Un risveglio difficile: l’ingresso negli anni di transizione
IV.I. Una panoramica d’insieme
L’accordo firmato, tra facili entusiasmi e critiche serrate, lasciava alle sue spalle un risultato “azzoppato” dalla resistenza aziendale, dando adito al succedere di continue discussioni che divengono rapidamente motivo di discordia tra le varie componenti sindacali. Il fuoco della lotta interna allo stabilimento, infatti, continuava a sommarsi a quello congiunto per la stipulazione di un più vantaggioso Contratto dei tessili su scala nazionale, rendendo la lotta intestina alla fabbrica il nuovo modello da perseguire dopo il definitivo superamento delle impostazioni centralistiche che avevano contribuito in parte alle sconfitte degli anni Cinquanta.
Come era avvenuto a livello di lotta articolata, la stessa campagna indetta dalle sezioni centrali dei sindacati tessili si trovava così costretta a cozzare contro quella che Diamante Limiti definiva su “l’Unità” una “provocatoria posizione degli industriali”, i quali, sempre secondo le parole del corrispondente comunista, avevano risposto in questi toni alla richiesta avanzate al tavolo delle trattative: “del vostro contratto di lavoro siamo disposti a cambiare una cosa sola: la copertina”6
. Certe dichiarazioni generano di fatto una prima reazione di protesta il 5 dicembre, quando circa 450mila lavoratori tessili scendono in piazza per manifestare contro “una linea vecchia”, giustificata con “motivi <<congiunturali>>”. Particolarmente dura era ancora una volta la stampa d’opposizione, estremamente critica nell’affrontare la questione:
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S.Turone, Storia del sindacato in Italia, op.cit., p. 315.
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In nome di che cosa i lavoratori tessili dovrebbero rinunciare alle loro rivendicazioni? Il <<momento>>- si dice, è tornato ad essere difficile. Ma in realtà tutte le cifre dimostrano che sono in forte ascesa tutti gli elementi che concorrono ad aumentare i profitti degli industriali. È in primo luogo aumentata la produttività: nel 1953 un’operaia di una fabbrica cotoniera <<rendeva>> 180 chili di prodotto al mese, nel 1963 la produttività sale a 406 chili; nella tessitura si passa da 125 a 255. E le vendite? Il settore tessile è l’unico nel quale la bilancia commerciale (importazioni-esportazioni) sia in attivo, in questa annata <<pesante>>.7
Lo sciopero -che in Toscana ottiene un grande successo con il 96% di adesioni a Lucca (98% alla Cucirini) e il 100% ad Arezzo8- riesce a paralizzare tutte le aziende chiave cotoniere e laniere, ma è soprattutto il suo carattere “unitario” ad attirare l’attenzione della stampa: attraverso numerosi comizi, soprattutto nel Nord, viene espressa l’intenzione di “condurre una lotta dura ed incisiva- che si articoli seguendo le esperienze delle battaglie integrative degli ultimi 20 mesi”9- per respingere le intimidazioni, i diversivi, le intransigenze industriali” da tutte le componenti sindacali. “La decisione dei tre sindacati (FIOT-CGIL, Federtessili CISL e UIL-tessili) di opporsi con la massima intransigenza a qualsiasi mutamento nelle prestazioni operaie e nella organizzazione del lavoro” fino alla firma del nuovo Contratto, inoltre, attira numerosi consensi in ogni Federazione, conferendo allo scontro un carattere di classe10 destinato a rendere palese anche la continua ricerca di autonomia delle forze sindacali “dalle impostazioni dei partiti e dal governo, oltreché dalle pretese del padronato”11
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Ciò che tuttavia affiora sempre più nitidamente sullo sfondo della vicenda non ha a che fare con una esclusiva dimensione di rappresentanza -sia essa politica che sindacale- quanto piuttosto con condizioni ritenute ormai inaccettabili dalla nuova forza operaia nel fluire delle trasformazioni economiche e sociali. Quello che si chiede è un sanamento sia delle “arretratezze antiche”, sia delle “contraddizioni nuove indotte
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Ivi.
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A Prato, invece, l’adesione era oscillata tra il 90 e il 95-98% nelle grandi fabbriche, mentre Pisa e Pistoia si erano rispettivamente assestate sul 95 e 90%. Ne “l’Unità”, 6/12/1963, Potente sciopero di 450.000 tessili.
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Ad essere citate per questa via sono proprio “le più recenti esperienze di lotta”, ovvero quelle della Cantoni di Lucca, del gruppo Tognella e dei 50.000 di Prato.
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La protesta verteva essenzialmente contro: “il <<no>> padronale alle richieste sindacali; l’assoluta opposizione al diritto di contrattare ritmi, tempi, cottimi, organici e macchinari; le scuse <<congiunturali>>; la ipoteca posta sulla stessa politica governativa (che dovrebbe avvallare il blocco retributivo)” […]. In Ivi.
