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La seconda parte del capitolo de La violenza e il sacro che Girard dedica a Totem e tabù ha come oggetto l’analisi dell’interpreta- zione freudiana della tragedia greca. Si tratta di un tema molto caro a Girard, per il quale, com’è noto, la tragedia rappresenta un banco di prova formidabile per la teoria mimetica ma, an- cor più radicalmente, una fase di passaggio imprescindibile nel processo di emersione – che è allo stesso tempo decostruzione - dello stesso meccanismo della violenza vittimaria. È dunque opportuno riprendere i passi salienti della posizione di Freud sulla tragedia facendoli “reagire” con le considerazioni girardia- ne a tal proposito.

Una folla di persone che portano tutte le stesso nome e vestite

intorno a colui che originariamente era il solo a rappresentare l’eroe. Un secondo, poi un terzo attore furono più tardi intro- dotti nella tragedia, per servire da partner all’eroe principale o per rappresentare questo o quello dei suoi tratti caratteristici. […] L’eroe della tragedia doveva soffrire; e questo è ancor oggi il principale carattere di una tragedia. Era oberato dalla cosid- detta colpa tragica, di cui non sempre si possono cogliere le ra- gioni; il più delle volte, tale colpa non ha niente in comune con quella che noi consideriamo una colpa nella vita quotidiana. Consisteva il più delle volte in una ribellione contro un’autorità divina o umana, e il coro accompagnava, assisteva l’eroe con i suoi sentimenti di simpatia, cercava di trattenerlo, di metterlo in guardia, di moderarlo, e lo compiangeva allorché, realizzata la sua audace impresa, trovava il castigo meritato.122

La prima questione fondamentale è la seguente: perché l’eroe deve soffrire e in cosa consiste la sua colpa tragica?

Egli deve soffrire perché è il progenitore, l’eroe della grande tragedia primordiale di cui abbiamo parlato e che trova qui una rappresentazione tendenziosa; quanto poi alla colpa tra- gica, è quella che egli deve addossarsi per liberarne il coro. Gli eventi che si svolgono sulla scena rappresentano una de- formazione, che potrebbe dirsi ipocrita e raffinata, di eventi veramente storici. In ogni realtà antica, furono precisamente i membri del coro la causa delle sofferenze dell’eroe; qui, invece, si profondono in lamenti e in manifestazioni di simpatia, come se l’eroe stesso fosse la causa delle proprie sofferenze. Il delitto che gli viene imputato, l’insolenza e la rivolta contro una gran- de autorità, è appunto quello stesso che in realtà pesa sui mem- bri del coro, la schiera dei fratelli. Ed è così, dunque, contro la sua volontà, che l’eroe tragico è promosso redentore del coro.123

122 S. Freud, Totem e tabù, cit., p. 209. 123 Ibidem.

Si tratta di una pagina soltanto, nella quale Freud prende una netta posizione nei confronti della tragedia antica, ma nella quale i punti che paiono anticipare la riflessione di Girard non sono pochi. L’eroe innanzitutto. Egli non è altro che la vitti- ma del coro, che rappresenta la folla in piena crisi mimetica. La colpa tragica che gli viene addossata suo malgrado appartiene in realtà a tutto il gruppo, che se ne libera scaricandola su un solo individuo. Più in generale, la tragedia è definita da Freud come una rappresentazione tendenziosa di eventi storici: l’evento storico, nel contesto dell’opera in questione, non può essere che l’assassinio del padre da parte dell’orda dei figli. Va notato che i figli assassini sono tutti fratelli nemici, si somigliano talmente da perdersi nell’indifferenziazione: essi sono ormai una folla di persone che, come scrive Freud, portano lo stesso nome e sono

vestite allo stesso modo. Tuttavia, non bisogna lasciarsi “prendere

la mano” e riconoscere solo convergenze tra l’assassinio di Freud e la teoria vittimaria di Girard. In Freud, la folla polarizza in sé tutta la colpevolezza, mentre l’eroe, assolutamente innocente, è investito di una colpa che non merita. Tale concezione è in- sufficiente: in realtà i tragediografi greci, in particolare Sofocle, lasciano intendere – come farà molto più tardi Dostoevskij nei suoi romanzi - che la vittima espiatoria è colpevole come gli altri. La lettura freudiana si limita a rovesciare il mito tragico: per rimettere le cose a posto, basta riconoscere la colpa come appar- tenente al coro, mentre l’eroe deve ritornare il solo innocente. Tuttavia, in questa prospettiva non si esce dalle strutture del mito, continuando a perpetuarne la vocazione all’occultamento della violenza.

