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IL MOVIMENTATO CONCILIO III DI LIMA

IL GRANDE SANTO PROTETTORE DI CANNALONGA: TORIBIO MOGROVEJO

IL MOVIMENTATO CONCILIO III DI LIMA

Al ITI Concilio di Lima parteciparono vescovi e delegati di quasi tutta l’America spagnola, perché, come si è detto, Lima, capitale del viceregno, aveva

giurisdizione su dodici diocesi. I vescovi erano sette; ad essi si aggiunsero i superiori di tutti gli ordini religiosi Lunghissimo anche l’elenco degli intellettuali, una vera “lista di saggi”, uguale a quella del celeberrimo concilio di Trento: teologi, consultori, giuristi, segretari, avvocati, fiscalisti, procuratori, confessori, elemosinieri....tutti elencati nelle distinte Relaciones che il santo inviò, in seguito, al Consiglio delle Indie e che risultano nel prezioso originale Patronato 248 r° 3 dell’Archivio delle Indie.

Fra essi, uno che li riassume tutti, il teologo consultore più diretto e rilevante in tutti i lavori del Concilio e vero braccio destro dell’arcivescovo: il padre José de Acosta, gesuita, un grande regalo per lui, essendo esperto in ogni campo. Castigliano, di Medina del Campo, aveva studiato di tutto per saperne sempre di più. Teologo, dottore in diritto canonico, professore in moltissimi luoghi, naturalista, poeta, abile nel sormontare gli ostacoli, dotato d’ingegno e di una simpatia travolgente che attirava le genti. La sua lunga esperienza delle Indie e, in particolare, il grande amore per il Perù, lo avevano portato a scrivere il trattato missionologico specializzato De procuranda indorum salute, diventato libro di testo per l’Università di Salamanca. Per il nostro santo fu la Provvidenza vestita da gesuita.

Non era nella mente del nostro arcivescovo fare del Concilio un “Corpus decretorum “, secondo la vecchia usanza.il Concilio III di Lima fu piuttosto un’assemblea fondamentalmente canonica per l’organizzazione della Chiesa Sudamericana con la riforma del clero e pastorale per l’evangelizzazione degli aborigeni, e dei meticci. Con un manifesto senso missionario, senz’altra concezione teorica che quella pastorale del Concilio di Trento, applicata ad una forte base teologica che, in quei tempi, ragguagliava in pieno la legge civile all’ecclesiastica.

Il Concilio scomodava tutti: il clero regolare a causa delle riforme, i vescovi per la perdita dei loro privilegi e gli spagnoli per la difesa degli indigeni, che furono sempre nel cuore dell’arcivescovo.

Già dal primo momento incominciarono le critiche spiacevoli che rischiarono di far chiudere l’assemblea. Man mano che i vescovi arrivavano a Lima, la meraviglia era grandissima nel constatare che l’arcivescovo non era in sede ma in visita pastorale, come se non avesse avuto niente da fare. Egli, però, con altra visione delle cose, aveva capito che la migliore preparazione per tutta la macchina legislativa e pragmatica era la propria e personale constatazione, ponendosi in contatto diretto con i villaggi degli indios, le parrocchie, gli uffici dei rappresentanti del re, del clero e la problematica della vita in generale, “per avere chiarezza e lumi sulle cose concernenti i nativi, che si devono trattare nel concilio” scrisse egli stesso al re dopo la prima lettera di protesta dei vescovi che denunziavano la sua assenza.

Fra questi, quello che diede più grattacapi al nostro santo fu il vescovo di Cuzco, don Sebastiàn de Lartaun e il peggio fu che si tirò vari altri dietro, facendo

causa comune con una serrata. Alla base di tutto questo c’erano, naturalmente gli interessi personali: il vescovo di Cuzco si era riempito gli occhi dello splendore delle vicine miniere d’oro di Potosi e gli altri vescovi non erano disposti a rinunziare alle loro “aziende agricole”. Accusarono perciò il loro arcivescovo di ogni specie di pecche, di sfrontatezza e superbia con clero e governanti, di sfruttamento degli indios, di mancanza di scrupoli, di simonia ecc. Dopo aver invano tentato di evitarlo, il nostro santo, visto che i rumori crescevano sempre di più, pensò che bisognasse “far chiarezza” e denunziare il vescovo sobillatore, nonostante il divieto del re, il quale aveva disposto che non erano ammessi processi contro i vescovi per non turbare il concilio.

