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Le questioni del rito e del mito costituiscono un banco di prova formidabile sia per la posizione teorica di Lévi-Strauss sia per quella di Girard, e proprio sul terreno di questi due temi av- viene tra loro lo scontro più duro. Sappiamo come il giudizio di Lévi-Strauss sul rito sia fortemente negativo, in quanto esso è interpretato come il prodotto di una sorta di ansia o paura umana per la differenziazione: il rito, in sostanza, è un tentativo – vano e illusorio – di risalire dal pensiero discontinuo alla con- tinuità pre-culturale. La posizione di Girard, com’è noto, è ben diversa. Il rito è quella formidabile produzione culturale di cui l’uomo si serve per ripetere l’immolazione della vittima, l’atto originario e fondatore della civiltà. Attraverso il rito la comunità rivive, in maniera controllata, la crisi mimetica che, la prima

volta, ha seminato la violenza reciproca, la quale a sua volta ha

potuto polarizzarsi su di un’unica vittima e uscire con essa dalla comunità. Ma non si tratta soltanto di riattraversare la crisi vio- lenta: innanzitutto il rito vuole godere nuovamente dei benefici del sacrificio, rifondare sulla vittima la comunità pacificata. Il rito perciò non tende affatto all’indifferenziato per l’indifferen- ziato, ma, al contrario, dall’indifferenziato alla differenziazione: dal rito scaturisce una nuova fondazione della comunità, che, per tenere il più possibile lontano la violenza mimetica, deve organizzarsi in una struttura fortemente differenziata: indiffe- renziazione è sinonimo di violenza, e solo dall’espulsione della violenza può nascere un sistema sociale differenziato.

Invece che tendere all’indifferenziato per l’indifferenziato, come s’immagina Lévi-Strauss, i riti scorgono nella crisi solo un mezzo per assicurare la differenziazione. Non vi è dunque alcuna ragione per votare i riti all’insensato come fa Lévi- Strauss. È proprio dal disordine estremo che sorge l’ordine nella cultura umana, perché il disordine estremo è la scom- parsa di ogni oggetto nel conflitto ed è allora che la mimesi di appropriazione, la mimesi conflittuale, si trasforma in mimesi dell’antagonista e della riunificazione su questo antagonista. Mettendo il rito alla porta della classe strutturalista, come egli fa, Lévi-Strauss s’inganna. Il cattivo alunno ne sa molto più del professore sull’ordine e disordine. (DDC - 46-47).

Ancora una volta, l’errore di Lévi-Strauss, agli occhi di Girard, è quello di considerare come davvero originaria soltanto la struttura. Poiché considera il passaggio dalla natura alla cultura come il punto d’avvio del pensiero classificatore, principio della discontinuità e della differenza, Lévi-Strauss non sa che farsene del rito, il quale, rispetto al pensiero classificatore, rappresenta la tendenza contraria. Il rito è pertanto la spina nel fianco dello strutturalismo, il quale, anziché riflettere su di esso ed eventual- mente rivedere le proprie posizioni, lo espelle dal rango del pen- siero razionale e scientifico come un sottoprodotto della cultura umana. Anzi, nell’interpretazione girardiana, lo strutturalismo si definisce ancora una volta come pensiero sacrificale, che, per ergersi a garante di una verità che in realtà mistifica, ha bisogno di un capro espiatorio, e niente può fungere meglio del rito per ricoprire tale funzione.

Un’etnologia puramente classificatrice, una etnologia che cerca di riporre ogni istituzione nella casella che dovrebbe essere la sua, come un postino che smista la sua posta, una etnologia che vede l’ultima parola della scienza nell’esattezza delle dif-

possibilità di una matrice strutturale comune. Si ritrae dalle istituzioni che la confondono perché possono rovinare le sue certezze. Si sforza inconsciamente di dimenticare e screditare quelle cose che tengono in scacco la sua volontà di classificare tutto. Non vuol capire che c’è ormai qualcosa di meglio da fare. Le istituzioni più sconcertanti dal punto di vista della classificazione sono quelle più interessanti perché ci mostrano uno stato anteriore alla specificazione compiuta. (DCC - 84). Se, per quanto riguarda l’interpretazione del rito, le posizioni di Girard e Lévi-Strauss non potrebbero essere più diverse, la questione diviene più complessa riguardo al mito. In questo caso, infatti, i due autori partono da un punto comune, vale a dire dal riconoscimento, all’interno del mito, di un movimento che va dall’indifferenziato al differenziato. Girard assume aper- tamente questa intuizione dello strutturalismo, poiché nei miti si passa sempre da una condizione iniziale di indifferenziazione ad una finale di differenziazione. Tuttavia, se la considerazione iniziale del mito vede Girard e Lévi-Strauss d’accordo, le strade si dividono ben presto: se l’impostazione strutturale interpreta il passaggio dall’indifferenziato alla differenziazione sul piano meramente logico, come genesi del pensiero discontinuo, Girard assume questo passaggio sul piano reale, e, come sappiamo, lo fonda sul meccanismo della vittima espiatoria. Nella prospettiva di Lévi-Strauss, l’indifferenziato, il continuo, non sono altro che una “rabberciatura” di distinzioni già operate sul piano lingui- stico, una falsa apparenza che l’etnologo deve sempre deplorare - è il caso dei riti, di cui si è discusso più sopra. Ma allora, come può Lévi-Strauss giustificare la presenza dell’indifferenziato nel- la parte iniziale dei miti?

