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GLORIA E UMILIAZION

IL GRANDE SANTO PROTETTORE DI CANNALONGA: TORIBIO MOGROVEJO

GLORIA E UMILIAZION

Quella chiesa che incominciava a nascere nel Nuovo Mondo appena scoperto e in condizioni tanto difficili, aveva bisogno della presenza tranquilla e prolungata del suo pastore, dell’alito della sua persona, del calore della sua anima e perfino del pane della sua mensa.

I venticinque anni della sua vita episcopale furono perfettamente distribuiti nelle tre tappe delle visite generali, corrispondenti ai tre Concili Provinciali e ben dodici sinodi, alcuni a Lima, altri negli angoli più remoti del Perù.

Già dalla prima visita (1584-90) abbiamo visto come le critiche e l’avversione dei suoi stessi vescovi avessero messo in serio pericolo la buona riuscita del III Concilio e queste critiche continuarono anche in seguito, unite ad umiliazioni di tutti i tipi. In regime di Patronato, in cui non era facile distinguere il confine fra interferenze politiche e libertà della Chiesa, egli aveva sempre mantenuto una posizione di grande equilibrio, cercando di evitare ogni conflitto ma, nello stesso tempo, rimanendo fermo nelle sue posizioni. Le lingue malevoli, però, fecero a

brandelli la sua anima, che non si prestava ad essere scalfita da torpidi e indegni interessi.

Incurante degli intrighi e delle cartacce che minavano la sua santità, egli stava mille miglia lontano da quelle miserie umane. Lo troviamo, dopo aver percorso le cordigliere andine, la Nevada e la Negra, nelle province a Nord che confinano col fiume Maranón, visitandole tutte e lasciando tutte organizzate canonicamente. Arriva fino a Libertad, al compartimento di Loreto, a quello di Amazonas; ha il tempo di celebrare, nel luglio del 1585 il terzo sinodo diocesano a Santo Domingo de Yungay, fra le profonde fenditure delle magiche Ande e l’anno seguente il IV sinodo a Santiago de Yambrasbamba.

Ad un tratto deve interrompere le sue scorrerie apostoliche e far ritorno precipitosamente a Lima, alla stessa velocità del corriere espresso inviato dal re. Si tratta proprio di rendere nuovamente un servizio al suo re: Sua Maestà sollecita ai prelati del suo regno una colletta straordinaria per rinsanguare il Patrimonio Reale indebolito dalle spese dei nuovi regni. Inoltre il re deve far fronte all’ingente bilancio preventivo che comporta l’armamento dell’Invincibile Armata contro l’infedele Inghilterra.

Dopo un breve periodo di riposo, poiché mancano due anni al nuovo Concilio Provinciale, riprende il viaggio come una freccia, per la cordigliera al nord, dato che mancano solo due anni al nuovo concilio provinciale - il tempo giusto per andare e tornare. Con un gran salto trasversale, sorpassa le Ande e va a finire sulle spiagge del Pacifico, all’altezza di Lambayeque. Da Trujillo scrive al papa Sisto V: “Ho visitato personalmente.... e sono entrato in luoghi remoti di indios cristiani che ordinariamente sono in guerra con gli infedeli, dove nessun prelato, né visitatore è mai entrato ed ho cresimato più di quattrocentocinquantamila anime”

Nella seconda visita generale, organizza tutto scrupolosamente un giovane sacerdote, don Bernardino de Almansa, in seguito parroco di indios e arcivescovo di Santa Fe di Bogotà .Quello che complicava molto la visita era la dispersione degli indios, distribuiti nelle case di campagna, poderi o piantagioni intorno a un centro popolato o delle volte, isolati in piena sierra. Tutto veniva annotato scrupolosamente dal santo nel suo Libro de visitas e non solo gli uomini, ma anche i capi di bestiame ed altri dati d’interesse socioeconomico, necessari per fissare il salario che le aziende o le piantagioni dovevano corrispondere al sacerdote della parrocchia alla quale appartenevano.