A questo si aggiunse che il viceré don Martin Enriquez morì proprio in pieno concilio e così al nostro santo “ venne a mancare ogni aiuto umano “. Rimaneva solo contro tutti e, avvilito scrisse al re: “Ho ricevuto tanto danno nelle incombenze del Concilio che, se fosse stato per me, lo avrei sciolto”. Il re era al corrente di tutti gli intrighi di quel vescovo, tanto che arrivò a sollecitare al papa, con una lettera all’ambasciatore, la sua destituzione immediata, ma non ebbe modo di localizzare l’incriminato perché si andava nascondendo di qua e di là come un fuggiasco.

Tutta la sacra assemblea si lamentava, stanca per la durata di quella questione che durava già da un anno e il suo zelo non poteva consentire tanta perdita di tempo prezioso. Bisognava “porvi fine” al più presto, sebbene a malincuore perché si trattava sempre di un suo vescovo. Pensò allora di denunziarlo e di riméttere il processo a Roma, onde terminare il Concilio in pace.

Presa questa decisione, convocò i vescovi ribelli per metterli al corrente del suo provvedimento, ma, allorché richiese gli atti originali all’archivio, venne a sapere che i vescovi l’avevano preceduto di poche ore. Con un colpo di audacia avevano letteralmente assalito i segretari, appropriandosi delle chiavi e di tutti i documenti che li compromettevano, facendoli sparire. Fece appello, allora, alla forza del Tribunale Reale, dato che da solo “ non ce la faceva a porre rimedio a tanta dissolutezza”.

Il nuovo viceré, don Ramfrez de Cartagena, per questa volta solo e per il conto che ne traeva, diplomaticamente parlando, prese di petto i ribelli e ordinò loro, per mezzo di un provvedimento reale con tutti i sigilli, di restituire i documenti d’archivio, ma essi non ci fecero neppure caso. All’arcivescovo non rimase che far ricorso al Diritto Canonico e li scomunicò, con affissione pubblica in cattedrale. Alla fine potè respirare avendo appreso che il vescovo di Cuzco, ammalato, era partito per la Spagna onde ritirarsi, da domenicano, nel suo convento di Atocha., a Madrid e lì era morto.

Il Concilio IH di Lima aveva trionfato definitivamente ed egli ne potè dichiarare la fine, nell’ottobre del 1583, in un pontificale solenne e tutti resero grazie a Dio. La Chiesa Americana aveva il suo statuto che sarebbe durato tre lunghi secoli.

LE RIFORME

Sarebbe troppo lungo enumerare i tanti scopi raggiunti dal gran Concilio del nostro santo attraverso i suoi 118 decreti di ottima e pratica stesura, con cinque “atti“ pieni di questioni endemiche delle Indie. Sbalordisce il mero compendio dei temi capitali: indottrinamento degli indios, lingua indigena, catechismo trilingue, castigliano, quechua e aimarà (lingua spagnola, degli indigeni peruviani e degli indigeni boliviani ) presenza costante e numerosa del clero, clero indigeno, seminario, Patronato Regio. Niente, però, uguagliò il così chiamato Catechismo di

San Toribio, che fece compilare da padre Acosta in spagnolo, e tradurre poi da due

esperti linguisti nelle lingue dell’impero Inca. Ma in Perù, il più irrequieto dei vicereami spagnoli, non esisteva alcuna tipografìa: un decreto regio proibiva la stampa di qualsiasi libro, per impedire la circolazione di idee rivoluzionarie. Toribio ottenne dal re la revoca di tale legge; chiamò dal Messico il tipografo piemontese Antonio Ricardo e così nel 1584 i catechismi videro la luce e furono i primi libri stampati in America. Era una vera torre di Babele allora, quello che era stato l’impero Inca. Per lui la questione principale fu la lingua indigena come strumento obbligatorio di evangelizzazione, per la qual cosa apprese da solo il quechua, (l’antica lingua degli inca), il guajivo (Messico) e il guajoyo (Quito). Si disse che aveva il dono di apprendere presto le lingue e che “predicava agli indigeni nella loro lingua”. E’ certo che, prima d’imbarcarsi a Sanlucar, lo si vedeva girare con un esemplare di Arte y vocabulario quechua , pubblicato in Valladolid da fra Domingo de Santo Tomàs nel 1564 ad uso dei missionari.

