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La nascita della grande fabbrica: i primi anni della Cucirini Cantoni tra paternalismo e dissens

I.VII. Il ventennio fascista alla Canton

A partire dal 1921, le relazioni industriali mutano enormemente. Gli operai sono progressivamente costretti alla totale subordinazione padronale, mentre il Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925 decreta la fine delle Commissioni Interne e relega soltanto al sindacato Fascista e a Confindustria la rappresentanza degli interessi sociali ed economici51. Anche la Cucirini Cantoni, così, si vede costretta a sposare la linea di austerità indicata da Mussolini, con conseguenti decurtazioni alle paghe fissate per legge, per contratto o più semplicemente stabilite a pioggia sugli operai nel 1927.

L’8 luglio dello stesso anno viene approvato tra la Confederazione Generale Fascista dell’industria italiana e la Confederazione Nazionale Sindacati Fascisti un concordato espressamente rivolto a tutte quelle ditte che, nell’industria lucchese, esercitano l’industria dei filati cucirini: appena pochi mesi dopo, il 7 dicembre del 1927, subentra anche un accordo supplementare con lo scopo di ridurre lo stipendio dei lavoratori lucchesi del 12,50%. Il regime va così totalizzando ogni aspetto della vita, ed a risentirne sono soprattutto quegli operai che già si trovano costretti a vivere con paghe modestissime. Oltretutto, se gran parte delle maestranze torna ad abbandonare la fabbrica per la campagna, coloro che optano o sono costretti a rimanere vedono rapidamente svanire dalla propria busta una importante somma di denaro, sottratta per il pagamento della tessera partitica, mentre -al contrario- chi si era reso protagonista della marcia su Roma andava prontamente ad ottenere un ulteriore indennizzo per anzianità fascista.

Ad inizio anni Trenta, il regime invita caldamente i dipendenti della Cantoni che non lo avessero ancora fatto ad iscriversi al PNF, mentre le donne sono costrette a recarsi a lavoro indossando una rigorosa tenuta fascista, denominata “sahariana”52

: la dittatura ha oramai raggiunto il controllo totale, e spesso gli operai vengono fatti radunare attorno ad una radio –concessa il più delle volte dai vertici fascisti- per ascoltare i discorsi propagandistici del Duce, così da forgiarne il consenso. Il “fattore violenza”, accompagnato dall’ideologia collaborativa propugnata in nome del supremo benessere delle nazione, inizia però a rendere i lavoratori diffidenti, quando non apertamente ostili, nei confronti delle strutture fasciste: l’inquadramento coatto nello Stato, la negazione del diritto di sciopero, l’abolizione della Commissioni Interne, la crisi del livello confederale e la sconfitta sui fiduciari sono infatti costrizioni sempre più dure da digerire. È il sindacato, in questa circostanza, a scoprirsi invero estremamente debole ed impotente davanti ad

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Nella realtà dei fatti, il sindacato era solo una struttura formale che non recepiva la maggior parte delle richieste sollevate dalle maestranze. La totale fascistizzazione e subordinazione dei sindacati al partito e al governo comportava, infatti, il loro svuotamento non solo politico, ma anche sindacale: si apriva così una stagione di profondo declino per il sindacalismo democratico, che si ritrovò rapidamente confinato nell’unione giuridica delle “associazioni di fatto”.

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imprenditori, PNF e ministero delle corporazioni, schiacciato da una marcata ostilità proveniente dai settori più influenti del regime.

Il Ministero delle corporazioni, intanto, scaglia un primo attacco decisivo, arrogandosi il diritto di mediare conflitti di lavoro e di elaborare contratti collettivi, timoroso del ruolo storico che il sindacato possiede come motore di classe: se ne ha prova empirica durante la grande crisi del ’29, quando la drastica caduta dei prezzi ed il fallimento di molte banche impongono agli imprenditori un netto taglio sui costi di produzione, creando un’impennata della disoccupazione, una drastica decurtazione dei salari ed un pericoloso picco dello sfruttamento lavorativo.

Se i settori sierici e cotonieri vivono momenti di forte difficoltà, viceversa le fibre tessili artificiali quasi non risentono della congiuntura internazionale, e, anzi, avviano una crescita produttiva che coinvolge anche la stessa C.C.C.. Lo stabilimento dell’Acquacalda, infatti, raggiunge proprio nel 1929 il risultato più importante dalla sua fondazione, con un utile in costante crescita: Henderson parcellizza il più possibile la produzione introducendo nuovi prodotti e abbassando notevolmente i prezzi su alcuni articoli, così da salvaguardarne gli sbocchi esteri offrendo agli acquirenti condizioni vantaggiose; una strategia che, al risveglio del mercato nel 1933, si sarebbe rivelata estremamente vincente. La svolta tayloristica che coinvolge l’Italia, ciononostante, segna anche la tendenza all’abbassamento dei livelli di qualifica, mentre nelle fabbriche tessili a divenire sempre più consistente è la presenza di manodopera femminile. Anche alla Cantoni il numero di operaie è nettamente maggioritario: nei primi decenni di vita dell’Azienda le donne vi entrano ragazze, a 12 anni o poco più, lavorando anche 10-12 ore al giorno con turni di notte massacranti53, tanto che la fatica, spesso, risulta superiore alle loro stesse forze.

Mentre il sindacato continua a rivelarsi impossibilitato e incapace di tutelare gli interessi degli operai (rinunciando non solo all’arma del conflitto, ma pure alla lotta per alcuni dei diritti basilari del proletariato industriale)54, nonostante la crescita anche per l’Azienda non tardano a sopraggiungere complicazioni. L’irrigidimento del regime fascista verso gli stranieri presenti in Italia, infatti, travolge prepotentemente la dirigenza Henderson, determinando dal 1934 un progressivo abbandono degli inglesi dal Cda: Henderson ne diventa comunque nuovo presidente, ma il suo ruolo non è più di basilare importanza.

Allo scoppio della guerra, lo scozzese, frastornato e preoccupato, decide così di rifugiarsi nella neutra Svizzera, mentre la Cantoni si afferma a tutti gli effetti come autentico prodotto “made in Italy”: non senza conseguenze però, visto che il regime, accresciuto a dismisura il potere del patronato, lasciava gli operai in miseria, schiacciati dalla svolta autarchica e lacerati da profonde e perduranti divisioni ancora visibili in seguito alla Liberazione, avvenuta il 5 settembre 1944

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Le norme statali in materia di assunzione comportavano delle restrizioni spesso sottaciute, come il saper leggere e scrivere e l’avere almeno 12 anni.

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Va però precisato che il sindacato, proprio a causa di queste difficoltà, conobbe un forte processo di modernizzazione, incentrato sull’acquisizione contrattuale irreversibile e su un lento spostamento dell’attività contrattuale a livello federale. La crisi economica, quindi, oltre a procrastinare un effetto devastante sulle classi sociali più deboli e ad una dilatazione dell’intervento economico statale – individuabile nella nascita, ad esempio, dell’IRI- ebbe i suoi risvolti anche su questo fronte.

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Capitolo II