politiche fiscali sono invece di primario interesse per il paese Italia, anche per via della crescente rilevanza odierna del tema delle pensioni e della spesa pubblica.

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6.3 L’Italia che fu

I dati analizzati mostrano come le caratteristiche demografiche dell’Italia siano radicalmente mutate negli anni: nell’arco di tempo considerato la percentuale di giovani sul totale della popolazione si è dimezzata, mentre quella relativa agli anziani è raddoppiata (Figura 6.1). Il ventennio compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Novanta è risultato particolarmente critico, in quanto il tasso di crescita naturale si è ridotto di circa dieci punti percentuali (Figura 6.2). Fatta eccezione per i due grandi eventi storici corrispondenti nella Prima e Seconda Guerra, si nota infatti una curva in leggero aumento fino al 1917 per poi passare ad un declino che si accentua dagli anni '70.

Figura 6.1: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani per gli anni 1862, 1951 e 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Figura 6.2: Andamento del tasso di crescita naturale, calcolato come differenza tra tasso di natalità e tasso di mortalità, dal 1862 ad oggi.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Grande Guerra WWII -20 -15 -10 -5 0 5 10 15 1862 1867 1872 1877 1882 1887 1892 1897 1902 1907 1912 1917 1922 1927 1932 1937 1942 1947 1952 1957 1962 1967 1972 1977 1982 1987 1992 1997 2002 2007

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Risulta inoltre evidente come sia in atto una dinamica demografica ad "onda" come quelle presentate nel corso del capitolo: anche l'Italia ha assistito al suo personale, per quanto meno destabilizzante, baby boom post Seconda Guerra mondiale.

Questo è particolarmente evidente dalla Figura 6.3, che mostra come

invecchiamento progressivo della popolazione e allungamento delle aspettative di vita abbiano causato una rapida e netta variazione della distribuzione in età della popolazione. Questa evoluzione ha contribuito a minare la salute economica dell’Italia, la cui crescita del PIL è ad oggi pressoché nulla, invertendo il fenomeno di crescita economica in modo molto simile a quanto accaduto nel decennio precedente al Giappone.

Figura 6.3: Distribuzione della popolazione per fasce di età nel 1862, 1951 e 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT

Per quanto riguarda il sistema pensionistico, il progressivo aumento della vita media della popolazione ha fatto sì che si dovessero pagare le pensioni per un tempo più lungo, mentre il rallentamento del tasso di crescita naturale della popolazione – e più in generale della crescita economica – ha frenato le entrate contributive. A questo si aggiunge la forte variazione nella composizione della

0 1.000 2.000 3.000 4.000 5.000 6.000 0 -5 5-9 10 -14 15 -19 20 -24 25 -29 30 -34 35 -39 40 -44 45 -49 50 -54 55 -59 60 -64 65 -69 70 -74 75 -79 80 -84 85 -89 90 -94 95 -99 1862 1951 2009 M ig liai a

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popolazione, con una percentuale di anziani sul totale in forte ascesa a fronte di una riduzione consequenziale della popolazione in età lavorativa, come precedentemente mostrato in Figura 6.1. Le riforme necessarie per riportare sotto controllo la spesa pensionistica sono però state intraprese tardivamente, a partire solo dagli anni Novanta. L’et{ minima di pensionamento è passata da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini (Riforma Amato, 1992), per poi prevedere l’equiparazione di donne e uomini nel settore pubblico (2010); il metodo di calcolo dei trasferimenti pensionistici è passato da retributivo a contributivo64, implicando una riduzione delle pensioni pro capite (Riforma Dini,

1995); il sistema di rivalutazione delle pensioni in pagamento non risulta più collegato anche alla dinamica dei salari reali65 ma soltanto all’andamento

dell’inflazione (Riforma Dini, 1995).