Per facilitare l’evangelizzazione, favorire la vita cristiana e impedire lo sfruttamento degli indigeni, trasformò le “reducciones - doctrinas “ (villaggi di indios convertiti ) in “encomiendas doctrinas” , in villaggi cioè, come entità canoniche e parrocchiali, di numero non superiore ai mille abitanti indigeni, con a capo un ildoctrinero ”, un curato, per loro maggiore efficacia pastorale. Il salario di questi curati avrebbe potuto dare il sospetto di “mercatura illecita”, ma egli lo fece diventare degno e sufficiente prendendolo dai frutti dell’encomienda.

Difese fino al proprio sangue le chiese degli indios, in lotta ininterrotta con i governatori delle province, il tribunale, il viceré, il Consiglio delle Indie e lo stesso re,, tanto che il paesaggio americano si arricchì presto di campanili che segnalavano il cuore del popolo.

Era soprattutto il clero che aveva bisogno di riforme. “Le riforme devono cominciare dalla testa “, diceva Toribio. “Per essere guida del gregge, il vescovo deve essere da esempio di vita e comportamento santo, fuggire lusso e profitti “. Fu stabilito che ogni vescovo costruisse il seminario nella sua diocesi e che i candidati al sacerdozio fossero uomini “di buoni costumi, sufficiente istruzione e conoscenza della lingua della propria terra”. I preti devono indossare l’abito talare, evitare la caccia e ogni tipo di divertimento, continuare a studiare, non fumare né tabaccare prima della messa, non esigere le decime o i tributi dagli indigeni; proibizione assoluta di praticare commerci e qualsiasi forma di simonia. La novità

apportata fu la scomunica automatica legata alla violazione di tali norme poiché - diceva - “le multe comminate dai miei predecessori si potevano eludere; la scomunica, grazie a Dio, è ancora temuta”. Una parte del clero inviò a Madrid e a Roma due delegati per impedire la conferma, almeno delle leggi più severe; Toribio però giocò d’anticipo, inviando padre Acosta dal re e dai dicasteri romani affinché tutti i canoni venissero approvati e così fu.

Promosse la fondazione di un collegio per i figli dei dignitari indigeni, ma la cosa più importante fu la costruzione del seminario, a Lima, che avrebbe portato per sempre il suo nome e che fu il primo frutto alla Chiesa del decreto tridentino sui seminari per l’abbondanza delle vocazioni indigene. Ebbe il tempo, con tutte le persecuzioni da parte dei poteri civili ed ecclesiastici che aveva patito durante il Concilio, di scrivere un libro per l’organizzazione delle visite canoniche, personali dei vescovi e dei visitatori nell’immenso territorio: “Instrucciòn para

visitadores". Gli amati indios furono sempre nel suo cuore più di tutti “I missionari

- diceva - devono occuparsi del bene corporale e spirituale degli indigeni, per cui devono guidarli ad abbandonare i costumi barbari e a vivere civilmente... a non andare in chiesa sudici e malvestiti, ma lavati, acconciati e puliti....che le loro case abbiano tavole per mangiare e letti per dormire....Nelle doctrinas devono organizzare la scuola dove i bambini imparino a leggere e a scrivere....” Si preoccupò perfino di proibire la fabbricazione della “chicha”, bevanda alcolica ottenuta con la fermentazione del granturco, sola o mescolata con la iucca., “per i danni corporali e spirituali che comportano...”

Per aggiornare e completare l’organizzazione della Chiesa Sudamericana, Toribio convocò altri due concili, nel 1591 e nel 1601 ma il Concilo III resterà nei secoli, per antonomasia, come “Il Concilio di San Toribio”.

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