I segnali di una condizione di “lontananza da se stessi” e di difficoltà nel saper stare nella propria interiorità, risultano ravvisabili tanto nei soggetti in crescita, quanto nei soggetti adulti i quali vivono un magma di demotiva- zioni, disinteressi, bisogni impliciti, non sempre estrinsecati, che hanno at- tinenza per esempio con la motivazione allo studio per i primi, o con la mo- tivazione professionale a svolgere compiti educativi da parte dei secondi, difficoltà che, in tutti i casi, si intrecciano con l’influenza invasiva esercita- ta dalla tecnologia, e che si riflettono nei contesti di vita nei quali i soggetti si muovono perlopiù in modo isolato. Per dare un nome a queste fatiche, possiamo attingere ad alcuni dei principali interpreti del quadro della tarda modernità e delle sue conseguenze sulla vita interiore.
Sul fronte del condizionamento dei bisogni interiori da parte dei modelli tecnologici, il filosofo Jean Michel Besnier (2013) sottolinea come sia in atto una sorta di delega della propria esistenza al mondo digitale, che sta producendo dei cambiamenti profondi nei comportamenti: rinuncia al con- fronto interpersonale, rifugio nei dispositivi tecnologici, sino a una sempli- ficazione dell’umano (ivi, pp. 35-36) con la conseguenza di uno sfianca- mento della coscienza e della sua capacità di riflettere;1 in sostanza, la tec-
nologia ci riduce ad automatismi che sfiancano la coscienza e l’auto- riflessione.
Se le tecnologie hanno determinato un «uomo aumentato» per quanto at- tiene il versante delle potenzialità, hanno altrettanto determinato una sem- plificazione dell’umano, che sta depotenziando l’esercizio di capacità spe- cificatamente umane come il linguaggio, la memoria, l’immaginazione, l’emozione2. Sempre sul fronte dell’impatto della virtualità sul piano inte-
riore, e più propriamente intrapsichico, il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han individua il disagio dell’uomo della tardo modernità nel burnout, e in
1 Diversamente dall’uomo semplice o dal saggio che vive a contatto con la natura,
l’uomo semplificato non è felice. È vittima delle sue macchine che lo riducono a niente, de- gli automatismi che queste sviluppano per facilitargli la vita, ma che finiscono per sfiancar- ne la coscienza e la capacità di riflettere, (ivi, p. 37).
2 «La semplificazione alla quale si abbandona affidando il comando alla tecnica è il sin-
un eccesso di malattie neurologiche quali la depressione, i deficit di atten- zione, i disturbi di personalità, che deriverebbero dall’elaborazione di un eccesso di positività: il soggetto, divenuto soprattutto “soggetto acquisito- re”, “imprenditore di se stesso”, rigetterebbe la negatività, sostituendo il verbo “should” [dovrei] con l’illimitatezza del verbo “can” [posso], e rico- noscendo l’imperativo dell’«achievement society», a differenza della socie- tà precedente che si delineava come una «disciplinary society» (Han, 2015) retta invece sul rispetto degli obblighi e delle leggi.
L’eccesso di positività come eccesso di stimoli, informazioni e impulsi, viene a modificare l’attenzione e la percezione, sempre più frammentata e sparpagliata, affermando il prevalere del “multitasking” attuale, che piutto- sto che rappresentare un progresso di civilizzazione, tende invece a delinea- re una regressione che ci accomuna allo stato degli animali chiamati a eser- citare il multitasking, al fine di poter sopravvivere in uno stato selvaggio (ivi, p. 12).
