Dopo l’illusione del miracolo: “la lunga lotta dei tremila della Cucirini ” nell’indimenticabile
III.II. Il 1963 della Cantoni: una cronaca
3. La vertenza portata avanti alla Cantoni fu condotta e portata avanti dalla CGIL con il supporto e la
partecipazione della CISNAL, sindacato di estrema destra. Era questo uno dei molti aspetti che aveva fatto storcere il naso alla CISL provinciale, oltreché una maggiore prudenza nel muovere le fila della vertenza,
198
Ibidem, p.27.
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“Eravamo sempre lì- scrive Malfatti-. Io non dormivo neanche la notte. Il settore lo curava Bianchi. Era un quadro sindacale d’oro; ci lavoravo bene insieme. C’era un confronto fra noi ed a volte non eravamo d’accordo”. In Ibidem, p.25.
200
Ibidem, p.25-6.
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rispecchiando la posizione della sede centrale nazionale : tuttavia, il mancato appoggio alla lotta dei liberini, se da un lato aveva portato ad una perdita di consensi in favore dalla più battagliera CGIL (che pure non conobbe un importante aumento di tesserati all’interno della fabbrica, legato anche alla scarsa sindacalizzazione del periodo), dall’altro non deve essere assolutizzato. Difatti persistevano corpose e marcate differenze tra la CISL di fabbrica e quella locale, tanto che spesso, come ricorda Malfatti, “i dirigenti della prima andavano a litigare con quelli della seconda”.
Si allude ad una situazione molto meno paradossale di quel che si possa credere. Nata da una scissione politica anti-comunista, la CISL ad inizio anni Sessanta era invero un’organizzazione sindacale “nella quale gli operai <<contavano poco>>, soprattutto a paragone con il pubblico impiego (culla del clientelismo), la cui massiccia presenza squilibrava le forze e minava la credibilità stessa della CISL come sindacato industriale”202. Tuttavia, mentre il fervore derivato dall’insegnamento giovanneo (Mater et Magistra) aveva
riscontrato un favorevole spirito di revisione anche in alcuni schieramenti marxisti, la nascita della scuola CISL di Firenze (nel tentativo di correggere lo squilibrio interno alla Confederazione) apriva una nuova strada, dando la precedenza di accesso a quei singoli che “fossero provenuti direttamente dai posti di lavoro, o quanto meno avessero avuto un’esperienza diretta di rapporto di lavoro”203
e rendendo possibile la prospettiva di un sindacalismo più combattivo. Una linea che la CISL luchese aveva messo troppo in disparte durante la vertenza Cantoni, mancando di intuire che, con l’evolvere dei tempi e l’affievolirsi ideologico anche “l’attivista <<bianco>> usciva - soprattutto all’interno della Commissione Interne- dal complesso del <<comunistello di sagrestia>>, o, peggio, del <<servo del padrone>>”, manifestando con naturalezza “al fianco del compagno di lavoro comunista o socialista”: come sottolinea nuovamente Turone, “nelle dimostrazioni sindacali, che non di rado finivano in scontri con la polizia, gli agenti non potevano più fare distinzioni nel ricorrere ai manganelli”204
. Certo è che distinzioni venivano fatte, eccome, a livello occupazionale, e la sospensione degli 11 operai iscritti alla CGIL lo aveva dimostrato.
202 S. Turone, Storia del sindacato in Italia, op.cit., pp.274-75. 203
Ivi. Ancora Turone, nel suo lavoro, tende però a specificare i caratteri della stessa scuola sindacale fiorentina: “Era, dunque, quella di Firenze, una sorta di scuola rivoluzionaria? Tutt’altro, nella sua concezione. E i discorsi degli insegnanti dimostrarono poi, come dirà un sindacalista passato attraverso quell’esperienza, <<tutta la loro inadeguatezza culturale rispetto ai tempi di sviluppo dinamico della società italiana>>. La scuola dava, riconoscerà un altro ex allievo, <<un indottrinamento fondamentalmente interclassista>>; ma c’erano <<germi propulsivi in questa formazione>>, che spingevano i giovani alla ricerca. Era dunque uno strumento di crescita culturale. <<Non dobbiamo dimenticare che, finallora, il dirigente sindacale della CISL era il buon cattolico della parrocchia, il notabile locale, che si calava dall’alto. La scuola di Firenze dà agli operai la possibilità di diventare dirigenti, e la stragrande maggioranza lo diventa dentro la CISL”.
