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Formar(si) per innovare: il Circolo di Studio e il Teatro in azienda

Metodologie partecipative per la formazione in azienda, di Giovanna Del Gobbo

1. Formar(si) per innovare: il Circolo di Studio e il Teatro in azienda

Per comprendere la necessità di porre attenzione alle metodologie partecipative nei luoghi di lavoro è opportuno considerare come la formazione proprio nei luoghi di lavoro sia necessariamente correlata alla necessità di innovazione. Il problema dell’innovazione nei contesti di produzione non riguarda solo le relazioni tra impresa e ricerca, nel senso che non riguarda solo le possibilità di applicazione nell’impresa di soluzioni innovative individuate e modellizzate in contesti esterni, ma è direttamente collegato alle capacità di apprendimento dell’impresa stessa, capacità espressa attraverso le opportunità formative offerte ai dipendenti per valorizzare e sviluppare il capitale conoscitivo che questi esprimono attraverso i propri saperi, nei vari settori e livelli di produzione. Il concetto di capitale conoscitivo o capitale culturale127, ovvero «quell’insieme di competenza, capacità di pensare, affrontare problemi, prendere decisioni, comunicare con il prossimo, possedere intelligenza operativa e emotiva»128 ha del resto modificato il concetto stesso di forza-lavoro, ponendo l’accento sulla risorsa umana per ingenerare sviluppo endogeno in termini di creatività e innovazione.

Considerare che le risorse umane sono strategiche per lo sviluppo significa investire sulla loro professionalità, consentendone l’implementazione attraverso la formazione continua e creando le condizioni affinché la crescita di conoscenze e competenze determini il dinamismo e la trasformazione continua del sistema produttivo. Questo significa che tutte le risorse devono poter essere considerate fonte di apprendimento e di innovazione . In una prospettiva di learning organization intesa in termini di «”mente relazionale” collettiva, ove tutti/e ascoltano tutti/e e da tutti/e apprendono […] soltanto lavoratori e lavoratrici sempre più partecipi alle scelte, anche formative – anche a loro stessi/e indirizzate – delle organizzazioni potranno, oltre

127

M. Guareschi, Capitale culturale, in A. Zanini, U. Fedini, Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 273-278.

128

S. Cerrai, S. Beccastrini, Continuando a cambiare. Pratiche riflessive per generare e valorizzare le competenze nelle organizzazioni, Firenze, ARPAT, 2005, p. 135.

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che apprendere a realizzare meglio le scelte strategiche dell’organizzazione stessa, aiutarla – con

le loro capacitate competenze anche critico-partecipative ─ a controllare la qualità complessiva di quelle scelte, a valutarne gli impatti sociali, a rivederle assieme, se necessario »129.

In tal senso la formazione in azienda deve far leva in primis non su “contenuti” o saperi da introdurre dall’esterno, ma sulle competenze esistenti e sulla valorizzazione della risorsa umana rispetto all’expertise maturata. Senza l’adeguata relazione tra saperi esistenti e nuovo saperi, anche contenuti che presentano un alto potere risolutivo di problemi possono non essere accolti e trasferiti nei processi in corso, ma percepiti come estranei a modi di procedere ormai consolidati e rassicuranti o poco pertinenti rispetto ai livelli di trasformazione sostenibili dal sistema. L’innovazione non è correlata dunque a processi formativi fondati sulla trasmissione di soluzioni “migliorative” per la soluzione di problemi, quanto sulla creazione partecipata e diffusa di nuove soluzioni, fondate sul capitale culturale esistente e sul potenziale formativo che questo esprime e che lo mette comunque in grado di dialogare con saperi esterni130.