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“l’Unità”, 4/12/1963, Venti chilometri attorno ai telai, di Diamante Limiti. “L’autonomia –scrive Limiti- presuppone il rifiuto di ogni condizionamento – anche di quello che è penetrato nelle equivoche formulazioni del governo di centrosinistra- che deve portare ad autonome decisioni degli operai chiamati alla lotta e delle istanze sindacali. Il dibattito sull’autonomia e la democrazia sindacale che le organizzazioni interessate hanno avviato da tempo giunge insomma ad una situazione decisiva per far fare passi in avanti a questi problemi tanto importanti per i lavoratori, per le loro organizzazioni sindacali e per la stessa vita democratica del paese”.
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, ed è ancora Diamante Limiti a fornirne un quadro, sì, in parte forzato, ma certamente esplicativo sul crescente dominio monopolistico:
Dietro le difficoltà avanzate dagli industriali tessili si nasconde in verità una politica esemplare per comprendere gli indirizzi del padronato industriale italiano anche degli altri settori. L’accentuata integrazione dei mercati europei pone tempi accelerati per il rinnovo tecnologico in continua evoluzione. Nel settore tessile si gettano a capofitto gruppi e monopoli che prima operavano in campi diversi: ultimi –ma di quale portata!- l’ingresso della Pirelli nel settore delle confezioni in grande serie e quello della Chatillon-Edison […]. Ma gli imprenditori vecchi e nuovi vogliono mantenere integra, anche nelle fabbriche tessili, la concezione secondo la quale il finanziamento delle nuove macchine, di nuovi impianti, di nuove catene di vendita o di nuove campagne pubblicitarie deve provenire essenzialmente dall’aumento dello sfruttamento operaio e dalla compressione dei salari. La rivendicazione operaia di salari più alti viene così di nuovo presentata, sulla stampa padronale, come un attentato allo <<sforzo produttivo nazionale>>, creando un insistente dilemma: o miglioriamo la paga operaia o miglioriamo l’attrezzatura tecnologica: oppure se aumentiamo le paghe –si minaccia- aumenteremo i prezzi. Questo contrasto è vero solo se si accetta l’intangibilità del profitto capitalistico, solo se lo Stato […] rinuncia a regolare il processo di finanziamento, lasciandolo alla mercé della ricerca del massimo profitto da parte dei monopoli; esiste solo se per difendere le lire del padrone si finisce col predicare il contenimento delle lire degli operai.13
Compressione salariale, sfruttamento lavorativo, divergenze dettate dal persistere delle “gabbie” e crescente meccanizzazione della produzione: sono queste le preoccupazioni principali che attanagliano un contesto di fabbrica in profondo e costante mutamento, a fronte dei profitti sempre più alti che vengono fatti registrare dalle Aziende. Ne nascono così nuovi processi rivendicativi dal duplice carattere contrattuale, integrativo e nazionale, convogliati nella richiesta di condizioni più umane e vantaggiose che nella quasi totalità dei casi si trovano a cozzare contro accanite resistenze padronali, non di rado destinate a sfociare in repressioni di vario tipo.
Se certe misure coercitive restavano tuttavia frequenti, l’eredità del 1963 (a Lucca come in gran parte d’Italia,) stava anche e soprattutto in una prima “esorcizzazione” di queste, principalmente grazie alla formazione dal basso di una coscienze di fabbrica capace di andare oltre il frazionismo interno agli stabilimenti e alle diversità anagrafiche della forza lavoro, creando così un solido “soggetto unico” sulla spinta del sindacato. Certo, una netta frattura persisteva (ed era imposta) tra impiegati e maestranze, ma erano queste ultime a giocare un ruolo sempre più determinante nel mettere in evidenza le contraddizioni interne ad un sistema di fabbrica segnato dalla prime crepe nel modello fordista. Una dimostrazione ci è data esemplificamene da quel che avviene negli impianti tessili, dove le Commissioni Interne chiedono con sempre maggiore insistenza “di stabilire il diritto sindacale alla contrattazione del numero delle macchine
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Guido Crainz, Il Paese mancato, op.cit., p.3.
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affidato a ciascun operaio”, mossa che avrebbe ipoteticamente evitato alla forza lavoro di “percorrere giornalmente un percorso lungo circa 20 chilometri intorno ai telai”, quando quelli assegnati pro capite arrivavano ad essere addirittura 48: un dato -specialmente nella prospettiva ciggiellina- tale da rendere ancor più necessaria la presenza del sindacato nelle fabbriche per contrattare gli organici.
Rivendicazioni di questo tipo –secondo quanto annotato- vedevano ovviamente coinvolta la stessa Lucca, dove l’accordo da poco firmato alla C.C.C. continuava a lasciare aperti profondi strascichi che al momento sembravano impedire un possibile riavvicinamento tra le federazioni sindacali. Ad ogni modo, prima di calarci nuovamente all’interno della fabbrica per analizzarne alcune problematiche di fondo, occorre fornire uno sguardo più chiaro del modo in cui lo stabilimento reagì alla stipulazione del “compromesso”, per poi riservarne un altro agli spostamenti nell’equilibrio di rappresentanza. Il processo evolutivo che andava caratterizzando il piano nazionale, infatti, iniziava anche qui a generare primi, importanti, mutamenti di posizione, che, assumendo la Cantoni ad epicentro, avrebbero favorito la creazione di condizioni utili per una rinnovata unità d’intenti a partire indicativamente del 1967.