Risulta chiaro come queste misure siano state insufficienti e, soprattutto, tardive; si sono presi provvedimenti con più di vent’anni di ritardo rispetto al manifestarsi del forte mutamento demografico. Come conseguenza, il costo del sistema di previdenza sociale è cresciuto costantemente, tanto che l’aliquota contributiva, pari al 9% nel 1952, è stata innalzata al 20,45% nel 1992, e oggi è al 33%66; questi

valori risultano decisamente troppo alti, e vanno a penalizzare i giovani e a rallentare la crescita economica, rendendo estremamente elevato il costo del lavoro per le imprese. Per altro, la costante crescita delle aspettative di vita (Figura 6.4) dovuta al miglioramento del sistema sanitario e delle condizioni di vita, sembra non accennare a fermarsi, con conseguenze ovvie sul già difficile stato di equilibrio del sistema previdenziale.

64 Secondo il metodo retributivo, la pensione risultava essere una percentuale dell’ultimo stipendio,

circa pari a 80%. Secondo il metodo retributivo, invece, la pensione è calcolata sulla base dei contributi versati dall’individuo nel corso della propria vita lavorativa, e corrisponde mediamente al 50-60% dell’ultimo stipendio (per i lavoratori dipendenti; ancora meno per i lavoratori autonomi). Il passaggio al metodo contributivo del 1995 vale per i nuovi entranti nella forza lavoro; per chi avesse già versato contributi per più di 15 anni vige ancora il retributivo, mentre per chi avesse versato contributi per un numero minore di anni si ha un sistema di calcolo “misto”.

65 i.e. al netto dell’aumento dei prezzi al consumo.

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Figura 6.4: Aspettativa di vita degli individui, dal 1974 ad oggi.

Fonte: ISTAT.

Inoltre, come si può notare in Figura 6.5, sebbene le azioni intraprese per risollevare il bilancio pensionistico hanno avuto inizialmente risultati positivi – il rapporto tra lavoratori e pensionati si è allontanato dal livello soglia del 3:167 – in

meno di vent’anni la situazione è gi{ tornata al punto di partenza.

Figura 6.5: Andamento del rapporto pensioni per gli anni che vanno dal 1901 al 2009.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT. 67 Morcaldo (2007) 60 65 70 75 80 85 90 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 Uomini Donne Media 0 1 2 3 4 5 6 Valore Minimo

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A questo si aggiunge l'utilizzo estremo del deficit come mezzo di finanziamento della spesa pubblica, con effetti sul sistema Italia dirompenti: le generazioni attuali si trovano a pagare aliquote estremamente elevate per poter far fronte al debito costruito in passato. Inoltre, non è più possibile utilizzare lo strumento della spesa pubblica come stimolo, in quanto l'attuale stato del bilancio non lo permette. Ciò ha reso complicata la gestione della crisi e non permetterà una forte spinta per far ripartire il PIL.

Infine, si vuole mostrare qualche dato inerente al livello di istruzione nel paese. Dalla Figura 6.6 si ottiene un’immagine positiva del sistema educativo italiano, che tra il 1951 e il 2001 ha visto la percentuale di analfabetismo ridursi dal 13% all’1% e quella di diplomati e laureati aumentare di 8 volte.

Figura 6.6: Qualifica di studio della popolazione, in percentuali.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Sebbene sembri scontata una differenza così netta per due periodi storici molto differenti, bisogna pur sempre considerare che non è ovvio che una crescita economica sia accompagnata da una forte crescita nel livello di alfabetizzazione

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della popolazione. Questo ha senza dubbio portato ad un aumento del numero di lavoratori con un alto livello di preparazione, che nella teoria si dovrebbe accompagnare ad una inferiore volatilit{ dell’occupazione e quindi dell’output economico. Questo fenomeno non è però di facile verifica nel nostro paese in quanto i contratti di lavoro, per motivi strettamente legati alle “conquiste” sindacali, hanno portato ad una situazione di forte rigidità e difficoltà nel licenziare. Il sistema di ammortizzatori sociali contribuisce inoltre ad evitare forti oscillazioni di occupazione in periodi di crisi. Per queste due ragioni, non è possibile comprendere quanto il livello molto basso di volatilità di occupazione68 presente

nel nostro paese sia dovuto ad effetti demografici o alle condizioni particolari riscontrate.

