La nascita della grande fabbrica: i primi anni della Cucirini Cantoni tra paternalismo e dissens
I.III. Operai e organizzazione: un primo bilancio
Delineato rapidamente un sostanziale quadro della situazione, si presenta già adesso la necessità di tirare una pur precoce somma sul contesto sociale e lavorativo con cui ci troviamo ad avere a che fare. Come abbiamo visto, una sontuosa parte della forza lavoro era impegnata nel settore agricolo, dove i problemi di uno strato sociale mezzadrile con caratteristiche “affittuarie” non potevano indentificarsi con quelli che avrebbero mobilitato i partecipanti alle lotte del primo dopoguerra. Il possesso della terra, più che il miglioramento dei patti colonici, diventava così l’aspirazione maggiormente sentita, creando una convergenza di interessi con l’altra figura sociale presente in queste campagne e in forte espansione nel decennio 1911-1921: quella dei piccoli proprietari coltivatori. Come scrive Paola Consolani,
nonostante la parziale attendibilità dei dati censuari, più volte rilevata, l’entità del fenomeno messo in luce dal confronto 1911-1921 è indicativo di un’innegabile tendenza al rafforzamento della piccola proprietà coltivatrice, all’accesso alla quale contribuiscono in maniera determinante le rimesse degli emigrati. La relativa prosperità dei mezzadri e dei piccoli proprietari della fertile pianura lucchese fa di costoro dei tenaci oppositori di qualsiasi ideologia <<sovvertitrice>>, né ci si può attendere un atteggiamento diverso dai contadini della Garfagnana, anch’essi in gran parte piccoli proprietari, costretti da un’economia basata sulla mera sussistenza a un rapporto di totale dipendenza e di passività verso i ceti localmente dominanti. D’altra parte neppure il tipo di sviluppo industriale che […] interessa la provincia è tale da comportare sconvolgimenti in una compagine sociale stratificatasi nel
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tempo. La scomposizione per categorie degli operai industriali dà, nel caso di Lucca, risultati singolarmente simili a quelli scaturiti a livello regionale; ciò tanto nel 1911 quanto nel 1921.11
La stretta convergenza tra fabbrica e terra, dunque, dal punto di vista lavorativo era da ricollegarsi soprattutto ad un immobilismo atavico che, da quanto sopra già analizzato, non aveva certo favorito la formazione di una classe operaia coscienziosa delle proprie possibilità. Davanti ad una simile affermazione, sorge spontanea una prima, naturale, domanda: perché?
Ad un quesito del genere possiamo tentare di rispondere battendo per più vie, la prima delle quali concerne un punto di vista politico. A Lucca, come noto, vi era una netta prevalenza di forze conservatrici clerico- moderate, capaci di sovrastare nettamente un partito socialista alle prese con importanti mutamenti al suo interno: quelle del 1912 erano elezioni che giungevano all’indomani del Congresso del PSI di Reggio Emilia, tenutosi dal 7 al 12 luglio, nel quale la linea riformista si era ritrovata superata da quella rivoluzionaria portata avanti da Benito Mussolini, con il risultato che alcuni degli sconfitti, i così detti “riformisti di destra”, erano stati espulsi, dando conseguentemente vita ad un nuovo soggetto politico, il Partito Socialista Riformista Italiano. Fu una svolta, quella rivoluzionaria, che accrebbe la diffidenza dei lucchesi nei confronti della proposta politica portata avanti dal partito, e i risultati dell’appuntamento elettorale ne furono un chiaro sentore: i liberali ebbero infatti 48 candidati eletti, i clericali 12, il PSI nessuno, mentre repubblicani e radicali non proposero proprie liste.
Ancora più importanti, malgrado ciò, furono le elezioni del 1913, le prime a svolgersi con suffragio universale maschile, e che –soprattutto- secondo quanto riferitoci da Alberigi, “vedevano la nascita del cosiddetto <<Patto Gentiloni>>: in virtù di esso, come è noto, le sezioni periferiche dell’Unione elettorale cattolica italiana avrebbero fornito il proprio supporto a quei candidati che avessero dichiarato formalmente per iscritto o nel proprio pubblico programma l’accettazione dell’Eptalogo predisposto dal conte Gentiloni e contenente le richieste del mondo cattolico”12
. Così, se in Toscana il suddetto Patto, che sanciva il definitivo abbandono dell’anticlericalismo da parte della classe politica liberale, aveva comportato un declino del liberalismo non aderente all’accordo con i cattolici in contrapposizione ad una netta affermazione dei “gentiloniani” (18 seggi su 26 candidati) e ad una buona crescita del PSI, a Lucca, almeno per quanto attiene il rafforzamento socialista, non si verificò niente di simile: come annota Baldanzi, per l’appunto, in Lucchesia “liberali e clericali non costituirono altro che due fazioni, in buona parte intercambiabili, di un unico immobile scenario che si snodava dalla fine del periodo risorgimentale all’inizio della grande guerra”13
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Consolani, Dozza, Gilardenghi, Gozzini, La formazione del partito comunista in Toscana, op.cit., pp. 68-69.
