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Resta il problema della genesi dei divieti, problema che il parri- cidio non risolve affatto, anzi, complica enormemente. Riportia- mo il passo freudiano a tal proposito:

Morto, il padre divenne più forte di quanto lo fosse stato da vivo: […] ciò che prima egli aveva impedito con la sua esisten-

za, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’”obbedienza retrospettiva”. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili. Prendendo le mosse dalla co-

scienza di colpa del figlio, crearono i due tabù fondamentali del

totemismo, che proprio perciò dovevano coincidere con i due desideri rimossi del complesso edipico.124

Tutte le argomentazioni, in questo passo, sono estremamente deboli, e Freud è il primo a rendersene conto, dal momento che cerca immediatamente di integrare il concetto di “obbedienza retrospettiva” – francamente insufficiente – con prove ulteriori, talvolta non pienamente in accordo con l’impianto generale del- la teoria psicoanalitica. Seguiamo le vicende del dopo-parricidio:

[…] la proibizione dell’incesto aveva anche una grande impor- tanza pratica. Il bisogno sessuale, lungi dall’unire gli uomini, li divide. Se i fratelli erano associati finchè si trattava di sop- primere il padre, diventavano rivali appena si trattava di im- padronirsi delle donne. Ciascuno avrebbe voluto, sull’esempio del padre, averle tutte per sé e la lotta generale che ne sarebbe risultata avrebbe portato la rovina generale della società. Non c’era più nessun uomo che, superando tutti gli altri in potenza, potesse assumere il ruolo del padre. Così i fratelli, se volevano vivere insieme, avevano un solo partito da prendere: istitui- re, dopo aver forse sormontato gravi discordie, la proibizione dell’incesto, grazie alla quale rinunciavano tutti al possesso delle donne desiderate, mentre era principalmente per assicu- rarsi questo possesso che avevano ucciso il padre.125

Nel primo testo, il padre è stato ucciso da poco ed è ancora il protagonista; nel secondo, invece, il suo ricordo è già sbiadito, si direbbe che egli muoia anche nel pensiero di Freud. Questi vuo- le seguire le vicende dell’orda dopo l’omicidio collettivo, allonta- nandosi così sempre più dal modello della famiglia occidentale, che era stato oggetto delle analisi precedenti. Tutti i significati familiari svaniscono, non vi sono più differenze di parentela tra uomini e donne: ciascuno avrebbe voluto, sull’esempio del padre,

averle tutte per sé. Il desiderio non ha più oggetto, basta la pre-

senza delle donne, siano esse madri o sorelle, per scatenare la rivalità. Nessuno dei figli è talmente superiore agli altri da poter ripetere le gesta del padre ucciso: non c’era più nessun uomo che,

superando tutti gli altri in potenza, potesse assumere il ruolo del padre. La rivalità assume mille pretesti perché in fondo ha per

oggetto la sola violenza sovrana: non vi sono più che le femmine da un lato, e i maschi, incapaci di dividersele, dall’altro. Se- condo Girard, l’errore di Freud consiste nel considerare questa situazione di crisi come effetto della morte del padre, mentre invece tutto accade come se non vi fosse mai stato un padre. Ora i protagonisti sono i fratelli nemici, fulcro dell’indifferenziazione e della violenza reciproca: insomma, è il circolo della mimesi e della reciprocità violenta che Freud sta scoprendo qui, anche se ricorre sempre al parricidio iniziale, che a questo punto non risulta più di nessuna utilità teorica. Pertanto, il divieto dell’in- cesto non va affatto ricondotto all’obbedienza retrospettiva, poi- ché questa è una nozione troppo debole per fondare un divieto di tale portata e diffusione; esso affonda le sue radici nella neces- sità di tenere lontana la crisi violenta che si genera dai rapporti di reciprocità e indifferenziazione, indipendentemente da qualsiasi omicidio reale originario. È lo stesso Freud ad accorgersene, e nel secondo testo che abbiamo esaminato nel presente paragrafo egli sembra ricusare la teoria dell’obbedienza retrospettiva, e con

essa tutti i complessi e i desideri rimossi, per assegnare al divieto una funzione reale.

In ultima analisi, Freud interpreta la genesi dei divieti sessuali a partire dalla crisi che segue il parricidio originario: gli uo- mini, dopo gravi lotte, si accorderebbero – allo scopo di porre fine alla violenza – sull’obbligo comune di rinuncia alle donne. Questa seconda teoria è superiore rispetto alla prima, quella fon- data sull’obbedienza retrospettiva, sul piano della funzione, in quanto riconosce che il divieto sorge laddove l’uomo deve porre fine alla violenza reciproca. Bisogna però esaminarla sul piano della genesi. Freud sostiene che i fratelli finiscono per accordarsi “amichevolmente” sulla rinuncia alle donne. Tuttavia, il carat- tere assoluto del divieto non suggerisce affatto questo accordo, poiché, se gli uomini fossero davvero capaci di intendersi, non tutte le donne sarebbero colpite dallo stesso tabù, ma sarebbe più probabile una spartizione delle risorse disponibili. La violen- za deve trionfare, e Freud lo sa, dal momento che parla di “gravi discordie” che precederebbero l’accordo finale. Non c’è ragione per supporre la riconciliazione come necessaria, e tanto più at- torno ad un divieto così irrazionale e “affettivo” come quello dell’incesto: il contratto sociale anti-incestuoso non può con- vincere nessuno e la teoria freudiana del divieto, che sembrava imboccare la strada migliore, si conclude in modo nuovamente troppo debole. Afferma Girard:

