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e politico-istituzionale nel quale si muovono i protagonisti della ricerca

4. Adolescenza e percorsi identitar

4.1. Mutamenti sociali, relazioni e identità

I processi di globalizzazione in atto da diversi decenni hanno modifica- to radicalmente l’assetto sociale e le strutture identitarie. Ciò che un tem- po era considerato marginale oggi occupa un posto centrale e la società oc- cidentale è solcata da differenze. «La marginalità sociale si è trasformata sotto i nostri occhi in differenza sociale, sollevando l’ingarbugliato proble- ma dell’identità» (Pattarin, 2007: 69). Stiamo dunque assistendo ad un ri- mescolamento tale per cui tratti della cultura occidentale sono penetrati in paesi storicamente tradizionalisti ed i paesi occidentali, in seguito all’arrivo dei migranti, sono indotti a confrontarsi con culture altre, a spogliarsi del- la presunta supremazia culturale, ponendosi in maniera relativista. Essen- do cadute tutte le certezze del compromesso di metà secolo (Crouch, 2001) non possiamo più permetterci di ragionare con i paradigmi del ‘secolo bre- ve’ (Hobsbawn, 1997). Noi ‘occidentali’ di conseguenza stiamo cercan- do, non senza difficoltà, di adattarci alla nuova realtà, alle nuove povertà, ad un welfare sempre più carente1. Il “falso successo del mondo liquido” 1. La letteratura sull’analisi delle conseguenze della globalizzazione è molto vasta. Molti sono gli studiosi che si sono soffermati sulle sue conseguenze negative, ponendo l’at- tenzione in particolare sull’aumento delle disuguaglianze sociali. Le pubblicazioni più pre- gnanti sono: Sen A. (1994), La disuguaglianza, il Mulino, Bologna; Sennett R. (1998),

L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano; Sassen S. (2002), Globalizzati e scontenti, il Sag- giatore, Milano; Sassen S. (2008), Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino; Castells M. (2002), La nascita della società in rete, Università Bocconi, Milano; Castells M. (2003), Volgere di millennio, Università Bocconi, Milano; Beck U. (2000), La società

del rischio, Carocci, Roma; Beck U. (2010), Potere e contropotere nell’età globale, Later- za, Roma-Bari; Gallino L. (2012) La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma- Bari; Hardt M., Negri A. (2002), Impero, Rizzoli, Milano; Paci M. (2005), Nuovi lavori,

nuovo welfare, il Mulino, Bologna; Touraine A. (2000), Come liberarsi del liberismo, il Saggiatore, Milano; Touraine A. (2008), La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggia-

(Spedicato, 2012) sta determinando delle profonde crisi identitarie, dovu- te sia alla mancanza di punti di riferimento ideologici solidi e di progettua- lità collettive, sia all’inedita condizione di straniero nella sua stessa patria che sta vivendo l’individuo. Nella transizione culturale, economica e socia- le in atto i migranti non sono esenti dal processo di rivisitazione e rimessa in discussione della propria identità: la loro condizione, infatti, li spinge a mutare aspettative, relazioni sociali, capitale sociale e paradigmi culturali.

L’identità, come è noto, permette l’organizzazione del significato della propria esistenza. A questo proposito, prima di valutare quali sono i pos- sibili percorsi identitari delle seconde generazioni, prendiamo in consi- derazione alcune definizioni, complementari tra loro, di questo concetto. Secondo Manuel Castells l’identità: «è un processo di costruzione di signi- ficato fondato su un attributo culturale, o su una serie di attributi cultura- li in relazione tra loro e ogni individuo può sviluppare molteplici identità, ma tale pluralità è causa di stress e contraddizioni» (2004: 6). Eide Spedi- cato specifica che «l’identità si presenta come un intreccio di componen- ti individuali e collettive e segna il confine tra la sfera della soggettività e quella dell’oggettività; è una sorta di pelle della quale non si può fare a me- no, vuoi perché ci definisce, vuoi perché ci consente di entrare in relazio- ne con il mondo. Senza identità, infatti, non ci si può collocare nella realtà sociale, compiere scelte coerenti, individuare linee di condotta significa- tive» (2006: 152). Per Niklas Luhman, invece, «un’identità è una genera- lizzazione simbolica che si impone al flusso dell’esperire di senso consen- tendo a quest’ultimo di riferirsi a se stesso e di accrescere così la propria complessità» (Baraldi, Corsi, Esposito, 1990: 90). Infine, non si può non te- nere conto di quanto ha sostenuto a tal riguardo colui che più di altri si è posto il problema degli stereotipi sociali e dello stigma, Erving Goffman: «l’identità personale è legata alla supposizione che l’individuo possa diffe- renziarsi da tutti gli altri e che intorno a questo modo di differenziazione si possa collegare una storia continua di fatti sociali che costituiscono la so- stanza appiccicosa a cui si attaccano tutti gli altri fatti biografici. È difficile comprendere come l’identità personale possa giocare, e in realtà giochi, un ruolo strutturato, abitudinario, standardizzato, nell’organizzazione sociale, proprio a causa di questa sua unicità» (2004: 74).

