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e politico-istituzionale nel quale si muovono i protagonisti della ricerca

4. Adolescenza e percorsi identitar

4.4. Il rapporto con gli elementi caratterizzanti le radici etniche: religione e lingua

4.4.2. Lingua italiana e lingua d’origine

La lingua parlata in famiglia, oltre al rapporto con il sistema scolastico, incide profondamente sul modo con cui le seconde generazioni si inseri- scono nella società d’accoglienza. L’uso della lingua è inestricabilmente le- gato alle dinamiche presenti all’interno del nucleo familiare ed è un banco di prova per affrontare il livello, le strategie e le modalità dell’integrazio- ne di questi giovani. La scelta della lingua, da parte dei genitori, quindi, ci aiuta a comprendere meglio come questi tentino di assicurare ai propri fi- gli le condizioni per l’inserimento nella società italiana. La lingua utilizza- ta all’interno delle mura domestiche è un indicatore per comprendere la te- nuta del progetto migratorio familiare e permette di constatare quale sia il livello di avanzamento del percorso di insediamento sia del giovane che dell’intero nucleo familiare nella società d’arrivo (Bartolini, Morga, 2007).

Il mantenimento della lingua, così come di altre forme tradizionali, in- fatti, non implica una mancata integrazione, ma, al contrario, può costitu- ire una serie di risorse suppletive, perché il successo dell’inserimento non è legato alla totale rinuncia dei propri valori e delle proprie tradizioni in favore di quelli del paese d’arrivo. La migliore riuscita delle seconde ge- nerazioni è connaturata al mantenimento dei propri riferimenti cultura- li integrati alla soddisfazione delle richieste di accettazione del gruppo do- minante.

La lingua è uno degli elementi che formano l’identità. In quale lingua si pensa e in quale si preferisce parlare permette di strutturare l’identità in vista dell’appartenenza ad una determinata cultura. L’elemento linguisti- co così consente alle seconde generazioni di scegliere da che parte stare nel momento in cui sono in difficoltà a causa dell’oscillazione tra la cultura d’origine e quella del paese in cui sono nati e/o stanno crescendo.

Nelle famiglie indagate si parlano generalmente due lingue: l’italiano preferito dalle seconde generazioni, soprattutto tra fratelli/sorelle, ma come vedremo a volte anche dalle prime generazioni, e la lingua d’origine parla- ta prevalentemente da queste ultime, ma in molti casi anche dai figli. Come per la religione, anche per l’uso della lingua, per quanto riguarda i ragazzi, è determinante il luogo di nascita, inoltre se non si è nati in Italia e vi si è giunti durante l’infanzia, si tende maggiormente a conservare la lingua d’o- rigine, mentre chi è nato in Italia, capisce ma ha scarse competenze nella lingua d’origine. Il mescolamento linguistico dunque emerge in modo mol- to forte nelle famiglie nelle quali sono presenti la prima e la seconda gene- razione, mentre molto probabilmente nelle famiglie che creeranno le attuali seconde generazioni la lingua d’origine tenderà a scomparire.

Tra gli intervistati l’utilizzo di entrambe le lingue è prerogativa soprat- tutto dei ragazzi più maturi

Penso in tutte e due le lingue. So scrivere bene e parlare l’arabo anche grazie ai miei che mi hanno permesso di mantenere questa cosa, che, secondo me mi è ser- vito, perché comunque sia lavorando in un’organizzazione internazionale posso sfruttare al meglio molte lingue. A casa mia parlo in tutte e due le lingue, quindi sono abituato a pensare in tutte e due le lingue, magari mi viene una frase forma- ta da parole italiane e parole marocchine (Am., 23, italo-marocchino).

L’italiano lo scrivo con un po’ di difficoltà, ma lo scrivo, perché ho studiato fran- cese, lingua italiana è un po’ vicina a quella francese, ma non è al 100%, anche l’italiano fa errori, discuto con italiani che alcune parole italiane non le sanno. In famiglia parliamo arabo e italiano (Mo., 49, marocchino).