Grazie alla vittima innocente, con la cui sorte ci si identifica, diventa possibile colpevolizzare tutti i falsi innocenti. È quello che faceva Voltaire nel suo Oedipe. È anche quello che fa tutto

ria crescenti. Non si finisce di invertire i valori del vicino per farsene un’arma contro di lui, ma tutti quanti, in fondo, sono complici nel perpetuare le strutture del mito, il significativo squilibrio di cui ciascuno ha bisogno per nutrire la propria pas- sione antagonista. (VS - 280).

Quello che Freud non vede è che la propria interpretazione della tragedia rimane all’interno delle vicende alterne delle crisi mi- metiche, in quanto si limita a rovesciare, conservandoli inaltera- ti, i rapporti instaurati dal mito. L’immobilità della sua lettura, del resto, corrisponde perfettamente all’ipotesi dell’uccisione unica del padre primordiale, che nella tragedia – egli sostiene - viene rappresentata tuttavia in modo tendenzioso. Mostro or- ribile in vita, il padre diviene eroe perseguitato dopo la mor- te: non è difficile riconoscere qui le tracce del meccanismo del sacro, che Freud non riesce a vedere. Per sfuggire davvero alla morale, anche se trasformata in antimorale, e alla metafisica, quantunque mutata in antimetafisica, occorre rinunciare al gioco della violenza, alle rigide divisioni in “buoni” e “cattivi”, poiché il misconoscimento è, come la violenza, ovunque. L’eroe dovrebbe pertanto rinunciare alla sua distinzione dal coro, poi- ché egli è colpevole come gli altri, è uno tra la folla, e con essa condivide il contagio violento. Nonostante il suo carattere par- ziale ed insufficiente, Totem e tabù è senz’altro un testo capace di avanzare notevolmente sulla strada della comprensione della tragedia. Eppure resta un fallimento; anzi, proprio in quanto fallisce, esso conferma la vanità della moderna pretesa di demi- stificare la letteratura e di interpretarla “scientificamente”: se- condo Girard, Sofocle, e così Shakespeare o Dostoevskij, sanno molte più cose sui rapporti umani di quante non ne sappiano Freud e la psicoanalisi.

La lettura freudiana della tragedia, con tutta la sua forza e a causa di questa forza, risulta in realtà ancora più errata e ingiu-

sta nei confronti del suo oggetto. Il processo intentato da Freud alla tragedia è un omaggio sicuramente più bello delle insulse lodi convenzionali; è molto meglio documentato, molto più vicino a essere fondato sulla verità del consueto e generico pro- cesso intentato dalla psicoanalisi alla letteratura, ma non per questo è meno falso e ingiusto, di una falsità e di un’ingiustizia che le letture convenzionali denunciano costantemente ma di cui si dimostrano incapaci di misurare la portata. (VS - 282). Si è visto come Freud definisca la tragedia come una rappresen-

tazione tendenziosa di eventi storici; anche se la tesi dell’omici-

dio unico è del tutto improbabile, nondimeno la tragedia può ben essere caratterizzata come “tendenziosa”, in quanto si situa sempre all’interno di un contesto mitico mai del tutto decostru- ito. Tuttavia, nella tragedia tale carattere tendenzioso è minore che in qualsiasi altra forma mitica, in quanto è sua prerogativa rintracciare e far emergere il gioco della violenza reciproca e re- staurare la simmetria violenta: in una parola, la funzione tragica è proprio quella di correggere il tendenzioso. La lettura di Freud procede nella medesima direzione, riconosce alcuni elementi della reciprocità, ma si ferma ben prima della tragedia, svelan- dosi come ancor più tendenziosa della tragedia stessa. In ultima analisi, l’interpretazione freudiana, incentrata sul rovesciamento dei rapporti tra coro e protagonista, è invischiata in quel risenti-

mento – per dirla con Nietzsche – che denuncia la violenza altrui

perché è presa essa stessa nel gioco delle rappresaglie violente, nel meccanismo del modello e dell’ostacolo e nel circolo vizioso del desiderio mimetico.

È chiaro che la tragedia greca ha più cose da dire su tale pro- cesso [di demistificazione del sacro violento], cui intuisce di essere legata, della psicoanalisi, che crede di sfuggirgli. La psi- coanalisi può fondare la propria certezza solo su un’espulsione

Perciò l’opera d’arte è denigrata ed esaltata al tempo stesso. Intoccabile da un lato, feticizzata sotto il profilo della bellezza, è radicalmente negata ed evirata dall’altro, posta come anti- tesi immaginaria, consolante e mistificatrice dell’inflessibile e desolante verità scientifica, oggetto passivo, sempre imme- diatamente penetrabile da un qualche sapere assoluto di cui tutti, successivamente, pretendono di incarnare l’adamantina durezza. (VS - 284).