Il processo di strutturazione dell’identità avviene grazie alla comunica- zione, attraverso la quale gli individui coordinano i loro significati; con es- sa, infatti, si formano le nostre personalità e le nostre istituzioni. Attraver- so questo processo queste ultime si ricostituiscono nella pratica. Secondo Barnett W. Pearce, infatti, «le forme della comunicazione alla quale parte-

tore, Milano; Touraine A. (2012), Dopo la crisi. Una nuova società possibile, Armando, Roma; Martell L. (2011), Sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino.

cipiamo sono i ‘contenitori’ della personalità, dei propositi della conoscen- za e delle credenze che abbiamo» (1993: 42). Nel percorso della formazio- ne dell’identità (frutto dell’insieme di vari elementi: memoria collettiva, religione, valori morali condivisi, fantasie personali, propria modalità di percepire la realtà e di rapportarsi ad essa, ecc.) ogni individuo aspira ad ottenere un’immagine di sé che lo soddisfi e allo stesso tempo che lo renda membro di più gruppi sociali. Ciò comporta che deve faticare non poco per raggiungere questo obiettivo. Altro elemento che ha una funzione fonda- mentale nella costruzione dell’identità è l’ambiente, nel quale l’individuo si adatta o nel quale al contrario vive il disagio dell’interazione con gli altri.

Nell’analisi della costruzione dell’identità oggi si deve necessariamente tenere conto del policentrismo formativo, vale a dire dell’allargamento nei contesti di formazione, dei tempi e delle agenzie di socializzazione; dun- que della profonda trasformazione dei percorsi di socializzazione-apprendi- mento (Marra, 2005a).

Il risvolto negativo del policentrismo formativo è la “doppia assenza”, condizione che l’immigrato vive, in quanto si sente costretto a rivisitare la sua identità, perché le categorie imposte dalla società in cui è inserito lo inducono a sperimentare più riferimenti identitari. Nel paese d’arrivo è l’o- spite, mentre quando torna nel paese d’origine è l’emigrante che ritorna, re- stando sempre sospeso nel transito, nel viaggio, in questo modo non è col- locabile né tra i cittadini, né tra gli stranieri, ma esattamente nel mezzo, nella frontiera (Sayad, 2002). Se la società di arrivo evita che l’immigrato viva in modo drammatico la sua condizione di transizione, le seconde ge- nerazioni percepiranno un clima volto all’inclusione. Le modalità con cui queste si inseriscono nella società dove sono nate o sono giunte è determi- nante per i processi di integrazione delle generazioni successive. Il grande sforzo culturale da fare è quello di evitare la contrapposizione Noi/Loro, altrimenti si rischia di fomentare nei giovani di origine straniera sentimen- ti di ostilità verso la società di approdo. Il primo passo per porsi con un at- teggiamento di accoglienza è mettere in discussione le cosiddette “certez- ze” che si hanno sui migranti. Si tratta di quelle certezze che strutturano e vincolano le modalità di relazione, di pensiero e di azione, definendo l’a- genda di ciò che è prioritario e necessario fare verso chi viene considera- to straniero2. Le “certezze” svolgono la funzione di costruire una diffe- 2. Enzo Colombo ha analizzato nel dettaglio le tre certezze più importanti sugli stranie- ri, mettendo altresì in evidenza la loro parte critica, per decostruirle e per dimostrare che queste non sono assolute. «La prima è che gli altri fanno paura. La spiegazione: la presen- za di un estraneo favorisce una reazione istintiva ed inevitabile di sé e del proprio gruppo. La prima reazione di fronte ad uno straniero, la più naturale, profonda, normale è la dif- fidenza, l’ostilità, il panico che scatena una risposta aggressiva o la fuga. È una paura an- cestrale, che viene da quando si era diffidenti dell’Altro, che poteva sottrarre la preda o la

