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Riconoscere ogni bambino come l’ospite più atteso: i risultati del percorso

Le scritture hanno regalato numerosi elementi di riflessione. Il focus sul concetto di invisibilità ha permesso in prima battuta una condivisione delle condizioni per cui si può essere invisibili. È emerso come può essere invi- sibile ciò che non si vede oppure ciò che non si vuole ancora manifestare o ciò che non si conosce o non si comprende bene. Di fatto si è presa co- scienza che il proprio punto di vista gioca un ruolo essenziale nella possibi- lità o meno di concedere all’altro un tempo e uno spazio di libertà per ma- nifestarsi per ciò che si è e si può essere. La condivisione sulla propria sto- ria di vita ha rappresentato un momento altamente significativo che ha po- sto l’attenzione sull’importanza di “dirsi le cose” per poter lavorare meglio, uno scoprirsi reciprocamente nello sguardo altrui: il mettere in comunione vissuti e esperienze personali consente di «portare all’esistenza qualcosa che altrimenti non sarebbe a nostra disposizione» (Cocever, 2007, p. 35) e al tempo stesso favorisce una maggiore comprensione di sé e degli altri, una presa di coscienza che esiste un prima e durante dell’esperienza profes- sionale che condiziona l’essere educatori ogni giorno.

Molte resistenze sono emerse quando si è chiesto a ogni educatrice di scegliere due bambini, il più e il meno invisibile. Si stava invitando implici- tamente ogni professionista a nominare la propria idea di bambino. Le dif- ficoltà manifestate sono legate a diversi motivi dichiarati nel percorso. In alcuni casi nonostante il percepirsi come professionisti riflessivi, è possibile cadere in pratiche dormienti che non consentono una manutenzione costan- te del proprio pensiero; inoltre l’essere in ascolto di sé non è sempre un esercizio piacevole, ma viceversa psicologicamente ed emotivamente fati- coso. In altri casi, si paga ancora la pesante eredità che considera la sogget- tività come elemento di arbitrarietà e ingiustizia: avere un’idea di bambino sembra non essere politicamente corretto, come se si abdicasse alla cura di

tutti i bambini e le bambine. In altri casi ancora, la difficoltà di nominare è figlia di un altro antico retaggio che vede teoria e prassi come due universi distanti: alla domanda sull’idea di bambino ci si sente nella condizione a volte di parlare del bambino “studiato”, che sicuramente condiziona questa comprensione, ma non è sufficientemente esplicativo.

La pratica osservativa che ha accompagnato la nuova conoscenza dei bambini scelti è stata sempre sorprendente. In uno scritto si legge:

Mi sono resa conto che A. diventava incapace tutte le volte che smettevo di osser- varlo. Quando ero lì per concedergli uno spazio, lui mostrava tutto ciò che era ed era in grado di fare. Il problema era mio: se ero in grado di silenziare i miei pen- sieri così arrugginiti su di lui (educatrice).

L’osservazione quando autenticamente e sistematicamente condotta, a seguito di «una pulizia della mente e dell’animo» (Zambrano, 2007, p. 52), consente una messa a fuoco della propria posizione e disposizione, della necessità di riaggiustare le percezioni iniziali e magari conseguentemente modificare il proprio atteggiamento, la propria postura, il proprio aver cura. Osservare, così come essere in ascolto, diventa esperienza di passività, «ca- pacità di farsi vaso vuoto che sa fare posto a quello che l’altro ci vuol dire di sé» (Mortari, 2016, p. 186).

Spesso la non capacità dei bambini è invece legata ad alcune pratiche di cura che di fatto legittimano sostegni non autentici, come l’iperprotezione, la sostituzione e l’anticipazione. L’analisi degli elementi ambientali, come facilitatori e/o come ostacoli al sapere fare o meno dei più piccoli, eviden- zia come routine spesso rigidamente definite, o pensate a priori, non tenen- do conto della specificità delle storie incontrate, mette in moto pratiche che non tengono conto della zona di sviluppo prossimale e quindi delle effettive possibilità, inibendo o caricando di frustrazione la loro azione. Spesso die- tro al dichiarato «le ho provate tutte con questo bambino» si nasconde un «ho provato tante volte la stessa cosa» e l’unica mediazione tentata è lonta- na dalle pratiche di cura sperimentate oggi dai bambini, quindi totalmente inefficace. In altri casi ancora, la cura è intervento riparatorio che va a col- mare ciò che non funziona bene o che necessita di rassicurazioni, come se tutto potesse essere letto in termini di recupero e normalizzazione.