Il bilinguismo favorisce uno sviluppo di apprendimento maggiore e au- menta la capacità di comprendere concetti e visioni (Lotman, 2006). Que- sto giovane è uno dei più proiettati verso l’assimilazione selettiva, infatti, è evidente quanto il background familiare lo abbia favorito in questo proces- so, dato che sia lui, sia il padre sono giunti, come tanti altri immigrati, con un patrimonio linguistico variegato: l’arabo, il dialetto locale, l’italiano e la lingua dell’ex colonia del suo paese, in questo caso il francese. Nelle fami- glie albanesi accade, invece, il contrario

La lingua albanese la so parlare, ma non scrivere. Penso in italiano e preferisco parlare in italiano. In famiglia parliamo in italiano e in albanese. Con mia madre parlo albanese, con mia sorella in italiano, quando siamo tutti e tre parliamo in al- banese (Eg., 15, albanese).

Questo adolescente è uno dei tanti, soprattutto tra coloro che provengo- no dall’area balcanica, che della lingua di origine conoscono soltanto alcu- ne parole, quindi quando si recano nel paese di provenienza, durante le va- canze, hanno difficoltà a comunicare con i parenti.

In alcune famiglie, come si è accennato, l’italiano viene parlato anche dai genitori, in particolare da quelli che sono in Italia da una ventina d’an- ni, la metà della loro vita, quindi in fondo anche loro si sentono in mezzo e a differenza di altri esponenti della prima generazione si può dire che si sentono maggiormente proiettati verso la cultura italiana.

Misto, con la moglie italiano quasi sempre, con i figli italiano al 90%, poche vol- te lingua nostra. Con la moglie famo tre parole nostre e poi in italiano, è un mi- sto, quasi della metà della mia vita che sono qui. Non abbiamo mai forzato i figli che per forza devono imparare la lingua mia, che è giusto pure, che tanto le ori- gini tue sono sempre quelle e loro parlano, grammaticamente magari male, però parlano. È venuto col tempo, non è che prima impari lingua mia e poi impari ita- liano. Tanto se sei venuto qui e vivi qua, se esci, vai all’asilo, vai a scuola, perché vai fuori e parli bosniaco, perciò è la priorità parlare italiano (Mi., 42, bosniaco).

La figlia di quest’uomo, infatti, ha dichiarato:

I miei con me parlano in italiano. Ho chiesto ‘sta cosa proprio a papà, perché ero curiosa, perché loro hanno passato vent’anni in Bosnia della loro vita e vent’anni in Italia, babbo mi ha detto: “io penso in italiano”. Infatti, io non parlo benissimo la lingua bosniaca, perché anche a casa parliamo in italiano. In slavo scrivo male, però ci provo, magari faccio qualche errore di ortografia (Se., 20, bosniaca).

L’assimilazione avviene anche con modalità di cui il migrante non ha il pieno controllo, come per esempio parlare la lingua del paese di arrivo an- che con i connazionali, perdendo l’abitudine di utilizzare l’idioma di ori- gine:

Io ho iniziato a parlare metà italiano e metà spagnolo. Con amici e parenti conna- zionali purtroppo non parlo più lo spagnolo. Prima quando parlavo con peruvia- ni che parlavano in italiano mi dava fastidio, perché io cercavo di continuare con questa appartenenza, ma adesso anch’io lo faccio. Magari quando parliamo tra pe- ruviani, parliamo in italiano, anche fuori casa, per salutarci diciamo: ‘ciao, co- me stai?’ Sinceramente non so il perché, è una cosa che dà fastidio. Quando io fi- nisco questa conversazione e mi rendo conto che ho parlato in italiano, non è che mi sento bene, però comunque lo faccio, senza volerlo, non è una questione pre- meditata, che io vado e parlo in italiano. No, cioè mi viene spontaneo. Io lavoro per una famiglia italo-argentina, ma lei mi parla in italiano e parla benissimo lo spagnolo, io parlo in italiano. Questo è imputabile alla quotidianità, di stare sem- pre in contatto con le persone che parlano in italiano, perché in qualche modo an- che se sei straniero ti senti un po’ che appartieni alla cultura italiana. Non parlan- do più spagnolo penso che sto perdendo qualcosa, mi fa stare tanto male, quando

mi rendo conto che sto parlando in italiano e non nella mia lingua mi sento male. Lo faccio in maniera automatica, spontanea (Mi., 38, peruviana).

