Ringrazio l’amico e collega Vittorio Lannutti per avermi invitato a scri- vere la postfazione del suo volume frutto della tesi di dottorato recente- mente discussa che ha posto al centro dell’analisi il percorso di integrazio- ne delle seconde generazioni italiane. Un invito che ho accettato volentieri e che mi è stato sollecitato, lo confesso, più per i miei interessi professio- nali e di ricerca di qualche anno fa quando mi ero occupato dei figli degli immigrati nel corso di alcune ricerche sull’argomento.
Da tempo ormai mi sono trasferito a Bruxelles, in Belgio, e per quanto possa elaborare di tanto in tanto qualche riflessione attorno al tema dei fi- gli degli stranieri, lo faccio in modo poco sistematico e appunto per lo più episodico. Inoltre, aspetto non proprio secondario, è largamente cambiato il gruppo di riferimento su cui ragiono: non più seconde generazioni italiane ma belgi con origini immigrate giunte alla terza generazione1.
Quest’ultima affermazione appare solo parzialmente vera dal momento che mi accingo a narrare tre episodi che sono accaduti e che in realtà ve- dono il coinvolgimento di tre giovani di seconda generazione nate e cre- sciute in Italia ma recentemente trasferitisi a Bruxelles.
Il primo episodio ha come scenario la gare du midi, l’importante sta- zione ferroviaria dove giungono i treni ad alta velocità e gli autobus navet- ta che collegano la capitale belga all’aeroporto di Charleroi dove atterran- no i voli low cost della compagnia Ryanair. Si tratta di un’area che registra un’alta percentuale di popolazione di origine marocchina e numerose sa-
* Direttore di Ecepaa (European Center for Economic and Policy Analysis and Affairs). 1. Proprio quest’anno una lunga serie di iniziative celebra qui a Bruxelles la ricorrenza dell’arrivo degli immigrati marocchini e turchi arrivati a seguito della firma di un accordo stipulato il 17 febbraio 1964 con il Marocco e il 19 luglio 1964 con la Turchia. Poco meno di venti anni prima, il 23 giugno del 1946, era stato il turno dell’Italia che aveva siglato un protocollo con il Belgio che prevedeva lo scambio di minatori contro carbone.
le da tè, panetterie e negozi di frutta e verdura gestite e destinate principal- mente a tale popolazione.
In una fredda mattina di marzo, entro in uno di questi negozi di frutta e verdura insieme ad un amico italiano. Una ragazza giovane alla cassa con un velo attorno al capo comincia ad insacchettare i nostri prodotti men- tre noi continuiamo a parlare indisturbati quando, arrivato il momento del pagamento, ci chiede in un italiano corretto e con un vago accento torine- se di quale parte dell’Italia noi siamo. Accortasi del nostro stupore, ci rac- conta che è nata e cresciuta a Torino da genitori marocchini e vista la crisi economica in Italia ha deciso di emigrare a Bruxelles dove i suoi genitori hanno alcuni cugini che l’hanno aiutata a sistemarsi. Parlando l’arabo non ha avuto grande difficoltà ad inserirsi nella larga comunità di nord-africa- ni presenti in città.
Il secondo episodio avviene attorno a place de Bethléem nel Comune di Saint Gilles, uno dei 19 comuni che formano la Regione di Bruxelles do- ve trovano casa grandi comunità provenienti dalla Spagna, dal Portogal- lo, dall’Italia come pure dalla Francia. Questa volta entriamo in un bar per prendere un caffè. Una ragazza africana con le treccine ci prende l’ordina- zione in francese. Sentendoci parlare in italiano ci chiede di quale regio- ne dell’Italia noi siamo. Ascoltata la nostra risposta, ci racconta che è na- ta e cresciuta in provincia di Milano e che la sua famiglia è originaria del Camerun. Anche nel suo caso, la crisi economica degli ultimi anni l’ha co- stretta a cercare lavoro in un altro paese e per lei, fluente in francese, il Belgio è stato una opzione praticabile oltre che una destinazione possibile.