Dove invece la funzione dell’adulto si è tradotta in funzione di attiva- zione delle capacità, la cura ha assunto forme più autentiche. L’educatore che osserva e decide di volta in volta se e in che modo inserirsi per sostene- re e provocare opportunità educative, è determinante per ciò che le situa- zioni producono, partecipandovi non come insegnante che sa già né come regista che assegna i copioni, ma come semplice “parte in gioco”, disponi- bile e attento a coltivare il dialogo con ognuno dei bambini presenti. Il per-

corso ha evidenziato come osservazione e documentazione non sono acces- sori della professione educativa ma elementi vitali: consentono di cogliere il «da dove» e il «chi siamo» nella relazione educativa; permettono di dire con cognizione di causa: «ho fatto tutto il possibile perché questo bambino non andasse a male» (Manghi, 2013) e perché anche quello specifico mo- mento della sua vita fosse un tempo di soggiorno e non di semplice transito. Abbandonare una cultura impressionistica dell’aneddoto per conquistare una postura narrativa che pensa per storie significa fare di tutto perché ogni bambino abbia la possibilità di essere considerato nel servizio come l’ospite più atteso.

I bambini e le bambine sono antropologicamente in evoluzione perché cresciuti dentro pratiche di cura e di comunicazione completamente diffe- renti ed è come se ciò che fino a poco tempo fa cresceva senza far tanto rumore, oggi necessita di un pensiero, di una progettazione mirata, di un modo nuovo di porsi. Il rischio infatti è di attribuire queste metamorfosi so- ciali, culturali, educative esclusivamente al bambino, non più ai nostri occhi competente come un tempo. E a partire da questi assunti malsani, potrebbe verificarsi un’eccessiva patologizzazione e medicalizzazione dei bambini, con il rischio di voler rinunciare a una generazione solo perché non si è sta- ti in grado di comprenderla sul serio, contenendo il rischio di una vera e propria inflazione diagnostica. «La questione centrale è come gestire peda- gogicamente queste situazioni: osservarle per evidenziare sintomi, difficol- tà e incapacità oppure osservare per comprendere e cogliere particolarità e potenzialità» (Goussot, 2015, p. 36). La sfida è allora quella di imparare a pensare i propri pensieri, mettersi alla ricerca di significanti consapevoli e condivisi per evitare di cadere in strutture di significato rigidamente co- struite, interrogare le proprie pratiche per coglierne il valore e la valenza per l’altro, imparare a curare con l’educazione.

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In sintesi

I contesti educativi sono luoghi culturali, pieni di valori e costrutti interpre- tativi, più o meno espliciti. Ogni comunità professionale ha infatti un sapere implicito che fa da sottofondo tacito a ogni azione e che in maniera involonta- ria detta un sistema di istruzioni per comprendere, significare e agire. È un sapere molto forte, funzionale nell’economia del pensare e dell’agire quoti- diano, che spesso, proprio perché inconsapevole, sottrae alla responsabilità dell’incontro autentico. A partire da questi presupposti il progetto di ricerca- formazione, rivolto al personale educativo dei servizi per la prima infanzia del Comune di Perugia e di Corciano, è nato da un duplice bisogno: da un lato, una segnalazione da parte dei servizi integrati per l’età evolutiva che denun- ciano un aumento esponenziale delle famiglie che richiedono una valutazio- ne funzionale dei bambini 0-3 anni e, dall’altro, una sempre maggiore difficol- tà dell’equipe educativa di comprendere alcuni comportamenti dei bambini oggi. L’obiettivo è stato quello di provare a rendere esplicita la propria idea di bambino per capire quanto potesse essere distante dai bambini effettivamen- te incontrati. Il percorso si è articolato all’interno di una cornice che ha assun- to come riferimenti metodologici la “promozione dall’interno” e l’“analisi delle pratiche”. Il progetto ha evidenziato come osservazione e documentazione consentono di cogliere il «da dove» e il «chi siamo» nella relazione educativa e rappresentano la cartina di tornasole per la promozione di autentiche prati- che di cura educativa. In assenza di riflessività si corre troppo spesso il ri- schio di attribuire queste metamorfosi sociali, culturali, educative esclusiva- mente al bambino senza interrogare mai i contesti di cura dentro cui i più pic- coli nascono e crescono.

Transizioni riflessive: i pazienti nello sguardo

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