Solo alcuni scrittori si sono resi conto di questo processo di de- mistificazione del meccanismo vittimario, gli psicologi e i socio- logi mai: è Sofocle a demistificare la psicoanalisi, mai viceversa. Esaminare un testo nella prospettiva della vittima espiatoria, considerare la letteratura nei termini della violenza collettiva, significa interrogarsi su ciò che il testo omette, più ancora che su ciò che è esplicito. Proviamo ad applicare questa istanza a

Totem e tabù, e ci accorgeremo subito che tutto il paragrafo sulla

tragedia si regge su un’assenza, o meglio, su un’espulsione. Di che cosa? Della tragedia che più naturalmente dovrebbe saltare agli occhi di Freud: l’Edipo re. Proprio lui, scopritore del complesso di Edipo, quando si tratta di prender posizione sulla tragedia, ignora proprio quella che ha per oggetto il parricidio, ossia il tema che, guarda caso, rappresenta il fulcro della sua riflessione sulla religione e sulla genesi dei divieti. Il lettore superficiale può sempre obiettare che l’Edipo re è una tragedia tra le altre, nulla obbliga Freud a renderla oggetto di una particolare attenzione; oppure si può dire che essa è fusa con il resto del corpus tragico, e dunque non richiede un’analisi specifica. Obiezioni non vali- de: l’Edipo re è deliberatamente escluso dalle analisi freudiane, e ciò è confermato da più luoghi testuali. Proviamo a ricostruire le relazioni che intercorrono tra l’oggetto di Totem e tabù e la tragedia: si tratta del parricidio originario da parte dell’orda dei figli, ed è lo stesso oggetto che si ritrova – rappresentato in modo

tendenzioso – nella tragedia, proiettato dagli stessi assassini sulla

vittima espiatoria. Edipo uccide il padre ed è accusato dalla folla dei tebani; non si potrebbe immaginare convergenza più per- fetta, ed è impossibile che un accordo così completo tra le tesi esposte in Totem e tabù e la tragedia greca non siano saltate agli occhi del padre della psicoanalisi. Per quale ragione?

Freud non può utilizzare l’Edipo re nel contesto di un’interpre- tazione che riallaccia la tragedia a un parricidio effettivo senza rimettere in causa la sua interpretazione consueta, l’interpreta- zione ufficiale della psicoanalisi, che fa dell’Edipo re il semplice riflesso dei desideri inconsci, che esclude formalmente ogni re- alizzazione di tali desideri. Edipo appare qui in una strana luce dal punto di vista del suo stesso complesso. Nella sua qualità di padre primordiale egli non può avere padre, e si stenterebbe non poco ad attribuirgli il benché minimo complesso paterno. Dando il nome di Edipo a tale complesso, a Freud non poteva capitare di peggio. (VS - 288).

Come si può facilmente notare, non è possibile vedere nella loro vera luce le accuse di cui Edipo è oggetto, cioè inserire il par- ricidio e l’incesto nel circuito dei fenomeni di capro espiatorio, senza porre una serie di questioni che rimetterebbero interamen- te in gioco l’intera psicoanalisi. Freud si è trovato di fronte tali questioni, ma incapace di ricomporle.

Se Freud non avesse eluso la difficoltà, se avesse sviscerato la contraddizione, avrebbe forse riconosciuto che né la sua prima né la sua seconda lettura di Edipo rendono veramente conto né della tragedia né del mito edipico. Né il desiderio rimosso né il parricidio effettivo sono soluzioni soddisfacenti e l’irriducibile dualità delle tesi freudiane, non solo qui ma un po’ dappertut- to, riflette una sola e medesima distorsione. Mettendo da parte il vero problema, Freud si allontana dalla strada potenzialmen-

te più feconda, dalla strada che, seguita fino in fondo, porta alla vittima espiatoria. (VS - 289).

L’esclusione dell’Edipo re dal paragrafo sulla tragedia costituisce una sorta di tentativo di protezione della teoria psicoanalitica, al pari dell’esclusione, operata in L’Io e l’Es, delle aperture al desiderio mimetico che sembravano profilarsi in Psicologia del-

le masse e analisi dell’Io. Tuttavia, Freud ha troppo talento per

rinunciare del tutto a quelle intuizioni, e si limita ad escluderle dalle argomentazioni portanti della sua teoria; la psicoanalisi posteriore non avrà più gli stessi riguardi, e taglierà di netto ogni elemento anche solo in parziale disaccordo con i dogmi psicoanalitici.

Se il salto in avanti di Totem e tabù è anche un salto di lato, se l’opera, formalmente perlomeno, arriva a un punto morto, lo si deve alla psicoanalisi, alla dottrina già fatta, al fardello di dogmi che il pensatore trasporta con sé e di cui non può sba- razzarsi, abituato com’è a considerarli la sua maggior ricchez- za. L’ostacolo principale è innanzitutto il significato paterno che viene a contaminare la scoperta essenziale, e che trasforma l’uccisione collettiva in parricidio, fornendo così agli avversari, psicoanalitici e altri, l’argomento che permette di screditare la tesi. (VS - 290).