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Enrico Alberigi, Partito Popolare e movimento sindacale cattolico a Lucca, op.cit.
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Cfr. P.Bladanzi, Alle origini del fascismo lucchese. Uomini e vicende 1914-1920, in “Documenti e Studi”, n.6-7, 1987, p.11. Le elezioni premiarono in modo consistente i liberalclericali (con tre candidati gentiloniani eletti), in un clima che, almeno a Lucca, fu segnato da continue accuse e da un campagna aspra, macchiata da duri attacchi e da una massiccia pratica clientelare.
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A pesare, senza ombra di dubbio, erano poi anche i forti limiti di un Partito Socialista intriso di gradualismo e positivismo, i cui principali esponenti, di estrazione piccolo-borghese, abbracciavano convintamente la linea turatiana. Riporta, Francesco Grassi:
lo sbocco politico di queste premesse socioculturali è, inevitabilmente, l’elaborazione di una strategia che non solo confina nell’angusto perimetro delle istituzioni democratiche la dinamica della lotta di classe, ma che, soprattutto, attribuisce alle organizzazioni del movimento operaio una mortificante funzione di mediazione nei conflitti tra capitale e lavoro, in un virtuale ruolo super partes che finisce per lasciare privo di guida sicura, in periodi di lotta, il proletariato, deprimendone la combattività.14
Una seconda pista interpretativa ci porta invece ad analizzare quel contesto economico nel quale, ad uno sviluppo industriale limitato ai settori tradizionali (il tessile su tutti), si affiancava, come abbiamo già evidenziato, una struttura prevalentemente agricola contraddistinta da un’accentuata parcellizzazione fondiaria. Seppur brevemente, risulta però più utile adottare, adesso, una terza ed ultima linea di lettura, di matrice più spiccatamente sociale.
La classe operaia che si trova a lavorare negli stabilimenti lucchesi, infatti, si presentava -soprattutto alla Cantoni- come scarsamente qualificata, strettamente legata all’ambiente di campagna dal quale proveniva e nel quale poteva essere facilmente riassorbita nei periodi di crisi economica15: le conseguenze principali di una così rigida struttura investivano processi di atomizzazione della manodopera, privandola di momenti di aggregazione che avrebbero certamente contribuito a creare una coscienza di classe più solida, costretta invece a persistere in rigidi “scompartimenti”. Tutto ciò rendeva la forza lavoro maggiormente sfruttabile da parte del padronato, favorendo processi di mutualismo promossi dalle istituzioni di beneficienza e mantenendo in vita, come già visto nel caso dei “cucirini”, una rigida forma di paternalismo imprenditoriale.
Le stesse Società di mutuo soccorso, nate alla fine del XIX secolo, si erano rivelate incapaci di coordinare gli scioperi, finendo spesso col riscuotere il favore degli stessi datori di lavoro16 nella continua ricerca di una mediazione; sorte migliore, poi, non avevano avuto le Leghe di resistenza, venute alla luce come contraltare
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Francesco Grassi, introduzione a La nascita della Camera del Lavoro di Lucca. Aprile 1906. Prodromi e percorso fino al 1922, in “Storia e futuro”, rivista di storia storiografia, n.15, novembre 2007. Scrive Emmanuel Pesi: “nell’interpretare il rapporto tra partito e classe operaia, erano […] portati a riassumere nell’azione politica all’interno delle istituzioni liberali tutte le problematiche relative ai rapporti di classe e alla stessa organizzazione sindacale. Insistere sull’apatia e l’immaturità della classe operaia lucchese contribuiva a legittimare il ruolo di una classe dirigente intellettuale, esterna alla massa operaia, non radicata nelle concrete lotte dei lavoratori, che si poneva come coscienza chiarificatrice del proletariato e che, tuttavia, tendeva a far coincidere tale processo di indirizzo politico ed ideologico con un’assimilazione all’idea e agli schemi politici del riformismo socialista”.