Nelle tre visite pastorali la chiave di tutto fu l’elemosiniere Vicente de Rodriguez che pagava gli accompagnatori con la borsa che provvedeva a riempire il buon Francisco de Quinones, suo cognato e amministratore del suo patrimonio.

Il suo più grande denigratore in quel tempo fu il nuovo viceré Garcia de Mendoza che, geloso dell’amicizia addirittura maniacale che il re nutriva per l’arcivescovo, dal 1590 al 1595 fece una vera campagna diffamatoria nei suoi confronti. Questi, intanto, dopo aver espletato i voluminosi argomenti del IV Concilio da celebrare nel 1591, era partito per la Cordigliera Nord e, dopo averla

attraversata, era ritornato sulle spiagge del Pacifico. La ragione di quel viaggio è da ricercarsi nel fatto che, in quegli anni era scoppiata una grande epidemia di vaiolo nella zona, che aveva decimato mezza popolazione ed egli, mentre i suoi avversari latravano come cani idrofobi, andava, realmente sfinito dalla stanchezza, di capanna in capanna, di casa in casa a trovare gl’infermi e i paralitici, senza alcun timore di contagio o pericolo di morte e a cresimarli “tollerando l’odore pestilenziale e il pus di detta infermità “, ebbe a riferire il suo accompagnatore, Sancho Davila, negli atti di beatificazione.

Intanto a Lima lo schiamazzo cresceva sempre di più, tanto che il Consiglio delle Indie volle rendersi conto dello stato dei fatti e prese per buone quelle dicerie. Non aveva necessità di difendersi il nostro santo: la sua vita era la migliore argomentazione e allorché il re - venendo meno al suo appellativo di “Prudente”, prestando anch’egli fede a quelle beghe, arrivò al punto di togliergli le cedole e gli inviò un rescritto: “Vi prego ed esigo che proviate di fare il possibile per evitare le dette uscite e visite “, egli rispose: “Dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Con questa risposta non fece altro che delineare bene il proprio campo di competenza. ... e ripartì di nuovo.

IL re conosceva bene la cocciutaggine del suo pupillo e rimise il tutto al Tribunale del Consiglio delle Indie. Ormai era vecchio e stanco. Il Consiglio delle Indie mantenne la sua attitudine inflessibile e, unitamente al viceré Mendoza, convocarono in giudizio l’arcivescovo. Questi, però, non si presentò in Tribunale, né la prima volta né nelle seguenti tre convocazioni

Al nuovo viceré, don Luis de Velasco, arriva la nuova richiesta del giovane principe don Filippo III, inesperto ancora di rescritti reali: “Fate in modo di distogliere l’arcivescovo dall’organizzare Concili Provinciali ogni momento e dall’assentarsi per tanto tempo dalla sua Chiesa. “, ma quando il nuovo viceré va a fargli visita con l’urgente messaggio reale, egli gli fa fare anticamera come l’ultimo dei “chinchay” di Cuzco, dando l’ordine al suo camerista di dire all’illustre visitatore che sta pregando e che lo riceverà quando avrà finito di parlare con D io ,...con grande disappunto delle sorella Grimanesa !

Fortunatamente i componenti la classe ecclesiastica e secolare di maggior rilievo in Lima, che non erano stati contaminati da tante false dicerie e i tanti amici che ancora aveva fra i consiglieri della Corona e i vecchi, affettuosi colleghi del suo amato Colegio Mayor de Oviedo, garantirono per lui e inviarono una petizione al nuovo re, ma poiché il Consiglio delle Indie non ne volle tenere nessun conto, il nostro arcivescovo si riservò, a sua volta, di promuovere ogni specie di giudizio, non sopportando i modi vicariali e del Consiglio delle Indie e della stessa Corona.

Ancora una volta Toribio aveva trionfato. Nel 1595 il viceré fu rimosso dall’incarico e il re gli rinnovò tutta la sua stima.