A casa parlo spagnolo, poi ci sono tante parole che dico in italiano, perché non mi ricordo come si dicono in spagnolo in quel momento. La maggior parte delle volte penso in italiano (Na., 17, peruviana).

Usare la lingua italiana ha una funzione ambivalente per questa don- na, perché da un lato se ne rammarica, in quanto si rende conto che in que- sto modo sta perdendo il contatto con una parte importante delle sue radi- ci, dall’altro inconsciamente accelera il processo di inserimento sia suo che della figlia che, come quasi tutti gli altri esponenti di seconda generazione pensa in italiano.

In famiglia parliamo tutte e due, però più italiano, però quando mio figlio doveva imparare la mia lingua l’ho fatto tornare a casa da solo.

D.: Per lei è stato importante che lui imparasse il filippino?

Certo, perché poi doveva imparare e nel frattempo sono venuti i cugini, perché qui a un certo punto si è sentito solo. Si, aveva degli amici, ma un amico vicino vicino, non ce l’ha, allora i cugini nel frattempo sono venuti e poteva parlare con loro, comunicare, stabilire un rapporto proprio come cugino, come parente, allora a questo punto credo che non si è sentito più solo (Ma., 54, filippina).

Il filippino lo so parlare, come anche l’italiano e per me è indifferente parlare in italiano o in filippino, anche se penso in italiano. Con mia madre parliamo italia- no (Ke., 22, italo-filippino).

Diversamente dalla donna peruviana si è comportata la donna filippi- na, che ha voluto a tutti i costi che il figlio imparasse la lingua-madre, co- sì lo ha mandato un anno nel paese di origine. È interessante notare che lei ha anche insistito affinché il figlio prendesse la cittadinanza italiana, spin- gendolo così ad una forma di assimilazione selettiva: il ragazzo, infatti, do- po alcuni anni di indecisione rispetto al suo futuro ha trovato la sua strada ed è ben inserito nel settore della fotografia a Milano. Lui, come il ragaz- zo marocchino, è tra coloro che stanno compiendo un percorso maggior- mente proteso all’assimilazione selettiva, che è stata possibile anche gra- zie all’apprendimento della lingua d’origine. Questo risultato è dovuto al

background socio-economico di provenienza. La donna filippina è laurea-

ta in economia e commercio, è in Italia da oltre trent’anni, fa volontariato nell’Anolf-Cisl della provincia di Ascoli Piceno e svolge il doppio lavoro: colf e imprenditrice. L’uomo marocchino, non è laureato, ma in Marocco era dipendente di una società dell’acqua, tutti gli albanesi intervistati, inve- ce, hanno titoli di studio medio-bassi, svolgono lavori con bassa qualifica e

poi non va dimenticata l’alto tasso di propensione all’assimilazione classica degli albanesi (Pattarin, 2007).

Le seconde generazioni dovrebbero conservare la lingua, elemento fon- damentale del patrimonio culturale d’origine. Questo aspetto andrebbe sot- tolineato soprattutto a quegli insegnanti che spingono le famiglie immi- grate a non parlare nella lingua d’origine con i propri figli. Lo studente immigrato non dovrebbe essere mai considerato una tabula rasa da riempi- re con una nuova lingua (Favaro, Napoli, 2002). La lingua d’origine non è un ostacolo da rimuovere, ma al contrario è un fondamentale elemento per la costruzione di un’identità completa del minore di seconda generazione, che viene anche agevolato da essa nella fase di apprendimento.