Il terzo ed ultimo episodio avviene in pieno centro a due passi dalla Grand Place, la piazza centrale di Bruxelles dove ci sono le case delle cor- porazioni, l’Hôtel de Ville ovvero il municipio e la Maison du Roi. Entria- mo in un night shop. Si tratta generalmente di negozi gestiti da immigrati aperti quasi tutta la notte. Un giovane ragazzo nero ci chiede cortesemente in francese di che cosa abbiamo bisogno. Sentendoci conversare in italiano cambia repentinamente lingua e con forte cadenza romana ci racconta che lui è di Roma e che avendo perso il posto di lavoro ha deciso di venire a Bruxelles. Il fatto che i suoi fossero francofoni ed essendo lui cresciuto con questa lingua, oltre che con l’italiano, gli hanno permesso di trovare facil- mente un lavoro in Belgio.
Che cosa ci raccontano e ci mostrano questi tre episodi?
Prima di tutto ci confermano il fatto, ormai noto, che il flusso emigrato- rio che ha interessato l’Italia nel corso degli ultimi anni ha riguardato non solo gli italiani ma anche le seconde generazioni. È un fenomeno sociale ancora poco indagato tanto nella sua portata quanto nelle sue caratteristi- che principali su cui occorre fare ancora molta luce.
Un secondo elemento che emerge da questi racconti è la forza del cosid- detto capitale etnico derivante dal processo di acculturazione selettiva de- scritto da Alejandro Portes «come la preservazione della lingua e degli ele- menti culturali dei genitori assieme all’acquisizione della lingua inglese e dello stile americano»2. Diversamente dai loro coetanei italiani costretti ad
emigrare dall’Italia verso Bruxelles, le seconde generazioni che abbiamo incontrato sfruttano il bilinguismo di cui sono portatori e la rete di relazio- ni dei genitori per mettere a punto una strategia migratoria apparentemen- te più efficiente.
Un terzo aspetto riguarda la scelta di emigrare. Come già illustrato da Lannutti nel capitolo introduttivo, le seconde generazioni non hanno vissu- to l’esperienza migratoria appunto perché non è possibile affermare che un individuo sia immigrato nel paese in cui sia nato. Tuttavia, quand’anche es- si fossero immigrati perché comunque arrivati in Italia da bambini, la deci- sione di partire, di scegliere una destinazione piuttosto che un’altra, di op- tare per una data anziché un’altra è il risultato di decisioni altrui che hanno posto il giovane di fronte ad una scelta non negoziata e quindi in qualche misura subita. Al contrario, nei tre casi brevemente descritti c’è una as- sunzione di responsabilità, una scelta di vita che autonomizza il giovane e che lo pone, e lo ha posto, dinnanzi a opzioni di forte carattere materiale e simbolico.
Le storie raccontate ci offrono un ulteriore quarto elemento che si colle- ga con i lavori e le ricerche di Enzo Colombo laddove egli afferma quanto le seconde generazioni stiano crescendo in un contesto transnazionale e va- dano sempre più identificandosi in modo plurale (2010). Non è un caso che il percorso di adattamento al nuovo contesto delle seconde generazioni sia profondamente ancorato in una cornice molteplice che trae grande vigore anche dalla dimensione transnazionale entro la quale le seconde generazio- ni hanno vissuto nel corso della loro permanenza in Italia.
Infine, quei pochi momenti trascorsi insieme a questi giovani di secon- da generazione hanno fatto trasparire un grande desiderio di utilizzare la lingua italiana come mezzo di comunicazione. C’era da parte loro una pro- fonda identificazione con l’essere italiani e con il privilegio di poter utiliz- zare l’italiano con il suo gergo, i suoi accenti, le sue sfumature non appena si fosse presentata l’occasione di poterlo esercitare con una persona lingui- sticamente altrettanto nativa.
2. Portes et al., “L’adattamento degli immigrati di seconda generazione in America: sguardo teorico ed evidenze recenti”, in Sospiro G. (2010) (a cura di), Tracce di G2, Fran- coAngeli, Milano.