Riprende poi la sua visita interrotta a causa di queste beghe e, tanto per incominciare, si addentra nelle montagne di Moyobamba, cosa che impressiona

tutti perché è una regione piena di indios guerrieri (dicevano), oltre ad essere una “terra circondata da montagne, paludosa, soggetta a grandi acquazzoni, aspra e scabrosa, di pendii e fiumi insormontabili...” Molte persone cercarono di dissuaderlo, ma egli aveva già preso la sua decisione irrevocabile: ”c’era bisogno di molta dottrina cristiana che gl’indios di quella regione non avevano “

Successe nella discesa dalle montagne, in un costone lunghissimo, molto scosceso. Gli indios lo chiamavano La Cacallada, che significava terra rocciosa, coperta di alberi, dove a mala pena potavano camminare le cavalcature. Li sorprese una tormenta della categoria andina di prima classe: oscurità totale, rotta da una fantasmagoria di bagliori e di lampi e una tromba d’acqua che travolse il gruppo e tutti si ritrovarono abbandonati al disperato istinto dei cavalli che, elettrizzati dalle folgori, nitrivano e minacciavano di precipitare ogni momento, pazzi e bellissimi in quell’inferno dantesco. Alla fine il cavallo del santo s’impantanò e disarcionò il signor arcivescovo che cadde svenuto nel fango, tanto da sembrare morto. Il suo fedele Diego de Rojas l’unico che gli era rimasto vicino, spaventatissimo, voleva caricarselo sulle spalle per uscire da quella melma e risalire il costone, ma egli rifiutò e accettò solo di “esser preso per mano.” Alla fine, a sbalzi, finita la pioggia e apparsa la luna attraverso uno squarcio di nubi nere e minacciose, arrivarono alla vetta dove il nostro santo si lasciò cadere a terra sfinito. Dopo un po’ arrivò, trafelato,il suo Sancho Davila, finito anche lui nella melma, e insieme presero l’arcivescovo e lo ricoverarono in una stalla, dove accesero un fuoco per asciugare la sua veste e farlo rianimare strofinandogli sul corpo la lana di un materasso dei pastori

A giorno fatto, incominciarono ad arrivare gl’indios delle capanne vicine, increduli come davanti ad un miracolo nel vederlo vivo, e, siccome si era di domenica, l’arcivescovo volle celebrare la messa nella loro lingua “con tanto fervore e viso così sorridente da sembrare che non gli fosse successo nulla” Fu un solenne pontificale sulla vetta delle Ande, senz’altra pomposità prelatizia che la sua veste ricoperta da macchie di sangue rappreso e fango asciugato. Il disco del sole sigillava, in quel momento, come una custodia di gloria eucaristica, questa prima messa solenne sull’altare vivo del nostro santo arcivescovo davanti a un gruppetto di indios commossi e piangenti.

Poteva dirsi soddisfatto il nostro santo per aver sopportato bene tante fatiche nelle diffìcili visite pastorali. Lasciò organizzata quella regione così desolata in due parrocchie-dottrine nelle quali integrò seicento indios tributari di tutta quella inospitale terra montuosa. Per l’estrema povertà del luogo, attese che gli arrivasse il salario per i due “doctrineros” attinto dalle decime della mensa episcopale e cioè dalla sua borsa, cosa che faceva con molta frequenza.

Si occupò anche - col suo patrimonio - della riparazione e dotazione di cappelle nei nuclei di maggiore densità che non avevano ornamenti e nemmeno campane “Si suonava la messa con un tritone” E siccome non si potevano aspettare da Lima aiuti rapidi e non poteva andarsene senza aver testimoniato il suo affetto

per le sue cappelle - parrocchie, scrisse al cognato di vendere tutto il suo bellissimo vasellame d’oro e d’argento, quello che abbiamo visto inventariato dal notaio Benito Luis a Sanlucar e ripartì bevendo in ciotole di zucca e piatti di terracotta...

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