Abbiamo tentato di rintracciare il percorso che conduce dal- la prima alla seconda teoria, abbiamo creduto di cogliere il dinamismo di un pensiero che a poco a poco si sbarazza dei significati familiari e culturali… Dobbiamo ora constatare che questa traiettoria non si conclude. Per la seconda teoria dell’incesto avviene come per il testo sulla tragedia. I fratelli e le donne sono ridotti all’identità e all’anonimia mentre invece

za” i figli, se così si può dire, ma non va oltre. Bisogna com- pletare la traiettoria interrotta e “depaternalizzare” il padre. (VS - 293-294).

Completare il movimento avviato da Freud non significa rinun- ciare all’uccisione, che resta necessaria dato che è richiesta da una massa enorme di materiali etnologici; vuol dire rinunciare al padre, uscendo dal quadro della struttura familiare e dei si- gnificati psicoanalitici. Freud fallisce l’articolazione reale del sa- crificio e di tutti i dati ad esso connessi a causa della onnipresen- za del padre, che finisce sempre per occultare il meccanismo del sacro. Tutte le frasi che iniziano con “la psicoanalisi ci mostra” passano vicinissime alla soluzione dell’enigma, ma la eludono sempre, poiché la loro visione è offuscata dal significato paterno.

Il padre non spiega nulla: per spiegare tutto, bisogna sbaraz- zarsi del padre, mostrare che la formidabile impressione fatta sulla comunità dall’uccisione collettiva non è legata all’iden- tità della vittima ma al fatto che tale vittima è unificatrice, all’unanimità ritrovata contro tale vittima e attorno ad essa. È la congiunzione del contro e dell’intorno che spiega le contrad- dizioni del sacro, la necessità in cui ci si trova di dover sempre uccidere di nuovo la vittima, benché sia divina, perché è di- vina. Non è l’uccisione collettiva a falsare Totem e tabù, bensì tutto quel che impedisce a tale omicidio di venire in primo piano. Se Freud rinunciasse alle ragioni e ai significati che ven- gono prima dell’omicidio e che cercano di motivarlo, se facesse tabula rasa del senso, anche e soprattutto quello psicoanalitico, vedrebbe che la violenza è senza ragione, vedrebbe che, in fatto di significato, non vi è nulla che non esca dall’omicidio stesso. (VS - 294).

Una volta privato del suo significato paterno, l’omicidio rivela il principio del profondissimo impatto che esso ha sulla comunità, il segreto della sua efficacia e della necessità delle sue ripetizioni

rituali. Solo la vittima espiatoria può completare la seconda teo- ria freudiana sul divieto, perché è la sola a porre fine alla violen- za. Anziché essere solo una premessa imbarazzante e inutile, se posto prima della crisi violenta, l’omicidio – la cui collocazione logica è sempre al termine di quest’ultima - ne è la risoluzione, dalla quale si originano tutti i divieti e l’ordine culturale stesso. In che modo?

Qualunque sia il pretesto dei conflitti, cibo, armi, terre, donne, ecc., gli antagonisti se ne disfano e non vogliono più saperne. Tutto quello che la violenza sacra ha toccato appartiene ormai al dio e, come tale, diviene oggetto di un divieto assoluto. Di- sillusi e spaventati, gli antagonisti, ormai, faranno di tutto per non ricadere nella violenza reciproca. E sanno perfettamen- te quello che occorre fare. L’ira divina lo ha manifestato loro. Dovunque è divampata la violenza si leva il divieto. Il divieto grava su tutte le donne che hanno costituito la posta in gioco della rivalità, perciò tutte le donne vicine, non perché siano intrinsecamente più desiderabili ma perché sono vicine, perché si offrono alla rivalità. La proibizione copre sempre i consan- guinei più prossimi; ma i suoi limiti esterni non coincidono necessariamente con una parentela effettiva. (VS - 301).

Incamminarsi sulla strada aperta da Freud significa dunque as- sumere l’omicidio collettivo, senza tuttavia caricarlo di alcun significato paterno, e porlo non all’origine, ma al termine della crisi violenta; gli uomini non si accordano pacificamente sul di- vieto, ma si stringono attorno alla vittima espiatoria, la sola in grado di riportare la pace sociale: in quanto tale, essa è sacra, ed è la fonte unica ed inesauribile di ogni divieto ed istituzione culturale.