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pedagogicamente fondato per la formazione infermieristica

Come luoghi fisici e contesti che valorizzano atteggiamenti mentali aperti e problematici, i Laboratori delle relazioni di cura sono stati pensati come spazialità in situazione (Baldacci, 2004) per stimolare gli studenti a «pensare i propri pensieri» e a «sentire-decifrare-condividere il proprio sentire» in rife- rimento, in particolare, ai vissuti di tirocinio.

Dall’anno accademico 2001/02, presso la Sezione Formativa Bologna 2 del Corso di Laurea in Infermieristica dell’Università di Bologna, è stato ideato un programma pedagogico volto ad accompagnare gli studenti al- l’esercizio di una consapevolezza riflessiva necessaria a fronteggiare le crisi, le tortuosità e i conflitti che incontrano nel corso di studi per diventare infer- mieri. La scelta di definirli delle relazioni di cura e non soltanto “laboratori della relazione o relazionali”, oppure con alcune connotazioni specifiche,

come ad esempio “laboratorio della comunicazione infermiere-paziente”, de- riva dall’intenzione di proporre una cornice pedagogica antidogmatica che vuole al centro delle riflessioni le trame relazionali che lo studente vive quando transita nei territori della cura sanitaria. All’interno di tali laboratori, infatti, gli studenti hanno la possibilità di riflettere e condividere le esperien- ze riguardanti le relazioni con gli assistiti, con i familiari e con i tutor di tiro- cinio, ma anche con se stessi, con il proprio corpo, con l’immagine della pro- fessione che andranno ad esercitare ed altro ancora.

I Laboratori delle relazioni di cura sono al tempo stesso contesti d’ascolto e contesti d’azione dove è possibile agire e/o interagire, ascoltare e/o parlare affinché ciascuno possa entrare in contatto con un sapere aperto e non defini- to; sapere che trova la sua fonte nei contesti in cui gli studenti stanno impa- rando la professione di infermiere. Un sapere personale, dunque, che fonda la sua epistemologia sull’esperienza viva di ciascun studente.

Questa è la ragione per cui all’interno dei laboratori non vengono dispen- sati saperi preconfezionati, ma proposte sollecitazioni e create ad hoc occa- sioni per valorizzare quello che c’è già nello studente, e non quello che manca e dovrebbe esserci, come accade, invece, nel corso della didattica tradizionale. Nonostante il loro orientamento antidogmatico proposto per fare spazio all’esperienza, tali laboratori sono sostenuti da una forte tratto metodologico e, allo stesso tempo, concettuale che porta a prestare particolare cura alla loro progettazione e realizzazione, in linea con gli orientamenti dell’Orga- nizzazione Mondiale della Sanità che da tempo si batte per una formazione sanitaria pedagogicamente fondata.1

Il primo passo che apre la progettazione dei laboratori riguarda il ricono- scimento del bisogno formativo degli studenti; bisogno che raramente viene rilevato con griglie o questionari ad hoc. Talvolta esplicitamente, altre volte con maggiore opacità, il fabbisogno affiora stando a diretto contatto con lo studente quando racconta fatti, ricorre all’uso di metafore, manifesta emozio- ni, formula quesiti ed esprime dilemmi nel corso proprio dello svolgersi dei Laboratori delle relazioni di cura. Ma non solo. Anche le accese critiche o talvolta i superficiali apprezzamenti del tipo «tutto bene», insieme alle pro- spettive utopiche e alle dichiarazioni di intenti - «quando sarò infermiera/e, farò-non farò…» - espresse per fronteggiare le contraddizioni che il sistema propone, diventano indizi per tracciare la mappa dei bisogni da cui partire.

1 Risale al 1969 la prima Guida Pedagogica del personale sanitario, scritta da J.J. Guil-

bert dove viene proposta la spirale della pianificazione dell’educazione per progettare e rea- lizzare interventi formativi. Si parte dalla definizione dei bisogni di una comunità, si defini- scono i compiti professionali dei professionisti e i coincidenti obiettivi educativi, si pianifica un sistema di valutazione oggettivo e valido, si elabora un programma formativo e, quindi, si conclude attuando la valutazione.

Il secondo passo fa riferimento ai modelli pedagogici che sorreggono l’intero impianto metodologico. Diversi sono, infatti, i riferimenti teorici che orientano la progettazione e realizzazione dei Laboratori delle relazioni di cura. L’idea di apprendimento che il costruttivismo propone (ricordiamo: la co- noscenza è il prodotto di una costruzione attiva del soggetto; ha carattere concreto e situato; si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione) accompagna le ragioni del setting laboratoriale che vede lo studente “costruire la sua conoscenza” nell’interazione con sé e con gli altri, attraverso il fare significato (Bruner, 1992) nel corso della dimensione narra- tologica.

L’attivismo pedagogico di John Dewey (1965) sorregge, invece, la non direttività dell’intero impianto metodologico, portando a valorizzare da un lato, il protagonismo dello studente che impara facendo  e qui dare valore  all’esperienza del raccontarsi e/o dell’ascoltare nel corso dei laboratori, dall’altro, invece, sostiene la sperimentazione del pensiero riflessivo come abito mentale a cui tendere per l’intera vita professionale (Dewey, 1961). Per quest’ultimo fanno da sfondo anche il lavoro di Donald Schön (1983) sul professionista riflessivo e il contributo di Wilkinson (2009) per quanto ri- guarda il pensiero critico proprio della professione infermieristica.

Queste prospettive di base sono state arricchite dagli studi e dalle ricerche di chi da anni si occupa, specificatamente nel panorama pedagogico italiano, di formazione nelle professioni della salute.

Mi riferisco a Silvia Kanizsa e al suo filone di ricerca sul rapporto opera- tore sanitario-paziente, alle sue intuizioni a favore di una pedagogia ospeda- liera (1989) per l’ascolto del malato (1992), nonché sugli aspetti educativi legati all’ospedalizzazione del bambino (2013).

A Patrizia de Mennato (1999a, 1999b, 2005) in riferimento alle riflessioni sull’identità epistemologica della pedagogia nella prospettiva costruttivista e della complessità (Bruner, 1992) e alle numerose ricerche sulle buone prati- che nella formazione sanitaria che puntano alla valorizzazione dei saperi per- sonali, agli approcci riflessivi e di manutenzione cognitiva e agli aspetti im- materiali della cura (de Mennato, 1999, 2003; de Mennato, Orefice e Bran- chi, 2011).

La prospettiva epistemologica delle medical humanities e le esperienze di medicina narrativa, così come lo sguardo sulla tutorship e sulla Clinica della formazione applicate nei contesti sanitari, vengono ispirati dai numerosi la- vori di Lucia Zannini e collaboratori (2001, 2005, 2008, 2015).

In più altre angolature teoretiche trovano la loro radice nella pedagogia fenomenologica di Piero Bertolini (1994, 2001) e nei successivi approfondi- menti portati avanti in ambito sanitario da Vanna Iori e collaboratori e da

Luigina Mortari che negli anni ha condotto anche importanti indagini sulla cura infermieristica (Mortari e Saiani, 2013).

A questo panorama concettuale che da tempo si occupa del dialogo tra il «pedagogico e il sanitario» è stato aggiunto lo sguardo del problematicismo pedagogico di Giovanni Maria Bertin offerto come modello di filosofia dell’educazione per sostenere gli studenti a pensarsi e a progettarsi al- l’interno del mondo della professione infermieristica.

Il Problematicismo pedagogico per educare alla ragione,

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