204
Da questa prospettiva ci è possibile apportare una comparazione (seppur viziata da incongruenza che vanno dalla dimensione al livello di industrializzazione) tra Lucca e, ad esempio, una macroarea come quella veneta: è altrettanto opportuno dire, però, che a Lucca parlare di “attivisti” nel 1963 risulta ancora precoce, vista la scarsa estensione del sindacato. Ivi. Un ruolo molto importante, per quanto riguardava il rivendicazionismo cattolico, stavano inoltre iniziando ad assumerlo le ACLI lucchesi, che da lì a poco avrebbero manifestato –anche nazionalmente- decisi caratteri di lotta.
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Parlare di ciggiellini nella Lucca degli anni Sessanta, tuttavia, non significava farlo esclusivamente in riferimento ai quadri comunisti: se -come affermava Malfatti- i rapporti tra le due componenti interne alla Camera del Lavoro provinciale erano “molto buoni”, ciò derivava dal fatto che, dal punto di vista sindacale, la nascita del governo di centro-sinistra a livello nazionale non aveva comportato provincialmente un’uscita dei militanti dagli organi sindacali. Questo sia perché, secondo quanto sosteneva Lama nella sua intervista, “il quadro sindacale socialista era distinto dal socialista <<politico>>”205, sia perché, citando Macchiarini, “la
UIL in una provincia come la nostra è sempre stata debole ed in mano ai repubblicani”. Così proseguiva la sua disamina:
Nella CGIL lucchese si è avuta anche la presenza dei cristiano-sociali e per un certo tempo sono stati presenti nel direttivo e anche nell’esecutivo della Camera del Lavoro. […] La gran parte dei compagni socialisti si è sempre organizzata nella CGIL, soprattutto in Versilia, ma anche a Lucca […]. Sai, i contrasti erano all’ordine del giorno, e contrasti politici avvenivano soprattutto quando c’era da proporre un segretario in questa o quella categoria. […] Ma come socialisti avevamo delle presenza anche molto qualificate. Siamo sempre stati presenti nei tessili, anche a livello di segreteria, nei metalmeccanici, nei settori dello Stato e del Parastato.
A supporto di questa solida sinergia pergiunge anche un ulteriore ricordo lasciatoci da Malfatti, che definiva i sindacalisti socialisti “su una linea corretta”. Continuava: “era facile intendersi con persone come il Macchiarini, il Lazzareschi. Non c’è mai stato da difendere le posizioni del partito, tutt’al più era difesa d’ufficio. Anzi, qualche volta, nell’assumere qualche decisione, poteva accadere che si collocassero anche più a sinistra di noi comunisti. C’erano anche rapporti sul piano personale, erano di grossa amicizia. Non c’è mai stato un litigio”. Ovviamente, all’aspetto puramente rappresentativo, si affiancava anche una decisa influenza proveniente dal fronte politico. Prima di tirare una possibile conclusione sul “ ’63 alla Cantoni”, occorre accostarci allora a quest’ultimo aspetto con la consapevolezza di potervi rintracciare alcuni spunti interessanti per interpretare con più chiarezza la vicenda dell’Acquacalda.
Un taglio politico. Non esiste un’eccezionalità da attribuire alla vertenza Cantoni proveniente dalle
“modalità di azione” partitiche, o meglio: possiamo certamente vedere come un determinato contesto politico abbia influenzato talune dinamiche sindacali interne allo stabilimento, senza però pretendere di metterne in evidenza una singolarità rispetto a quello che era il contesto di zona e -su altri livelli- nazionale.
Partiamo dal piano più alto, nel dettaglio dal gennaio 1962, quando Fanfani aveva ottenuto il beneplacito dal Congresso democristiano di Napoli per il varo della formula del centro-sinistra, costituendo poi in febbraio il primo governo votato anche dai socialisti – per il momento solo esternamente- con un programma di riforme che comprendeva anche la nazionalizzazione delle fonti dell’energia elettrica. Secondo quanto sostenuto da Turone, in questo rinnovato clima politico, “l’ipotesi di una programmazione che godeva di
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maggior credito in Italia era un’ipotesi socialmente assai più avanzata rispetto alle teorizzazioni comunitarie”, decifrando da questo punto di vista il grande entusiasmo degli ambienti imprenditoriali italiani n risposta alle proposte di programmazione europea, viste come “l’ancora di salvezza da una paventata programmazione nazionale italiana”206
. Da questa prospettiva, i primi cinque anni di MEC segnarono un netto miglioramento nell’economia italiana (e di conseguenza in quella lucchese), agevolando la possibilità di proiettare la qualità delle proprie manifatture artigianali su di una piattaforma più ampia e remunerativa come quella continentale. Ciononostante, se l’aumento della produttività proseguì comunque regolarmente, alla stessa stregua - anzi accentuandosi- avanzò la tendenza divaricante fra rendimento e salari. Il settore tessile risultò uno dei più colpiti, nel mentre che le sperequazioni del boom economico non trovavano affatto attenuazione nel filtro dei rapporti europei, assumendo anzi una dimensione esasperata e sfociando nella maggior parte dei casi in “concentrazioni di capitali attraverso un crescente intrecciarsi di accordi internazionali stipulati in una logica di controlli monopolistici”207
.