Nelle analisi de Le totémisme aujourd’ hui, la presenza di que- sto stesso indifferenziato gli pare giustificata dal fondamentale proposito della mitologia, che consiste, secondo lui, nel rap-

presentare, in modo necessariamente inesatto, ma ugualmente suggestivo, la nascita e il dispiegarsi di ciò che esclusivamente gli interessa, il pensiero differenziatore. Una rappresentazione della differenza in quanto tale, del discontinuo in quanto tale, può soltanto avvenire su un fondo di continuo, di indifferen- ziato. (DDC - 139).

In sostanza, per Lévi-Strauss il mito è la rappresentazione fitti- zia della genesi culturale, mentre per Girard è il resoconto tra- sfigurato di una genesi reale. Per lo strutturalismo, il pensiero mitico confonde un processo puramente intellettuale, quale è il processo differenziatore, con un processo reale, una sorta di dramma che si svolge all’inizio dei tempi tra personaggi imma- ginari. Allo strutturalismo gli elementi “drammatici” del mito non interessano, ciò che importa è il passaggio dal continuo al discontinuo, dall’indifferenziazione alla differenziazione. Tutta- via, osserva Girard, Lévi-Strauss è un pensatore troppo fine per lasciarsi sfuggire alcuni elementi ricorrenti nei miti: tali elemen- ti sono esaminati, certo, a livello puramente logico, ma da essi emerge una sorta di logica dell’esclusione non priva di interesse. Eccone un esempio:

In ogni caso, tale discontinuità è ottenuta per eliminazione radicale di certe frazioni del continuo. Quest’ultimo ne resta impoverito, ed elementi meno numerosi sono ormai in gra- do di dispiegarsi nello stesso spazio, mentre la distanza che li separa è sufficiente per evitare che sopravanzino gli uni su- gli altri o che si confondano tra di essi. […]. Perché i cinque grandi clan, dai quali gli Ojibwa credono che sia sorta la loro società, potessero costituirsi, fu necessario che sei personaggi soprannaturali non fossero più di cinque, e che uno di essi ve- nisse scacciato. Le quattro piante totemiche di Tikopia sono le uniche che gli antenati riuscirono a conservare, allorché un dio

discreto risulta da una distruzione di elementi, o dalla loro sottrazione da un insieme primitivo.104

Ad una prima lettura di questi passi, si può notare facilmente come ricorrano frequentemente termini come sottrazione, di-

struzione ed eliminazione radicale. Non si tratta mai di violenza

contro un individuo reale, ma sempre di oggetti che occupano un determinato spazio logico. Nella prospettiva di Lévi-Strauss, l’eliminazione di uno o più frammenti, l’espulsione di un dio o la distruzione di esseri viventi non sono altro che soluzioni diverse all’unico problema del passaggio dalla quantità continua alla quantità discreta.

Lo stato indifferenziato che imperversa al principio del mito è interpretato come ingombro eccessivo di un certo campo. Per distinguere le cose, sono necessari degli interstizi tra di esse che permetteranno al pensiero di insinuarsi e che, secon- do Lévi-Strauss, al sorgere del mito mancherebbero ancora. Il problema, insomma, per questa messinscena del pensiero nascente, sarebbe di fare spazio, di allontanare le cose le une dalle altre per differenziarle, e l’eliminazione anche di un solo frammento, ci dice Lévi-Strauss, passa per realizzatrice di ciò. (DDC - 141).

Nella prospettiva di Girard, lo strutturalismo interpreta l’espul- sione come l’elemento attraverso cui si concretizza il processo di differenziazione, e il mito non fa che rappresentare metafori- camente il processo differenziatore stesso. Il pensiero selvaggio è già strutturalismo, ma confonde ancora il processo differen- ziatore con un evento reale, poiché non riesce a concepire tale

104 C.Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, cit., pp. 80-81.

Bozza

processo in maniera abbastanza astratta: ha ancora molto da im- parare, ma è sulla buona strada, la stessa di Lévi-Strauss.105

È facile dimostrare che questa interpretazione è insostenibile. Se il dramma si riduce a un procedimento per sgombrare il campo mitico, bisogna che il frammento o i frammenti elimi- nati facciano parte di questo campo sin dal principio. Se per caso non ne facessero parte, se fossero dei corpi estranei intro- dotti tardivamente in questo campo, la loro eliminazione non fornirebbe alcun supplemento di spazio rispetto alla situazione iniziale. È quello che si ha nei due miti [Ojibwa e Tikopia] poi- ché il frammento eliminato, in entrambe i casi, è la divinità, e né nel il testo ojibwa né in quello tikopia tale divinità fa parte del campo mitico originario, essa ci è anzi presentata come un

visitatore. Lo schema topologico di Lévi-Strauss crolla. (DDC

- 141).