Figura 6.7: Istruzione in valori assoluti, data dal numero di studenti per classe di educazione.

Fonte: ISTAT.

68 Si faccia riferimento a Jaimovich e Siu (2009).

- 1.000 2.000 3.000 4.000 5.000 6.000 M ig liai a Scuola infanzia Scuola primaria Scuola secondaria Università

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Dalla Figura 6.7 invece si ottiene un mosaico molto particolare: nonostante il forte aumento del livello di scolarizzazione della popolazione, il numero di iscritti a tutti i livelli, fatta eccezione per l’Università, è in forte diminuzione. Questo è certamente dovuto ai numeri sempre più bassi legati alle natalità. Controcorrente, come detto, è invece la situazione nelle Università: la forte spinta verso l’ottenimento di una laurea fa sì che il numero di studenti sia in aumento anche a fronte di una riduzione dei giovani. Se questo sia un bene o meno per il paese non è di certo un problema di facile trattazionee non verrà approfondito oltre, in quanto esula dai confini dell’analisi che si va sviluppando.69.

6.4 Il futuro e le riforme

L’evoluzione demografica prevista per i prossimi quarant’anni vede un forte invecchiamento della popolazione, dovuto sia ai valori negativi raggiunti dal tasso di interesse naturale, solo parzialmente bilanciati dall’immigrazione, sia soprattutto all’impennata della speranza media di vita. La popolazione giovane si ridurrà progressivamente fino al 20% nel 2051, con un innalzamento consistente degli anziani (Figura 6.8). In Figura 6.9 si nota inoltre come la distribuzione della campana dell’et{ della popolazione si sposti verso destra, con un crescente numero di anziani e un numero di adulti e giovani in riduzione.

La strategia finora perseguita dall’Italia – i.e. aggiustamento dell’aliquota contributiva su base annua come misura principale per il controllo del saldo del sistema pensionistico – non sar{ più perseguibile. L’aliquota contributiva è infatti già a valori record, e per mantenere invariati età di pensionamento e pensioni pro capite dovrebbe crescere addirittura fino a toccare il 65% nel 2051. La Figura 6.10 Quanto detto è sintetizzato graficamente in Figura 6.10, dove l’ordinata di sinistra rappresenta l’evoluzione prevista fino al 2051 per il rapporto lavoratori su pensionati, mentre l’ordinata di destra rappresenta l’aliquota contributiva di equilibrio corrispondente necessaria per mantenere il pareggio di bilancio con età di pensionamento fissa a 65 anni e pensioni pro capite invariate.

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Figura 6.8: Composizione della popolazione in Giovani, Adulti e Anziani nel 2011 e nel 2051.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

Figura 6.9: Distribuzione della popolazione per fasce d'età, nel 2011 e nel 2051.

Fonte: ISTAT. 0 200 400 600 800 1000 1200 M ig liai a 2011 2051

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Figura 6.10: Andamento del rapporto tra lavoratori e pensionati e dell'aliquota contributiva di equilibrio corrispondente.

Fonte: rielaborazione dati ISTAT.

L’Italia si sta muovendo verso una progressiva ristrutturazione del sistema di pensionamento. La più recente normativa relativa alle pensioni (DDL stabilità 2012, varato l’11 novembre 2011) prevede che entro il 2026 l’et{ di pensionamento sarà pari a 67 anni per tutti, e che successivamente si adeguerà alle aspettative di vita. Le pensioni sono un tema prioritario anche per il nuovo governo Monti, che propone una riforma basata su passaggio al contributivo pro rata per tutti, sostanziale abolizione delle pensioni di anzianità con aumento dell'età minima a 62-63 anni e fascia di flessibilità fino a 69-70 anni con disincentivi sotto i 65 anni e, oltre questa soglia, bonus automatici e progressivi per invogliare i lavoratori a rimanere.