Certamente la valorizzazione delle conoscenze acquisite per una loro implementazione funzionale all’individuazione di soluzioni innovative ai problemi lavorativi (sia di ordine tecnico che di ordine organizzativo), significa passare da una prospettiva di semplice “patrimonializzazione” ad una di reale apprendimento diffuso, fondata sul coinvolgimento diretto e l’inclusione di tutti i learners in quanto potenzialmente in grado di produrre innovazione. Questo comporta anche la considerazione di un altro aspetto: l’innovazione si produce e deve essere considerata nel quadro di un ecosistema educativo nel quale diventano importanti i singoli elementi (conduttori, partecipanti, contenuti/saperi, setting, ..), ma soprattutto le relazioni funzionali che si instaurano tra gli elementi stessi: «the economy and sociology of innovation, just like economic geography, underline the role of spatial/geographic proximity in the spreading of knowledge, especially where tacit knowledge and innovation are concerned. This proximity, which is also cultural, institutional and inter-personal encourages the interactions and exchange of skills and knowledge between individuals, firms and other local players. Innovation is stimulated by a re-combination of the different based of knowledge, in a process of reciprocal learning»131. È da considerare la possibilità che tale prossimità possa

essere ricreata attraverso spazi laboratoriali con valenza formativa.

Questa impostazione richiede pertanto di porre attenzione alla scelta di dispositivi formativi132 adeguati a garantire la coerenza rispetto ai due aspetti fondamentali:

1. la centralità dell’apprendimento: partendo dalla valorizzazione dei saperi dei soggetti coinvolti per arrivare alla co-costruzione di nuove conoscenze e competenze diffuse, in grado di produrre innovazione;

2. il protagonismo e la com-partecipazione/corresposabilizzazione dei learners in tutte le fasi del processo.

Si tratta dunque di problemi di selezione e impostazione che attengono non ai contenuti della formazione, ma direttamente alle metodologie didattiche e richiedono, pertanto, di essere gestiti con un’attenzione pedagogica ai processi di costruzione della conoscenza in grado di coniugare la dimensione teorica e le conseguenti scelte metodologiche con metodi e tecniche

129

Ivi, p.139. 130

Interessanti a tal proposito alcuni casi riportati in R. Sennet, L’uomo, artigianoFeltrinelli, Milano, 2009. 131

M.L. Maciel, S. Abagli, Informação e desonvolvimento: conhecimento, inovação e apropriação social, UNESCO Office Brasilia, Instituto brasileiro de Informação em Ciência e Tecnologia, Brasilai, UNESCO, 2007 (http://www.liinc.ufrj.br ).

132

Non si entra, per ragioni di pertinenza rispetto all'oggetto del presente contributo, nel merito del concetto foucaultiano di “dispositivo” , né nella sua introduzione in ambito pedagogico (Cfr. R. Massa, Educare o istruire? La fine della pedagogia nella cultura contemporanea, Unicopli, Milano 1990; R. Massa, Cambiare la scuola, Laterza, Roma - Bari 1998).

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coerenti di lavoro. La centralità dell’apprendimento non significa trascurare i contenuti, ma richiede che questi siano trattati favorendo la relazione tra saperi pregressi individuali e di contesto e nuovi saperi. Così l’esigenza di lavorare sulla relazione interpersonale per consentire lo scambio dei saperi e la co-costruzione di nuovi significati e ipotesi trasformative, non significa che il contenuto della formazione siano le relazioni interpersonali. anche se la loro trasformazione è comunque un obiettivo dell’azione formativa..

La centralità dell’apprendimento chiede, dunque, di recuperare il senso ampio della didattica133, attingendo ai modelli operativi con maggiore consapevolezza epistemologica ─ di

immagine del sapere, di strumenti di ricerca, di metodologia ─ per superare un’impostazione

riduttiva e tradizionale della formazione, basata sulla sola modularizzazione in risposta a esigenze di ordine organizzativo e di programmazione dei contenuti. Centralità dell’apprendimento e protagonismo dei learners implicano che l'azione didattica sappia assumere un approccio che sia di fatto investigativo e integri una comunicazione di saperi lineare, cumulativa e convergente, con procedure di sperimentazione, di approccio critico e creativo ai saperi, di costruzione/ricostruzione di concetti, categorie, legate alla scoperta, attente alle procedure di invenzione.134

Una metodologia che sta incontrando crescente applicazione nella pratica educativa ed in particolare nell’educazione degli adulti, perché non incentrata su una teoria e pratica educativa di tipo trasmissivo, ma basata su un’idea di educazione che chiama in causa la dimensione indagativa propria di qualunque atto conoscitivo, è la ricerca azione partecipativa (RAP)135

. E’ una metodologia che implica un approccio olistico, o sistemico, alla complessità del processo educativo e realizza il passaggio verso una formazione partecipativa e trasformativa funzionale a promuovere lo sviluppo comunitario.