Una società del raggiungimento del risultato muta la negatività delle proibizioni e degli obblighi in società della libertà (ivi, p. 36), con conse- guenze non trascurabili sul piano intrapsichico: se nella concezione psicoa- nalitica il soggetto era dominato dalla negazione, nella tardo modernità è invece unsoggetto di affermazione (ibidem), le cui massime non sono più l’obbedienza, la legge e la realizzazione dell’obbligo, ma piuttosto la liber- tà, il piacere e l’inclinazione (ibidem), la ricerca della soddisfazione nel la- voro, l’agire per piacere e non in relazione all’altro, l’attenzione esclusiva per l’acquisizione, i risultati e la realizzazione, in definitiva, la sua identifi- cazione con uno stato di autoreferenzialità che lo porta a competere solo con se stesso. L’achievement-subject non è un soggetto in rapporto a, ma è un soggetto che libera se stesso soltanto all’interno di un progetto e di fina- lità produttive, sfruttando se stesso sino a rischiare il burnout (ivi, p. 47).
Anche Adriano Pessina (2016, p. 8) concorda sugli effetti negativi di una vita satura di possibilità, di ansia di futuro, di prestazioni, di possibili miglio- ramenti, che si è trasformata per l’io in un nuovo imperativo categorico. Di conseguenza, la categoria dell’io insoddisfatto intercetta e interpreta il sog- getto, non perché sia insoddisfatto per mancanza di stabilità economica, di affetti, di socialità, di certezze e modelli sicuri, ma a motivo di una pienezza e di un presente saturo: «L’insoddisfazione dell’io […] non si colloca nell’alveo della privazione e dell’indigenza, ma nel contesto dell’abbondanza di prospettive, di possibilità […] è piuttosto la percezione che non si faccia mai abbastanza, che ci sia sempre ancora qualcosa da fare, che l’orizzonte delle possibilità non debba mai essere chiuso» (ivi, pp. 52-53).
In questo senso l’insoddisfazione non è espressione del disagio della ci- viltà, ma è una categoria antropologica che si sta delineando, un modo di
esistere dell’io dell’immanenza, che aspira a superare il limite e il recinto dell’esperienza umana, senza riconoscere un interlocutore oltre se stesso, smettendo di interrogarsi sul senso dell’esistenza e della storia (ivi, p. 53), andando incontro così anche a un impoverimento delle sue radici e dei suoi riferimenti interni.
Le richieste di aiuto dell’uomo stanno delineando un’identità antropolo- gica, «un modo di essere dell’io dell’immanenza che riapre il progetto an- tropologico soprattutto in relazione a un modo di essere esperimento di se stessi» (ibidem), non privo di problematicità, così come evidenzia anche la psicoanalista Catherine Ternynck (2012) quando rileva che le diverse forme di fatica implicita vissute oggi dai soggetti, rimanderebbero a un «suolo umano» impoverito: i profili dei soggetti che emergono dalle storie e dai racconti di analisi, sia soggetti in crescita sia adulti, rispecchiano una «de- bolezza delle radici», un profilo personale «anemico, friabile, inconsisten- te»3 (ivi, p. 9), come se la ricchezza dell’humus sociale e culturale e la me-
moria collettiva si fossero decomposte.
L’uomo ordinario, rileva la Ternynck (2012), è uomo che «chiede di es- sere ascoltato in certi tormenti, di essere illuminato davanti a certe scelte, di essere sostenuto nelle prove, anche se sfugge di continuo: manifesta un pro- filo evanescente, […]. Quest’uomo dai contorni fluttuanti non la finisce di volersi definire» (ivi, p. 10); sfugge di continuo come un enigma. Per tali ragioni l’autrice utilizza la metafora dell’uomo di sabbia per esprimere la debolezza di un uomo che fa fatica a portare avanti la sua vita, che dubita del tragitto e del senso, che chiede riconoscimento, rassicurazione; in so- stanza, un personaggio dai tratti incerti, dai percorsi continuamente spezza- ti, incompiuti, contraddistinto da un precoce individualismo e da forme di- verse di solitudine (ivi, p. 11).