Secondo Girard, ciò che rende unica la posizione di Lévi- Strauss, rispetto agli altri antropologi, è che non gli è affatto sfuggito il meccanismo del tutti contro uno, solo che egli finisce per appiattire questa fondamentale intuizione in una delle soli- te differenziazioni binarie. Gli elementi del processo sono però riconosciuti lucidamente: “nei due miti, si noterà la stessa oppo- sizione tra una condotta individuale e una condotta collettiva, la prima qualificata negativamente, e la seconda positivamente.”106 La condotta individuale negativa è, nel mito ojibwa, l’impru- denza dell’essere soprannaturale che uccide un indiano col solo sguardo, mentre, nel mito tikopia, è il furto delle piante totemi-

105 In questa prospettiva, va notata una differenza essenziale tra Lévi-Strauss

e Girard: se per il primo l’unico processo reale è quello differenziatore, ed il mito ne rappresenta metaforicamente le vicende, per il secondo l’evento reale è l’espulsione, ed il mito, al massimo, camuffa tale espulsione, ma la

che da parte del dio Tikarau; la condotta collettiva positiva è, nel primo mito, l’intervento dei cinque dei che scacciano l’uc- cisore in fondo al mare, mentre, nel secondo mito, è la caccia a Tikarau da parte di tutta la comunità. L’azione collettiva, che Lévi-Strauss definisce come “qualificata positivamente”, è sem- pre la violenza collettiva, il linciaggio della vittima. Al contrario, l’azione individuale negativa non è altro che un’accusa di cui la vittima diviene oggetto: poiché nessuno mette in dubbio tale accusa, e l’intera comunità l’adotta, quest’ultima vede in essa un motivo urgente per uccidere la vittima. I tratti comuni ai due miti sono effettivamente quelli messi in luce da Lévi-Strauss: connotazione negativa del frammento eliminato, connotazione positiva dell’eliminazione stessa che si presenta generalmente nella forma di una espulsione collettiva. Tuttavia, agli occhi di Girard, egli non sa spiegare la congiunzione di questi due ele- menti, e le connotazioni negativa e positiva restano del tutto infondate. C’è una sola prospettiva che può fare del linciaggio un’azione positiva, perché vede nella vittima una seria minaccia di cui bisogna liberarsi, ed è la prospettiva dei linciatori stessi. Essa risolve tutti i problemi inerenti al mito: ci fa capire perché, all’inizio del mito, prevalga il disordine, e ci spiega perché la vit- tima, all’atto dell’espulsione, sia considerata responsabile della crisi che minaccia la comunità.

Benché sembri dapprima sorprendente, la tesi del linciaggio fondatore è ben più verosimile di quella di Lévi-Strauss. La mitologia, per me, non ha affatto l’incredibile progetto poe- tico-filosofico che le attribuisce lo strutturalismo. Il suo vero progetto è di rammentarsi le crisi e il linciaggio fondatore, la sequenza degli eventi che hanno costituito o ricostituito un ordine culturale. Se c’è qualcosa di giusto e di profondo nella concezione lévi-straussiana, è l’idea che nel mito sia in gioco la nascita del pensiero. Essa è anzi più direttamente in gio- co di quanto non osi pensare lo strutturalismo perché non c’è

pensiero umano che non nasca dal linciaggio fondatore. Dove, però, Lévi-Strauss ha torto è nel prendere questa nascita come una immacolata concezione. Vede nel linciaggio ovunque ri- petuto una semplice metafora fittizia di un’operazione intellet- tuale unicamente reale. In verità qui tutto è concreto; e fin dal momento in cui ci si accorge di ciò, l’embricatura di tutti gli elementi mitici diviene troppo perfetta per consentire il mini- mo dubbio. (DDC - 152).

Le analisi di Lévi-Strauss sono molto significative per Girard poiché in esse compaiono determinazioni quali azione positi-

vamente qualificata, eliminazione radicale, ecc.; tuttavia, il fon-

datore dello strutturalismo etnologico non si accorge mai della portata reale delle intuizioni che ha tra le mani. Non manca nulla ad eccezione dell’essenziale, ovvero quel mimetismo che, dopo aver destrutturato violentemente la comunità, fa scattare il meccanismo del capro espiatorio e assicura la ricomposizione.