Tra i modelli educativi che sempre di più si stanno affermando per la formazione in azienda e che attraverso il ricorso alla ricerca azione partecipativa sembrano poter rispondere ad esigenze di innovazione, grazie ad una precisa e rigorosa metodologia didattica di gestione della formazione, è sicuramente il Circolo di Studio136

.

133

È possibile parlare propriamente di didattica se intesa, riprendendo una definizione di Paolo Orefice, come complesso di operazioni intenzionalmente condotte per favorire la relazione tra saperi diversi: in tal senso la didattica non attiene solo all’insegnamento, ma è direttamente correlata all’apprendimento: «il suo scopo non è quello di travasare messaggi da un contenitore che ne è colmo (ancora l’insegnante) ad un che ne è ancora privo (ancora l’allievo), ma è quello di mettere in comunicazione saperi diversi: saperi che sono al di fuori del soggetto che apprende (dei quali l’insegnante può essere una delle fonti di trasmissione, ma non l’unica) con saperi che sono parte costitutiva del soggetto medesimo. Centro e fine della didattica sono dunque lo studente e il suo sistema di saperi: essa si occupa dei saperi nuovi per il soggetto in formazione in quanto questi riescono ad allargare, incrementare, approfondire i sui saperi personali fino a diventare parte costitutiva del suo sistema di decodifica della realtà […] si può a ragione affermare che si ha storicamente azione didattica ogni qualvolta un soggetto, giovane o adulto, trova di fronte a sé occasioni di conoscenze di diversa natura e, grazie ad uno o più catalizzatori (la situazione scolastica, ma molto più frequentemente altre situazioni esperienziali automotivanti), se ne appropria integrandole nel suo sistema di saperi», P. Orefice (1993): Didattica dell’ambiente. Guida per gli operatori della scuola, dell’extrascuola e dell’educazione degli adulti. Firenze: La Nuova Italia, p. XI-XII.

134

Cfr. F. Cambi (a cura di) (2001), L’arcipelago dei saperi. Progettazione curriculare e percorsi didattici enlla scuola dell’autonomia, 4 Voll., Firenze, Le Monnier.

135

P. Orefice (2006b), La ricerca azione partecipativa. Teoria e pratiche. La creazione dei saperi nell'educazione

ambientale degli adulti in Europa e nello sviluppo umano internazionale, Liguori, Napoli.

136

Il Circolo di Studio è un modello le cui origini sono ampiamente dibattute, ma che sicuramente è espressione di un movimento sociale, politico e culturale che caratterizza la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento in Europa e negli Stati Uniti. Diverse sono le esperienze che possono aver precorso il modello: i circoli inglesi di studio della bibbia, il movimento Letterario e Scientifico “Chautauqua” negli Stati Uniti, la discussione sulla bildining nell’educazione popolare svedese ad opera di Hans Larsson. La paternità del modello, che si è diffuso a partire dal Nord Europa agli

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Tuttavia, come nel presente volume viene prospettato anche grazie all’esperienza realizzata attraverso il Progetto Tejacó, ai fini di un approccio critico alla costruzione creativa di saperi innovativi e inclusivi in un determinato contesto di apprendimento, anche l’applicazione della RAP in contesti di formazione ludica quali il teatro d’impresa e il teatro forum presenta rilevanti potenzialità.

2. Quadro metodologico e potenziali sinergie: le comuni finalità nella gestione

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