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Nelle campagne, per l’appunto, l’assenza del dominio della grande proprietà aristocratica e la notevole diffusione della piccola proprietà, se da un lato causavano una maggiore staticità, letta in termini di ritardo innovativo, dall’altro garantivano una maggiore flessibilità di fronte alla crisi dello sviluppo economico e sociale.
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Basti pensare che la Società Operaia aveva come presidente onorario Umberto I ed annoverava tra le proprie file il Prefetto della città.
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“duro” delle stesse Società di mutuo soccorso e ben presto trovatesi a rivestire un ruolo piuttosto marginale, rivolto alla concessione di sussidi di malattia, alla costituzione di cooperative e incapaci di spogliarsi delle proprie intrinseche pulsioni corporative. Dal punto di vista sindacale, invece, gli unici che si erano dimostrati in grado di promuovere una piattaforma rivendicativa in materia di salari, orari e organizzazione del lavoro di fabbrica si erano trovati ben presto ostacolati dalla politica autoritaria promossa dai padroni (almeno fino alla svolta liberale giolittiana), senza peraltro essere in grado di unificare neanche il frammentato mondo agricolo.
Sorgeva oltretutto un ulteriore problema, riferibile ad uno degli aspetti fondamentali del panorama industriale lucchese, ovvero quello della forte presenza di manodopera femminile: le donne, netta maggioranza della forza lavoro alla Cantoni, così come negli opifici e nelle manifatture, erano invero strettamente legate alla morale cattolica e pesantemente sfruttate da un sistema privo di tutele nel quale, soprattutto dal punto di vista delle assunzioni minorili, si contravveniva ancora troppo spesso alla legge. Paghe risibili, nettamente inferiori a quelle degli uomini, venivano accompagnate poi da una possibilità di carriera pressoché nulla e da condizioni igieniche ai limiti del sostenibile, nodi che sarebbero passati al centro dell’attenzione nell’immediato primo dopoguerra per poi esplodere prepotentemente in età repubblicana.
È una situazione che non cambia neanche quando, il 23 aprile 1906, viene fondata la Camera del Lavoro, dotata dall’anno successivo anche di un proprio organo di stampa, “La Sementa”17
, e diretta da Alfonso Frediani. La linea che il nuovo organo sceglie di abbracciare, di fatto, persevera un tentativo di mediazione tra le varie forze, tentando al contempo di favorire un processo di sindacalizzazione delle maestranze attraverso la creazione di Leghe di resistenza: nonostante l’orientamento riformista, si decide anche di evitare l’adesione alla Cgdl al solo scopo di non dare l’impressione di volersi alienare le simpatie di quella componente operaia di matrice radicale contrassegnata da una forte diffidenza nei confronti della Confederazione, marcata invero da netti tratti turatiani. Ogni tentativo, ciononostante, si rivela un fallimento18: oltre a non riuscire ad uniformare il disomogeneo panorama operaio lucchese, la Camera fallì anche nell’organizzare scioperi e azioni sindacali comuni, virando poi drasticamente rotta nel 1913, quando
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Nata con l’intento di dare al partito un unico centro organizzativo, in modo da arginare le spinte centrifughe, era stata sostituita dal 1905 al 1907 da “Il Risveglio” di Pescia (che avrebbe continuato ad esistere con un ruolo di primaria importanza in Valdinevole) e controbilanciata, sul fronte democratico-cristiano, da “La Squilla”, periodico adottato dall’ala progressista del cattolicesimo lucchese, molto vicino alle vicende del proletariato cittadino.
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Scrive, Umberto Sereni: “Agli inizi del secolo, un solido blocco, che unificava la antica oligarchia fondiaria con la nuova “classe” dei capitani dell’industria, giunti dal Nord e dall’estero, si ramificava nella consistente schiera di chi prosperava sulle professioni e sui commerci, e deteneva tutte le leve del potere della città e della provincia. Il blocco dominante traeva buona parte della sua ragion d’essere dalla assoluta fedeltà, professata e praticata, ai potenti centri ecclesiastici, i quali, carichi di immenso prestigio acquisito tra i ceti popolari della campagna e della stessa città con un’opera secolare di carità e assistenza, irrobustita da una fitta rete associativa diffusa in ogni paese con la partecipazione dei fedeli, gli garantivano quel consenso di massa che invece mancava alle formazioni politiche e sindacali che si richiamavano al movimento operaio e democratico”, in Cfr. U. Sereni, Il
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l’incombere di difficoltà economiche ed una più rigida disposizione padronale fecero pendere l’ago della bilancia verso la parte sindacalista rivoluzionaria, alla cui guida si era issato il ferroviere Massimo Lugli.