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LIBORIO BONIFACIO ED IL SIERO DELLA SPERANZA

3 Ibidem, pag 24.

letteralmente gli avanzi di una gustosa torta alla ricotta, magistralmente preparata dalla moglie Gaetana4. Tornato a letto, iniziò a riflettere sul suo lavoro di ispezione delle carni macellate. Improvvisamente un pensiero lo fulminò: in tanti anni di professione non aveva mai notato caprini affetti da neoplasia, in tutti gli altri animali si, ma nelle capre mai!

Cominciò ad interrogarsi se questa specie fosse refrattaria ai tumori e se fosse possibile trasferire questa immunità o immuno-resistenza all’uomo.

Del resto, osservò, in natura c’erano altri esempi di refrattarietà a determinate malattie: “per esempio gli uccelli sono refrattari al tetano, il cane al carbonchio ematico, il coniglio al mal rossino, etc.”5.

Bonifacio era consapevole che solo attraverso il lavoro di equipes specializzate si poteva giungere a concreti risultati nell’ambito della ricerca anti-tumorale; però non era da escludere a priori “il colpo di genio o di fortuna di un singolo”6. Ci sarebbe stata la provvidenziale vaccinazione anti-vaiolosa se Jenner non l’avesse sperimentata sul piccolo Phipps? Si sentì spaventato ma attratto da questa riflessione.

La mattina dopo, si alzò dal letto con un tarlo che oramai rodeva il suo cervello: cosa poteva provocare la refrattarietà della capra al tumore e come trasferire quest’ultima agli uomini?

Riprese, così, gli studi di fisiologia cellulare e di genetica. La mai sopita passione del ricercatore ebbe finalmente sfogo.

Iniziò a divenire, questo, il leit - motiv della sua esistenza, trasformandosi egli in un conversatore monotono e noioso di malattie tumorali con tutti i suoi interlocutori.

Volle, innanzitutto, verificare in pratica la immuno-resistenza dei caprini alle neoplasie, provando a trapiantare dei tumori ad esemplari di questa specie: constatò che essi non attecchivano sulle cavie.

Si rese conto che questa empirica sperimentazione non era valida, potendosi trattare di un classico caso di rigetto. Sottopose, allora, dei capretti appena nati ad una serie di trattamenti infettanti, spennellando, sulla pelle rasata, catrame e benzopirene, senza ottenere risultati.

Provò, infine, ad inoculare per via endovena alle bestie cellule neoplastiche centrifugate. Ancora niente.

Bonifacio si convinse che i caprini avevano un tipo di anticorpo che impediva l’insorgenza dei tumori.

La mattina dopo, si alzò dal letto con un tarlo che oramai rodeva il suo cervello: cosa poteva provocare la refrattarietà della capra al tumore e come trasferire quest’ultima agli uomini?

4 L. BONIFACIO, La mia cura contro il cancro; Savelli Ed., Milano 1982. 5 Ibidem, p. 12.

Riprese, così, gli studi di fisiologia cellulare e di genetica. La mai sopita passione del ricercatore ebbe finalmente sfogo.

Iniziò a divenire, questo, il leit - motiv della sua esistenza, trasformandosi egli in un conversatore monotono e noioso di malattie tumorali con tutti i suoi interlocutori.

Volle, innanzitutto, verificare in pratica la immuno-resistenza dei caprini alle neoplasie, provando a trapiantare dei tumori ad esemplari di questa specie: constatò che essi non attecchivano sulle cavie.

Si rese conto che questa empirica sperimentazione non era valida, potendosi trattare di un classico caso di rigetto. Sottopose, allora, dei capretti appena nati ad una serie di trattamenti infettanti, spennellando, sulla pelle rasata, catrame e benzopirene, senza ottenere risultati.

Provò, infine, ad inoculare per via endovena alle bestie cellule neoplastiche centrifugate. Ancora niente.

Bonifacio si convinse che i caprini avevano un tipo di anticorpo che impediva l’insorgenza dei tumori.

II

A questo punto il veterinario siciliano, si risolse di ricavare un siero, un estratto, che contenesse quei principi benefìci per poi, in una seconda fase, trasferirli all’uomo.

Da dove estrarre questo principio? In quale punto dell’organismo dei caprini si produceva la sostanza immunizzante? Il dottor Bonifacio escluse il sistema ghiandolare, poiché esso svolgeva un’attività circoscritta alle sole funzioni dell’organo di appartenenza. Intuì che l’apparato digestivo della capra fosse una parte, per così dire, convogliante dell’intero organismo dell’animale, una sorta di' “terminale” naturale della fisiologia dell’animale.

La conclusione fu che decise di ricavare il siero dalle ghiandole del sigma- colon caprino e quindi lo estrasse dalle feci dell’animale macellato. D’altro canto, l’idea di curare il cancro con un contenuto gastrointestinale caprino, era già nota nell’antica Persia ( il c.d. “padzahr”), da qui era passata agli Arabi (che ebbero a denominarla “bazar”), poi in Europa (il “benzoar”) ed intorno all’anno mille anche in Italia.

Era nato il “siero Bonifacio” !.

Il metodo di estrazione e preparazione era il seguente: “ si estraggono all’interno della capra macellata le feci e si mescolano con urina, prelevata dalla vescica dello stesso animale, aggiungendo circa 1/3 di acqua bidistillata. Si lascia macerare il tutto per circa 48 ore. Si filtra, prima con normale carta da filtro e,

successivamente, con filtri sterilizzanti “millipore”, ottenendo così una sostanza liquida di colore giallo paglierino scuro”7.

