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Ri-significare la cura: prendersi cura di sé per prendersi cura dell’altro

L’interpretazione del magmatico quadro di bisogni esistenziali e delle fatiche connesse all’essere se stessi e a stare in relazione in una società complessa, frammentata e delle soggettività autoreferenziali, risulta crucia- le nel lavoro svolto dal professionista della cura. Al fine di non cristallizza- re la propria pratica nell’esercizio di modalità che potrebbero risultare “scollate” rispetto alla realtà vissuta dalle persone, egli è chiamato a eserci- tarsi nell’interpretazione di stati, vissuti e difficoltà, e a integrarla con l’autoriflessione in quanto cardine di una consapevolezza professionale che si articola su due livelli fondamentali:

- le premesse e le ragioni fondanti del prendersi cura dell’altro e dei pro- cessi di crescita, individualizzazione e realizzazione personale;

- le competenze, gli atteggiamenti e le abilità da esercitare in concreto. Al centro dell’autoriflessione non risultano esserci soltanto le compe- tenze connesse alla relazione. Infatti, sempre più operatori riportano la dif- ferenza vissuta tra il piano della relazione come mera gestione in risposta ai bisogni rilevati, e il piano di una relazione che riflessivamente guarda allo spazio che le due persone costruiscono reciprocamente dall’interno di una soluzione condivisa, all’insegna di una base etica e valoriale comune, in vi- sta di un’etica della cura che ponga l’accento sul valore del legame umano e della relazione con l’altro.

Pur riconoscendo la centralità rivestita dalle competenze specifiche ine- renti alla relazione d’aiuto (pensiamo alla consapevolezza delle emozioni, all’esercizio dell’intenzionalità, al riconoscimento della singolarità persona- le, al riconoscimento e gestione dei conflitti, alla promozione della recipro- cità ecc.), il prendersi cura necessita oggi di saper ripensare le condizioni di vita e di relazione al fine di custodire l’umano avendo la padronanza del- le premesse, dei quadri interpretativi ed etici per dare voce alle difficoltà e al bisogno di reciprocità che emerge non in modo diretto ma soprattutto tra le pieghe dell’esistenza e dell’educazione. La ri-significazione dei processi di cura dovrebbe avvenire, di conseguenza, in relazione all’interpretazione dei bisogni registrabili nell’attuale epoca:

- bisogni che emergono in maniera sempre più allusiva e non esplicita; - bisogni interiori che rimandano alla stanchezza e alla demotivazione sia

dei ragazzi sia degli adulti;

- bisogni interiori come riflesso di un desiderio profondo di etica e di sen- so oggi sempre più avvertito;

- bisogni emergenti attraverso modalità non più dirette e comunicative, ma in forme sfumate, deboli, emotive, da cogliere attraverso sotto forma di sguardi, gesti, attese, emozioni come la rabbia, le frustrazioni, il senso di impotenza o di inerzia vissute nel quotidiano.

Come rileva Hillman (2010) i problemi che l’uomo si trova a affrontare sono situati non tanto nell’ambito esterno a sé, ma dentro di sé,4 per questo

appare necessario esercitare una riflessione che riporti al centro l’attenzione per «l’uomo interiore», a motivo del nostro vivere in un mondo di persone, all’interno di una rete e all’interno di incontri (ivi, 2010, p. 17) per i quali i professioni della cura e dell’aiuto sono tali non a motivo dell’esistenza dei disturbi, delle difficoltà o della malattia in sé:

i problemi umani non sono qualcosa che la gente ha, ma qualcosa che la gente è. In psicologia, il problema è l’individuo stesso, così come io sono il mio problema. […] e quindi la terapia non può mai essere la sua eliminazione ma il prendersi cura della persona che incontriamo. Il lavoro di cura inizia con l’incontro umano (ivi, p. 18).

Lo spazio della relazione di cura si delinea pertanto nei seguenti termini: - come spazio in cui entrambi i soggetti sono presenti con i propri biso-

gni: chi aiuta, ossia il professionista, ha bisogno della persona per esprimere la sua capacità di dare aiuto (ivi, p. 19); conoscere l’altro non è l’esito di un’osservazione distaccata, ma di domande che cercano una risposta, che evocano, come sottolinea Hillman, delle «rispondenze» (ivi, p. 30) intorno alla natura umana;

- come spazio non della mera interrogazione, dell’incasellamento e inve- stigazione clinica, ma dell’incontro all’insegna di un’etica che si prende cura dell’umano, lo tutela, lo svela, lo promuove e ne sa abbozzare e co- struire trame di relazioni, progettualità e condivisioni;

- come spazio dell’intreccio tra momenti di attività e di passività, di inte- riorità e di esteriorità, e, soprattutto, spazio nel quale la dimensione

4 «… i disturbi storici odierni non stanno semplicemente nel “fuori” e sappiamo che noi

non siamo semplicemente vittime passive incappate nel caso clinico della storia del mondo, senza peso sulla bilancia degli eventi, impotenti a “cambiare le cose”. Poiché sappiamo che questi disturbi e queste dipendenze riflettono la scissione polare nell’archetipo che più di tutti attiene alla storia» (Hillman, 2001, p. 66).

esperienziale prende avvio dal concreto vissuto e dagli avvenimenti che l’uomo si trova a vivere ogni giorno.