In direzione contraria si muoveva la programmazione del Partito Comunista, specialmente di fronte ad un mondo imprenditoriale che sembrava ormai coalizzarsi a tutti i livelli. Impegnata in una delicata fase di politica internazionale, la fase finale della parabola togliattiana vedeva un partito necessariamente costretto a spinte contraddittorie, condizionate dal parallelo sforzo di trasformazione del sistema: ad ogni modo, mentre ad esempio nel milanese si discuteva sul netto rifiuto delle posizioni anarcosindacaliste -giudicate superate ormai da tempo- aprendo di seguito alla collaborazione con le forze non marxiste, al contempo veniva universalmente riconosciuto un preoccupante e crescente distacco fra le lotte operaie e quelle politico- parlamentari. Era da questo dato che si dovevano riprendere le mosse “per rilanciare la necessità di un impegno sindacale idoneo a mobilitare le masse, in una tematica unitaria, su obiettivi rivendicativi non soltanto immediati, ma di sviluppo democratico generale”. Turone, nella sua pionieristica Storia del
sindacato in Italia, riferisce:
L’impulso […] che questi contributi avrebbero potuto dare al discorso del rinnovamento sindacale finì col disperdersi nelle polemiche suscitate da una frase di Togliatti: <<L’azione sindacale non è tutto. Impegnatevi pure nell’azione sindacale>>, disse […] ai delegati, ma <<non dimenticate che, oltre alla conquista di migliori salari, vi sono altri obiettivi, e che questi obiettivi solo il partito ha l’incarico di ricordarveli, ed al partito dovete guardare, in qualsiasi azione, in qualsiasi conquista siate impegnati”.208
Quello del segretario del PCI era un richiamo legittimo “all’esigenza di non spoliticizzare l’impegno sindacale”, ma, formulato in termini così decisi ed esclusivi, si prestava piuttosto ad essere “sottolineato
206
Cfr. Amedeo Grano, Mercato comune e movimento operaio, Editrice sindacale italiana, Roma, 1963, p.34. Si veda anche S. Turone, Storia del sindacato in Italia, op.cit., p. 279.
207
S. Turone, Storia del sindacato in Italia, op.cit., pp. 280-1.
208
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strumentalmente come una riprova della volontà del PCI di utilizzare a proprio vantaggio i fermenti unitari del mondo sindacale”209
.
Da questo punto di vista, una Federazione debole come quella lucchese non poteva prescindere dalla necessità di legarsi strettamente ai soggetti più influenti nella CGIL locale per radicare la propria presenza sul territorio. Certo, era lo stesso partito a fornire i quadri al sindacato; di seguito, però, erano coloro che più si segnalavano per capacità e risultati a trovarsi candidati nelle liste elettorali di circoscrizione: esemplificativo ci appare il caso di Francesco Malfatti, che proprio grazie alla riuscita della lotta alla Cantoni e al seguito ottenuto tra le forze operaie venne eletto parlamentare nelle fila comuniste della circoscrizione di Livorno, Pisa, Lucca e Massa-Carrara.
Nonostante il formarsi di piccole crepe dovute all’iniziale indebolimento della <<cinghia>> ( e se ne erano create anche tra Dardini e lo stesso Malfatti), oltretutto il Partito Comunista aveva comunque cercato di restare ancorato in ogni modo all’evolvere della vertenza, e lo aveva fatto non solo tramite la mediazione dei consiglieri comunali e provinciali, ma anche e soprattutto a livello nazionale, dove quella della Cantoni era ormai divenuta una lotta di primaria importanza sulle pagine de “l’Unità” e oggetto di discussione parlamentare anche grazie all’impegno profuso dall’ex segretario ciggiellino lucchese.