Si teme però che le misure previste non siano sufficienti a risolvere la situazione: l’accoppiata aumento vita media – riduzione tasso di crescita della popolazione rende inevitabilmente instabile e costoso il sistema a ripartizione, adatto a evoluzioni demografiche opposte. Una possibile via d’uscita da questa situazione di stallo è il passaggio al sistema a capitalizzazione che, nonostante i rischi ad esso connesso – i.e. esposizione a inflazione e volatilità dei mercati finanziari – è

0 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 2010 2015 2020 2025 2030 2035 2040 2045 2050 Rapporto pensioni Aliquota contributiva

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decisamente più robusto alle variazioni demografiche. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di ridurre drasticamente le pensioni statali, accompagnando l’operazione con il potenziamento dei sistemi di assistenza complementare privati. In ogni caso, agire sulla sola variabile “et{ di pensionamento” è insufficiente: il sistema pensionistico italiano necessita di riforme strutturali.

Per quanto riguarda le politiche monetarie, è evidente che l'Italia si trovi in una situazione altrettanto complessa. Con l'istituzione dell'Unione Europea, è venuto meno il controllo diretto della moneta, rendendo impossibile tenere conto dell'evoluzione demografica del solo paese Italia. Nonostante ciò, è possibile definire lo scenario corrente come positivo in quanto, almeno per quanto riguarda l'andamento demografico, le maggiori nazioni Europee si trovano in una situazione analoga. Per questo motivo, dovrebbe essere possibile agire sui tassi in modo corretto senza trovarsi nella situazione di applicare politiche adatte ad un certo Paese ma inadeguate agli altri. Inoltre, nel caso si renda necessaria una profonda rivisitazione del sistema ora in uso, passando a quello a capitalizzazione, l'attenta gestione dei fenomeni inflattivi da parte della BCE renderebbe ancor più efficace il passaggio. Non ci si troverebbe, infatti, in una situazione di svalutazione continua della moneta come quella presente in Italia prima dell'Unione Monetaria. Come mostrato in precedenza, l'inflazione è un possibile deterrente per i sistemi a capitalizzazione, dal momento che erode rapidamente i risparmi accumulati da una generazione.

6.5 Conclusioni

L’analisi del paese Italia, sebbene sia stata svolta ad un alto livello di aggregazione, ha permesso comunque di comprendere le principali criticità per questo paese e per l’Unione Europea nel suo complesso. In ambito fiscale, ci si trova di fronte alla necessità di prendere decisioni forti, che possano rivoluzionare il sistema previdenziale corrente evitando di cadere in una spirale discendente in cui aumento della pressione fiscale o deficit di bilancio siano le uniche opzioni

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disponibili. Fare ciò richiede una forte maggioranza in grado di prendere decisioni non popolari ma sicuramente efficaci per il futuro del paese.

In ambito monetario invece, la costituzione della moneta unica e l’affidamento della maggior parte delle funzioni alla Banca Centrale Europea limita le possibilità di manovra a fronte di un cambiamento demografico in una singola Nazione. Come sottolineato nel corso del capitolo, i trend demografici in atto nell’Unione Europea sono però accumunati da più elementi: aumento della speranza di vita, riduzione dei tassi di fertilità e immigrazione costante. Questo è senza dubbio un vantaggio che potrebbe portare alla possibilità di prendere, per una volta, decisioni in grado di mettere d’accordo tutti i paesi membri.

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7. Conclusioni

Nel corso di questo studio, si sono mostrati i risultati ottenuti nelle principali ricerche presenti in letteratura e si è posto l'obiettivo di inserire l'insieme delle conoscenze raggiunte all'interno di un framework unico e strutturato.