L’uomo di oggi, quest’uomo che pensa molto, che decide la propria vita e la organizza, è uomo che si caratterizza per i seguenti tratti: 1) è un sog- getto “psichicamente affaticato”, perché vive sotto il peso di un carico invi- sibile, messo di fronte a una libertà che lo obbliga, di fronte all’autoriferimento interiorizzato di sé, costretto a decidere, scegliere, vole- re, procedendo per tentativi ed errori, contando solo sulla sua soggettività e sul suo discernimento (ivi, pp. 13-18); 2) è un uomo indebolito dalle con- traddizioni: se è più potenziato ed evoluto, è al tempo stesso anche più in- costante; se è cerebrale, è contemporaneamente carico di pulsioni; se più libero, è al tempo stesso minacciato da numerose forme di dipendenza e di dibattimento etico e interiore:
3 «Il suolo umano stava perdendo il suo humus. Virava alla sabbia. Stavamo diventando
Nell’antropologia contemporanea, l’etica dell’alterità è piuttosto debole. Per l’individuo che ha un acuto senso di sé come persona, l’ordine primario è l’ordine dell’io. La necessità culturale di portare da soli la propria traiettoria di vita è di una tale forza che impegna ognuno a stringere un patto con se stesso, un patto esigente, […], al quale le relazioni con gli altri possono venir subordinate o ridotte alla di- mensione contrattuale: ne sono esempio le forme di dematrimonio, del vivere liberi ma insieme, di stanchezza nei sentimenti, di pretesa di un figlio per sé, di forme in cui il soggetto si abitua a passare il meno possibile dall’altro, forme di vivere in “carenza di alterità”, di difetto dell’altro in sé (ivi, p. 39).
La difficoltà a relazionarsi con l’altro si accompagna però a un desiderio di relazioni e di riconoscimento, di compassione e di tenerezza, se pensia- mo per esempio alle tante soggettività in condizioni di sofferenza, che ma- nifestano, come rileva Jean Vanier (2002, pp. 215-218), un’«emergenza dell’io», ossia la difficoltà per ogni persona di sapersi riconoscere attraver- so gli occhi e i gesti di un altro, di riuscire a comprendere che ognuno di noi può essere una persona capace di amare e di donare la vita agli altri, di riconoscere i propri limiti e fragilità, perché quanto più sono in grado di es- sere presente a me stesso, tanto più potrò essere prossimo all’altro riducen- do il senso dell’estraneità che ci separa. La relazione d’aiuto si profila, di conseguenza, come una relazione di vicinanza in umanità, perché non si tratta di essere simili, di essere come gli altri, ma di farsi prossimi, di nasce- re insieme dall’interno di una “relazione di prossimità” all’interno di una “reciprocità di umanità” (Lurol, 2002, p. 210).
Le difficoltà personali connesse a una carenza di alterità interessano, inoltre, tanto i singoli quanto la famiglia, la scuola, e tendono a esprimersi nel mondo dell’educazione sotto forma di carenza di consapevolezza edu- cativa e pedagogica, di fallimenti scolastici, di demotivazione dei ragazzi e degli insegnanti, di difficoltà di apprendere, a motivo delle continue oscil- lazioni vissute nel quotidiano per via del permanere da un lato in ambienti educativi e scolastici ingessati dalla trasmissione contenutistica, e dal vive- re, dall’altro, in un contesto esterno sempre più sfumato, senza confini e ca- ratterizzato dall’immediatezza, così come avviene per il contesto del virtua- le. I cambiamenti, inoltre, interessano anche l’esercizio delle funzioni co- gnitive, le capacità di assimilazione della conoscenza da parte degli studenti e le facoltà di attenzione sempre più ridotte, mentre crescono capacità come il multitasking e la gestione delle informazioni. Sia in famiglia sia a scuola, i ragazzi crescono in una “insoddisfazione interiore” che conduce i soggetti più tranquilli e silenziosi a ricercare l’adattamento e l’approvazione degli adulti, e i soggetti più spontanei a rifiutare le regole di vita e a vivere con noia le proposte avanzate dalla famiglia e dalla scuola, con la conseguenza che i ragazzi risultano o eccessivamente uniformati o troppo disallineati,
ma in ogni caso in difficoltà nel riuscire a rintracciare l’interesse e esercita- re la concentrazione su qualcosa per cui impegnarsi.