Ovviamente, a più chiari fini di proselitismo, si affiancava infine l’esigenza di attribuire i soprusi e le difficoltà di fabbrica all’operato della predominante DC locale. La vertenza della Cucirini Coats assumeva in questo senso le forme di epitome rivendicativa di fronte a quello che veniva definito dalla stampa comunista “il pesante dominio democristiano sulla Lucchesia, […], puntello della conservazione sociale nella zona (sotto De Gasperi come sotto Fanfani)”, intaccando non solo numerosi retaggi subculturali persistenti a livello cetuale e politico, quanto “lo strapotere padronale” della stessa Cantoni. Scriveva, Aris Accornero:
Si è resistito ad oltranza, favoriti dall’involuzione politica in atto, che dovrebbe abortivamente generare un centro-sinistra “anticongiunturale” come lo intendono Colombo o Moro. Ma gli operai hanno battuto l’oltranzismo pilota, hanno vinto il loro padrone invincibile e guardano ora al contratto per solide conquiste dopo avere con la lotta contestato e scosso tutto un antidemocratico equilibrio sociale: la dittatura a piramide dei pochi su molti.210
La lotta, ancora una volta, veniva presentata come “schiacciata” tra le restrizioni locali e l’arrancare delle manovre politiche governative per rifuggire alle problematiche emerse in seguito al risveglio post “miracolo”. Ad ogni modo, al di là dei passi in avanti -pur non sensazionali- che l’alleanza tra cattolici e socialisti fece compiere al paese sulla via di una già tardiva politica riformista, il governo di centro-sinistra e la scissione socialproletaria non generarono a Lucca quella netta incidenza sulla CGIL che -a livello centrale-
209
Ivi.
210
“l’Unità”, 31/10/1963, A Lucca oltranzismo-pilota, di Aris Accornero. L’aver “vinto il padrone”, nell’interpretazione di Accornero, non forniva un quadro positivo del risultato della vertenza in termini di concessioni, quanto piuttosto nella prospettiva di maturazione e presa di coscienza delle maestranze.
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portò sostanzialmente ad una rottura tra la componente comunista e quella socialista211. Invero, a giocare da protagonista era anche la “reticenza” (se così possiamo chiamarla) della Democrazia Cristiana comunale e provinciale nel fornire un’apertura al fronte socialista, nonostante le posizioni dichiaratamente fanfaniane e la volontà della sfera socialista-moderata di confluire, almeno a livello politico, in un’amministrazione di centro-sinistra.
Per evitare di ribattere nuovamente su aspetti già affrontati in questo lavoro o di intraprendere strade che ne esulano, tuttavia, non resta che concludere ponendoci la domanda più scontata, ma al contempo più difficile: cosa aveva lasciato in eredità il 1963 della Cantoni?
Una questione di lascito: civile, sindacale e politico.
Non sarei stato nulla senza la gente della Cantoni dietro. La lotta finì con un compromesso, praticamente alla pari; ma rimaneva tutta la grossa esperienza fatta. Se un giorno uno studente volesse fare una tesi di laurea sul movimento operaio lucchese dovrebbe considerare quella lotta come un momento di rottura, un momento dal quale poi cambia qualcosa, nella società lucchese.212
C’è tutto dentro questa affermazione di Francesco Malfatti: l’importanza individuale e collettiva della lotta, la spinta sindacale e politica che questa era riuscita a dare, la scossa ad un sistema culturalmente secolarizzato in proiezione di un cambiamento non vagamente auspicato, ma constatato dal privilegiato punto di vista del retrospettivo. Cosa restava, però, nell’autunno del 1963 di questa lunga vertenza? Con quale spirito critico poteva essere esaminata una battaglia “appena conclusa con i tremila operaie e operaie tornati a lavoro? Cosa aveva rappresentato e quali insegnamenti ne derivavano per la futura classe operaia lucchese?”, si interrogava al contempo Liborio Guccione sulle pagine de “l’Unità”213
.
Osservando prima di tutto la vicenda da una prospettiva sociale, la questione della Cantoni non aveva certo assunto le modalità decise ed infervorate di Prato ( in sostegno delle quali si era mossa tutta la città)
211 I quadri socialisti della CGIL, a livello nazionale, subirono perdite superiori al 60% e, in alcuni casi, raggiunsero il 75-80%.
Scrive Turone: “ridotta ad una minoranza esigua, la corrente avrebbe potuto cedere alle lusinghe del <<sindacato socialista>> ed ai richiami provenienti dalla UIL. Invece tenne la posizione, agevolata dalla maggioranza comunista, che aveva sì posto una pregiudiziale favorevole allo scioglimento delle correnti politiche nella Confederazione, ma rifletteva l’ovvio interesse del PCI a non perdere l’importante aggancio sindacale con il PSI. Prevalse dunque il criterio di ridurre gli effetti della scissione con un dosato compromesso.[…] i posti di responsabilità nella CGIL furono divisi tra le tre correnti su questa base aritmetica: il 57,2% ai comunisti, il 28% ai socialisti, il 14,8% ai socialproletari”. In S. Turone, Storia del sindacato in Italia, op.cit., p. 296. Per quel che riguarda il contesto preso in esame, Mario Macchiarini raccontava: “Qui a Lucca (dentro il Partito Socialista) c’è sempre stato un rapporto buono. Spesso c’erano delle sofferenze, derivate anche da altri problemi, ma il rapporto tra i socialisti e i socialisti nella CGIL è sempre stato ottimo ed anche fattivo. Per esempio con contributi di idee e nel sostegno delle lotte. In Giovanni Lencioni, Luciano Franchi, 40 anni di storia della CGIL, op.cit., p.36, intervista a Mario Macchiarini.