Il fine ultimo del campo di studio inerente a Demografia, volatilità ed altri elementi strutturali è stato la comprensione degli effetti di alcune specifiche variabili demografiche sull'andamento della volatilità di output dell'economia. Queste variabili sono: la composizione in età della popolazione e l'istruzione. La prima ha un effetto sulla volatilità di output che si può definire indiretto. Dalla composizione in età della popolazione, infatti, si determina la volatilità di impiego che ha un andamento a U. Questo significa che alle fasce più estreme della popolazione, cioè i giovanissimi e gli anziani, corrisponde una volatilità di impiego più alta che va riducendosi man mano che ci si avvicina alla fascia media d'età. Per questo motivo, al variare della composizione d'età della popolazione si ha una corrispondente variazione della volatilità di impiego. Questa a sua volta è fortemente legata alla volatilità di output: in caso di uno shock negativo per l'economia, una forte volatilità di impiego causa una più alta disoccupazione e riduzione della domanda. In caso di shock positivo e alta volatilità di impiego, gli effetti saranno opposti. In ultima analisi, la volatilità di output che si avrà è maggiore se confrontata, ceteris paribus, ad uno scenario a bassa volatilità di impiego.

Gli studi sull'istruzione hanno portato a risultati altrettanto interessanti: ad una popolazione con maggiore livello di istruzione corrisponde una volatilità di impiego inferiore, con ciò che ne consegue per la volatilità di output. Inoltre, a maggiore istruzione media non corrisponde un tasso naturale di disoccupazione più basso. Questo è dovuto al fatto che a una maggiore istruzione non corrisponde necessariamente un set di abilità di più alto livello. Anzi, si trova70 che il livello di

abilità medio di un paese non è correlato con l'istruzione. Di conseguenza, manovre atte a migliorare il sistema scolastico di un paese porterebbero a una maggiore stabilità e minore volatilità ma non a una riduzione della disoccupazione.

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Il secondo tema, trattato in Demografia e Teoria del Ciclo Vitale, fa invece riferimento alla vasta letteratura inerente alla Life Cycle Hypothesis di Modigliani e alle ipotesi ad essa alternative. Si è cercato di presentare una descrizione il più possibile esaustiva e aggiornata di quanto elaborato a partire da tale ipotesi, in modo da comprenderne i risvolti nella trattazione dei modelli economici tradizionali. L'insieme di nozioni che si ottengono da tale ipotesi permettono non solo di determinare le conseguenze di cambiamenti demografici su alcune variabili economiche rilevanti quali risparmi e consumi, ma ne spiegano anche le motivazioni teoriche. Il contributo più importante della teoria è la costituzione di un potente strumento di analisi della vita dell'individuo che è poi possibile tradurre in un comportamento aggregato dell'intera popolazione. Il modello base è infatti facilmente estendibile per ottenere nuovi modelli che integrino specifici scenari o completino il contesto di riferimento. Fra tutti i contributi che si sono ottenuti dall'impiego dell'ipotesi LCH, i più importanti riguardano l'andamento dei risparmi nel corso della vita dell'individuo. Da tale andamento è possibile ricavare un'insieme di considerazioni sulle variazioni di risparmi privati presenti in una nazione al modificarsi della composizione della popolazione. In particolare, un aumento di pensionati contribuirà ad una riduzione dell'ammontare complessivo dei risparmi, mentre un aumento dei lavoratori porterà a un risultato opposto. Come è noto, gli effetti di una variazione dei risparmi in un paese sono molteplici71

e di primario interesse per gli organi istituzionali che si occupano della regolazione degli strumenti monetari.

Nel capitolo inerente i mercati finanziari, Demografia e mercati finanziari, si espongono gli studi che introducono elementi di tipo demografico in modelli previsionali applicati al valore dei titoli azionari. Il principale obiettivo di questi modelli è ottenere uno strumento il più possibile completo per la comprensione dell'andamento dei titoli, con il fine di costituire portafogli ottimali. Per l'economia nel suo complesso risulta interessante però la relazione tra demografia ed andamento del mercato finanziario, in quanto si può definire un legame forte tra

71 Ci si riferisce in particolare a variazioni nel tasso di interesse naturale. Per approfondimenti, si

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rapporto MY (middle-to-young) e valore di lungo72 dei mercati stessi. Un aumento

dell'MY ratio causa, infatti, un aumento dei valori di borsa per via di un effetto analogo a quello presente nella LCH: gli adulti risparmiano più dei giovani in quanto investono per poter godere di una sufficiente pensione nel periodo