Fanno eco in tal senso le parole di Marías (1996) quando afferma che per comprendere l’umano bisogna «concettualizzare l’evidenza» (ivi, p. 86), che non significa concettualizzare la realtà personale, ridurla a concetti che finiscono per cosificarla, ma situarsi all’interno della vita umana, nelle esperienze radicali che determinano chi siamo, cosa facciamo e cosa ci ac- cade, situandosi nella vita personale così com’è effettivamente vissuta, sen- za sovrapporre a essa; rileva Marías (ibidem), alcuno schema estraneo che non sorga direttamente da essa stessa, da qui l’importanza di esercitarsi a un metodo narrativo nei confronti della persona, al fine di ricostruire il flui- re della vita, le sue forme di connessione e di giustificazione, tenendo in considerazione che per «il possibile accesso alla realtà della persona è ne- cessario “dirla”» (ivi, p. 88). Il professionista della cura dovrà pertanto re- stare fedele alla condizione reale della persona; comprenderla a partire dal- la sua corporeità, temporalità, dalle diverse forme di convivenza, di proie- zione e di intimità; evocare il mondo della persona nei diversi piani, dai più esterni ed esteriori, fino a quelli più interni, riflettendone aspirazioni, incon- tri, progetti (ibidem). Ma affinché questo esercizio possa concretizzarsi è necessario che il professionista conosca il proprio mondo interiore, nel qua- le rifluiscono motivazioni, passioni, sentimenti, ideali, segreti, aspetti inti- mi e misteriosi dell’essere umano, ma soprattutto quel “centro interiore”, come direbbe Romano Guardini, che si nutre di passione, di slancio e di progetti razionali, e che ci aiuta metterci nei panni degli altri, a dare valore alle esperienze e alle diverse realtà conosciute, che rappresentano per noi il punto equilibratore tra interno ed esterno, essenziale per non lasciarci as- sorbire completamente dall’esterno e per non atrofizzare la nostra parte in- terna. Se siamo completamente rivolti verso ciò che accade fuori di noi, in- fatti, finiamo per vivere come “alla finestra di noi stessi”, alienandoci dal nostro vero essere. Al contrario, per essere in grado di esercitare una rela- zione d’aiuto, occorre riscoprire il “centro” in cui risulta custodita la nostra consapevolezza, il contatto con ciò in cui crediamo e che amiamo, con ciò che dà senso alla nostra vita.

Per il professionista della relazione d’aiuto, esercitarsi nell’auto- riflessione vorrà dire allora coltivare il proprio “centro interiore” come l’ambito che custodisce non solo la propria storia, le proprie aspirazioni e motivazioni, ma anche la mappa della propria esistenza che aiuta ad asse- gnare significato alle cose e ai fatti, per essere capaci di rintracciare ed ela- borare non solo risposte ma anche, e soprattutto, “rispondenze” nei con- fronti dell’altro. Il fine ultimo della relazione d’aiuto è identificabile

nell’esercizio della cura dell’umano nella sua integralità, di contro a una società che si limita riduttivamente a stimolare l’istintività e l’appagamento dei bisogni, o a dei contesti scolastici e formativi sempre più proiettati ver- so la promozione delle dimensioni attinenti allo sviluppo cognitivo- intellettivo e all’acquisizione delle competenze, a scapito di una crescita armonica della persona che contempli anche la sua sfera emotiva, relazio- nale, etica, spirituale; e a una società virtuale che mentre sollecita sul piano dell’immediatezza del sentire, lascia interamente scoperta la “sfera interio- re” della persona, che ci costituisce come esseri chiamati primariamente a saper riconoscere e “abitare” il proprio interno (Musaio, 2010).

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In sintesi

Sempre più frequentemente i professionisti della cura educativa si tro- vano a dover interpretare segnali di malessere diffuso, forme di disagio im- plicito e sfumato, espressione di una condizione generalizzata, diffusa ai nostri giorni, di non coincidenza del soggetto con se stesso, di un «suolo umano» impoverito (Ternynck, 2012), svuotato del suo humus di relazioni, legami e responsabilità, fragile e «insoddisfatto» (Pessina, 2015). Sia che si tratti della fatica di crescere da parte dei giovani, sia della difficoltà di edu- care da parte degli adulti, un magma di bisogni profondi inascoltati, tratteg- gia situazioni esistenziali che richiedono riflessione e competenze educati- ve volte a riportare al centro l’attenzione per «l’uomo interiore» (Hillman, 2001). Ogni persona, infatti, è chiamata a vivere la ricerca di se stessa co- me percorso verso la propria interiorità (Musaio, 2010), riconoscendosi come essere che “abita” l’interno. In rapporto a tale rilevazione, i professio- nisti pedagogici della cura si trovano a dover interpretare una vera e pro- pria grammatica dell’interiorità scritta oggi dai soggetti attraverso le loro fa- tiche, solitudini, ricerche interiori, motivazioni a realizzarsi. Con riferimento all’ambito operativo della consulenza pedagogica e della relazione d’aiuto, il contributo avanza la proposta di un’ermeneutica educativa per i professionisti pedagogici al fine di accrescerne alcune aree di competenza: a) l’inter- pretazione degli attuali bisogni esistenziali; b) l’autoriflessione come capacità di guardare dentro di sé per saper guardare all’altro da sé; c) la cura delle dimensioni interiori che ogni persona porta con sé, fondamentali tanto nella formazione delle identità quanto nella promozione del desiderio di esprimer- si, di attuare il senso della propria personalità, di dare espressione alle pro- prie ricerche profonde. È dall’interiorità, infatti, che prende slancio il desiderio di costruirsi sul piano di una vita personale e relazionale. È l’interiorità che si rivela ambito depositario di quanto di più proprio l’essere umano porta con sé, e al tempo stesso nucleo centrale di una relazione educativa d’aiuto che prende avvio dall’assunto del prendersi cura di sé per essere in grado di prendersi cura degli altri e di chi ci viene affidato.

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