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Ibidem, p.19. Intervista a Francesco Malfatti.
213
Cfr. “l’Unità”, 3/11/1963, Mister Ruffel esce sconfitto alla Cucirini, di Liborio Guccione. Il Professor Luciano Luciani ricorda il giornalista siciliano come un giornalisti di razza, “di quelli con il sangue agli occhi”.
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raccontate sulle pagine de “l’Unità” da Oreste Marcelli; tuttavia era comunque riuscita a creare un’iniziale frattura nella struttura “sociale” della fabbrica, cogliendo un risultato che si collocava “al di sopra delle trentamila lire”214
.Precisiamo. Risulta estremamente azzardato parlare in termini sostanzialmente “controculturali” di una pagina di storia locale che aveva visto la cittadinanza titubante, talvolta partecipe (come dimostravano gli aiuti provenienti dalla campagna, le saracinesche abbassate e le discussioni in Consiglio comunale)215, ma mai portatrice di un sostegno definito, maturo, se non piuttosto legato agli scioperi da moventi prettamente economici216: quella del 1963, come l’avrebbe definita Riccardo Fratino, “fu la <<lotta della fabbrica>>, una lotta senza la quale sarebbe stato impossibile far assumere a quella del 1969 i connotati di <<lotta cittadina, di tutti>>”217
. Oltretutto, malgrado la perdita della maggioranza assoluta nelle elezioni del 1963, Lucca e l’intera Lucchesia restavano ancora fortemente ancorate alla causa democristiana218, in particolar modo grazie all’intensa attività propagandista che la fitta rete parrocchiale diffusa nelle campagne portava avanti tramite il lavoro di preti “politicizzati”, capaci di esercitare ancora una notevole influenza sul sentire comune e civile, e alla natura del tessuto civile cittadino, composto per gran parte da banchieri, imprenditori, artigiani e liberi professionisti: “si pensi che, durante la vertenza del 1963, nelle parrocchie venivano fatte con la CISL delle assemblee dichiaratamente contro lo sciopero”, sottolinea Pieruccini219.
Purtuttavia, l’impatto con l’ambiente di fabbrica aveva inevitabilmente comportato un mutamento percettivo della realtà anche per coloro che nella campagna continuavano a risiedere ed esercitare attività. Così, mentre in cabina elettorale il voto restava in gran parte scontato, in fabbrica la vicinanza alla causa
214
Ivi.
215
Lo stesso Guccione parlava eufemisticamente di “unità e solidarietà di tutti gli strati sociali Lucchesi”. In Ivi
216
Malfatti, nel 2006, ripeteva ancora che con la vertenza Cantoni del 1963, le maestrane ed il sindacato “erano riusciti ad egemonizzare l’intera città”. Subentra pertanto uno scontro di percezione già evidenziato: da un lato, la diversa interpretazione che Fratino e Pieruccini danno riguardo alla partecipazione cittadina alla lotta può risultare viziata dallo straordinario carattere collettivo che la lotta del 1969 raggiunse; dall’altro, allo stesso modo possiamo ipotizzare che Malfatti, mancando nella storia lucchese una battaglia altrettanto importante come quella che egli giudò alla Cantoni nel ’63 (non prese parte a quella del 1969), parlasse in termini così euforici di quel che stava accadendo perché munito del solo paragone con gli sterili anni precedenti. Proprio durante il Convegno( Il filo rosso della memoria, 2006), riferiva: “la lotta durò mesi, avevamo egemonizzato la città, eravamo riusciti a far entrare nella zucca dei commercianti lucchesi che quelle cento lire, se le strappavano, andavano a finire nelle loro cassette perché la gente aumentava il consumo di casa”.
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Intervista a Paolo Barsocchi, Riccardo Fratino e Venanzio Pieruccini tenutasi presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Lucca, 7/1/2015.
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Si prenda a riferimento il caso della città di Lucca. Nelle elezioni provinciali del 1964, a dispetto di una crescita di quasi 2 punti