renza “di sostanza”, che definendo un confine determina le caratteristiche proprie del Noi, costituendo, al contempo il Loro come specularmene di- verso e collocandolo fuori dello spazio sociale. Al Loro viene così negata la possibilità di relazionarsi al Noi, perché non viene riconosciuto. Il pro- blema è che lo straniero, a causa delle “certezze” perde la sua soggettivi- tà, viene oggettivato e percepito soltanto come il deviante, il diverso, la mi- naccia all’ordine costituito. Alla base di questo approccio c’è una visione del Noi come unico detentore di diritti, a differenza del Loro vissuto come qualcosa di inferiore e da allontanare. Il problema sorge anche nel momen- to in cui l’immigrato viene percepito non solo come concorrente nell’acces- so al lavoro e allo stato sociale, ma anche come portatore di istanze cultu- rali ritenute incompatibili con quelle autoctone, dunque percepite come non integrabili, ma esclusivamente altre, se non addirittura devianti. Il Loro sa- rà riconosciuto come tale soltanto se sarà compreso, accettato, e accolto in quanto soggetto, cioè se sarà percepito e riconosciuto come un elemen-

donna agognata, quindi (passaggio al razzismo), bisogna attaccare per primi, perché la sua esistenza è nociva. Lo sguardo critico la paura dell’Altro è una possibilità che non esauri- sce necessariamente le dimensioni dell’“incontro” con l’Altro. La presenza dell’Altro può costituire una minaccia, può mettere in discussione le abitudini e le verità più profonde, ma costituisce anche una potenzialità, consentire il superamento del già dato e dei vinco- li delle consuetudini, introduce il mutamento in una comunità altrimenti chiusa e destina- ta all’inaridimento.

La seconda è che gli altri sono nostri concorrenti. La spiegazione: lo sono sia sul pia- no delle risorse economiche, sia su quello dei valori, dell’identità e della cultura, se si vuo- le rimanere ciò che si è sempre stati, se si vuole preservare la propria natura è necessario difendere la propria differenza, evitando che si annulli nel contatto con l’Altro. Lo sguar- do critico: antropologicamente le differenze, le identità e le culture non esistono come enti- tà separate, autonome, pure. Le diverse culture costruiscono gli interlocutori di un dialogo persistente in cui il confronto continuo con l’Altro definisce e arricchisce la definizione del Noi. Nella storia umana nessuna cultura, nessuna identità si è costituita nell’isolamento. Le società chiuse sono destinate più al declino e all’esaurimento che al mantenimento di un’i- dentità forte. Lo scambio, l’ibridazione e il conflitto costituiscono dimensioni più costan- ti e feconde per il successo e la sopravvivenza delle specificità dei diversi gruppi umani di quanto non lo possano essere il rifiuto dell’Altro e la rigida difesa dei confini.

La terza è che gli altri sono radicalmente diversi da noi. La spiegazione: nella visione più ostile ai migranti, la differenza essenziale tra noi e loro trasforma gli altri in un’imma- gine speculare del noi. Loro sono speculari a noi e ci restituiscono un’immagine del nostro passato, sono e fanno ciò che noi non siamo e non facciamo più. Costituiscono un’imma- gine arcaica che deve essere corretta, l’evidenza di soggetti incivili, arretrati, inferiori che devono essere educati a una piena umanità. Lo sguardo critico: ritenere che le culture e le identità consentano di distinguere in modo netto tra gruppi diversi, caratterizzati da uni- formità al loro interno, si scontra con un’evidenza, sempre più diffusa in un contesto di crescente globalizzazione, fatta di esperienze globalizzate, di appartenenze multiple, di identità molteplici e stratificate. La differenza è soltanto una parte dei rapporti fra gli esse- ri umani, mentre comunità, solidarietà e comunicazione sono l’altra parte. Quando la dif- ferenza da sola diventa una bandiera, i risultati sono necessariamente violenti» (Colombo E., 2008: 23-41).

to attivo di mediazione sociale, in possesso di un’identità culturale libera- ta da forme storicamente determinate di organizzazione sociale (Touraine, 1998). Questa è una visione manichea del rapporto con i migranti, che si contrappone alla visione incentrata sulla reciprocità, nella quale la relazio- ne di interdipendenza autoctono/straniero si esprime attraverso sguardi in- trecciati. Lo sguardo intrecciato, vale a dire l’atteggiamento degli immigra- ti di essere costretti contemporaneamente sia a porre lo sguardo su come si sentono percepiti dagli autoctoni, sia ad approcciarsi alla società ospitan- te con la propria visione. Questo ‘strabismo’ fa sì che si attivino numero- si cambiamenti culturali, tra i quali vanno compresi sia il cambiamento di prospettiva rispetto al quale l’autoctono è spinto a percepire in modo nuovo i mutamenti sociali (Pattarin, 2004), sia la ricostituzione dell’identità degli stessi immigrati attraverso le diverse esperienze, i diversi ambienti nei qua- li interagiscono. Tuttavia, gli immigrati non sempre aspirano a conformarsi alle norme dominanti, è riduttivo ed improprio pensare che questi siano in- casellabili in determinati scomparti.