Bisognava, dunque, sperimentare se quel derivato era innocuo per gli altri esseri viventi.

Fu così che la piccola casa del veterinario fu invasa da piccole cavie di ogni specie, come topolini, conigli, gatti, cani.

Con iniezioni intracardiache, ed a dosi massicce, fu inoculato il derivato agli animali, che restavano vivi e vegeti.

Ebbe il timore che l’assenza di tossicità del prodotto potesse derivare dalla singola ed isolata somministrazione.

Procedette, allora, a verificare la velenosità del siero nel tempo, iniettando a trenta ratti, dal peso di duecento grammi ciascuno, massicce dosi di preparato per sei mesi: tutti gli animali trattati rimasero vivi, anzi, qualcuno sembrò addirittura rinvigorito dalla insolita “cura”.

Certo dell’assoluta atossicità del prodotto, iniziò a somministrarlo ad animali affetti da tumore, come topi e cani ed a curare conigli sofferenti di ciste emorragica.

Sui ratti il siero non dava gli esiti sperati, benché gli animali non mostrassero segni di regressione; sui cani e sui conigli funzionava alla grande, conducendo, spesso, alla totale sparizione dei sintomi.

La sua casa divenne una sorta di piccola arca di Noè, piena di bestie di ogni tipo.

Questa sperimentazione comportò evidenti disagi all’intera famiglia, costretta a vivere in una sorta di giardino zoologico.

L’avvocato Giuseppe Bonifacio, terzogenito dell’illustre veterinario, così racconta: “Ero un bambino quando osservavo quei poveri conigli ammalati e semi­ moribondi, che urinavano sangue. Dopo pochi giorni, li ritrovavo sani e vivaci, quasi fossero resuscitati”.

La notizia di questi esperimenti, nonostante la riservatezza del dottor Bonifacio, dilagò ad Agropoli: quell’insolito traffico di bestiole destava meraviglia e curiosità nella comunità del posto.

Nel maggio del 1951, il veterinario fu avvicinato da un ragazzo del paese, che lo implorò singhiozzando di occuparsi della sua povera mamma, malata di carcinoma alla mammella con metastasi.

Il dottor Bonifacio si schermì, sostenendo che non aveva le competenze e la capacità per intervenire sulla donna sofferente.

Il giovane insistette, con gli occhi pieni di lacrime.

Commosso da tanta afflizione, il veterinario guadagnò tempo, affermando che voleva contattare il medico che aveva in cura la donna.

La mattina dopo interpellò il sanitario che gli disse:” è un carcinoma alla mammella destra, che abbiamo asportato un anno fa ma evidentemente era già in atto una metastasi... Non c’è più niente da fare: è questione di giorni, al massimo poche settimane...”8.

Prima di andare a trovare la moribonda, si iniettò per una settimana abbondanti dosi di estratto, senza patire alcuna conseguenza.

Si recò, allora, a casa della povera donna, che trovò in uno stato di profonda prostrazione fìsica: il braccio era orrendamente gonfio ed ella si lamentava disperatamente.

Il figlio disse che ormai i sedativi non facevano alcun effetto. Con mano tremante, il giovane eseguì la prima iniezione del siero.

Il veterinario trascorse una notte insonne, domandandosi cosa sarebbe successo. All’alba si precipitò a casa deH’ammalata: “E’ stazionaria”, gli dissero.

Fu praticata la seconda iniezione: dopo qualche ora la donna iniziò a migliorare.

Il giorno successivo la paziente volle parlargli: “Dottore mi sento meglio, non ho quasi più dolore e riesco a muovere il braccio”.

Il sesto giorno di cura, la donna non avvertiva alcun dolore e l’arto si e ra normalizzato

Accadde una cosa che sconvolse l’euforia del dottor Bonifacio.

Il siero iniettabile era finito e l’inventore si peritò di prepararne altre dosi. Dopo quarantotto ore di intervallo, alla donna fu nuovamente somministrato il siero ma da quel momento ella iniziò a peggiorare.

Il veterinario rimase sconfortato da questa inaspettata involuzione: la sospensione era stata preparata come la precedente! Perché questo inspiegabile peggioramento?

La donna, dopo qualche tempo, morì.

In seguito, qualche medico pregò il dottor Bonifacio di provare ad iniettare il siero a qualche malato terminale. I risultati furono alterni: miglioramenti in alcuni casi, peggioramenti in altri.

Qualcosa non funzionava, credette l’inventore. Ma cosa?

Non fu facile superare questo periodo di stallo: le richieste del prodotto divenivano insistenti e l’inventore si ritrovò nel panico assoluto. Constatare c h e l’estratto provocava, in alcuni casi, un peggioramento nei malati gli causò u n a profonda crisi di coscienza, lui che era un fervente cattolico.

Dopo mesi di esperimento, il dottor Bonifacio trovò la soluzione.

Inizialmente, il prodotto veniva ricavato, indifferentemente, dalle capre d i sesso maschile e da quelle di sesso femminile ed esso veniva iniettato in qualsiasi tipo di tumore. Compilò, dunque, un’accurata statistica, perfezionando la scoperta.: iniettando il prodotto estratto da capre di sesso maschile si registrava un sensibile

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