2.1.6 (segue): Golden powers, principi comunitari e investimenti esteri: il tentativo (difficile) di realizzare uno strumento ultra-selettivo d
Capitolo 3 – Corporate Governance e Interesse pubblico nazionale
3.2 I Poteri Speciali e la massimizzazione del valore azionario
Alcuni autori hanno avuto modo di rilevare come l‟utilizzo o la semplice apposizione di clausole che garantiscano l‟esercizio dei poteri speciali da parte dello Stato possa tradursi in un effetto limitativo sul valore delle partecipazioni della società stessa, valore inizialmente condiviso con gli altri soci dallo Stato socio di maggioranza e venditore. Si evince dunque come l‟interesse collettivo possa “limare” la piena massimizzazione del valore delle società e quindi, delle relative partecipazioni(125). Tale questione contrasterebbe pertanto con uno dei principali paradigmi della teoria economica in materia di corporate governance(126), ovverosia l‟idea che la massimizzazione del
(123) Cfr. ROSSI G., (1995), Privatizzazioni e diritto societario, in Le privatizzazioni in Italia, Marchetti P. (a cura di), Milano, pag. 132; SODI J., (1996), Poteri speciali, golden share e false privatizzazioni , in Riv. Soc., pag. 379. Di nuovo si faccia riferimento ad ARDIZZONE L. e VIT ALI M. L., op.cit., pag. 4.
(124) ARDIZZONE L. e VIT ALI M. L., op.cit., pag. 4 (nota 3).
(125) ARDIZZONE L. e VIT ALI M. L., op.cit., pag. 4; JAEGER P., (1995), Privatizzazioni; “Public
Companies”; problemi societari, in Giur. Com. I, p. 6; LAMANDINI M., (2012), Temi e problemi in
materia di contendibilità del controllo, fondi sovrani e investimenti diretti stranieri nei settori strategici tra libera circolazione dei capitali e interesse nazionale , in RDS, pp. 510 e ss.; ALVARO S. e CICCAGLIONI P., (2012), op. cit..
(126) La corporate governance è sinteticamente definibile come quel complesso di regole, ruoli, relazioni e funzioni che legano i soci, le strutture di vertice e gli altri attori aziendali, concorrendo a determinare i caratteri di struttura e di funzionamento delle aziende e in ultima istanza, le performances dell‟impresa. Essa è il risultato di norme e tradizioni, di comportamenti e consuetudini, generati nei singoli sistemi
industriali nell‟ambito delle tradizioni giuridiche e culturali sviluppatesi nell‟ambito dei diversi Paesi. Circostanza, questa, che non ci consente di ricondurre ad una lettura unitaria i diversi modelli di governo societario esistenti. Tali tematiche sono infatti interessate da un vasto fenomeno di path-dependency e sono ampiamente ancorate al tipo di modello di capitalismo in essere in quel determinato Paese (cfr. HOPT K.J., 1999, Common principles of corporate governance, in Corporate governance regimes. Convergence and diversity, Oxford University Press, pp. 175-194). Sotto questo profilo, in particolare, è possibile operare una distinzione ad ampio spettro tra tre macro -modelli individuati dalla letteratura economica. Vale a dire il modello capitalistico anglosassone (meglio detto mark et oriented o outsider
system); quello tedesco-giapponese (detto anche modello di capitalismo “renano” o network oriented, insider system) quello latino (tipico di realtà come quella italiana, francese, spagnola o dei Paesi
dell‟America Latina). Il primo modello, quello c.d anglosassone, si è caratterizzato soprattutto da: a) una diffusione importante delle società aventi struttura azionaria, per lo più nella forma di public companies, e una grande enfasi di conseguenza sul mercato borsistico e finanziario; b) da una rigida normativa antitrust (emblematicamente rappresentata dall‟introduzione nell‟ordinamento giuridico americano dello Sherman
Act, nel 1890, e del Clayton Act, nel 1914); c) una elevata concentrazione verticale delle imprese; d) un
rigido regime di separazione tra banca e industria (negli USA, tale separazione fu particolarmente esasperata nei primi momenti successivi alla “Grande Crisi”, quando nel 1933 venne promosso con il
Glass-Steagall Act la separazione tra attività di gestione del credito ecessione diretta delle partecipazioni dell‟impresa, regime poi ufficialmente abrogato nel 1999 con il Grann-Leach- Billey Act); e) una forte separazione tra proprietà e controllo delle imprese. Di diverso genere è stata invece la via “prussiana” e “giapponese” al capitalismo. In questo sistema era, ed è tutt‟oggi, possibile riscontrare: a) una grande enfasi sulle relazioni tra le imprese (cartelli, accordi, collaborazioni invece che integrazioni verticali); b) banche che entrano a far parte della governance attraverso un sistema di “deleghe”, oltre ad un ruolo, ben evidente nel caso tedesco, delle liste fatte dai piccoli risparmiatori volte a tutelare i piccoli azionisti, non di rado affiancate pure da clausole che limitano al 5 per cento la partecipazione a l capitale dell‟impresa (c.d depotsimmerecht); c) intenso rapporto tra banca e industria (ben visibile sia nel modello giapponese delle k eiretsu, sia, con caratteri differenti, nel ruolo centrale attribuito nel modello tedesco alla figura della hausbank e delle grossbank en investitrici in un gran numero di imprese); c) C.d.A particolarmente “aperti” al confronto tra stakeholders di diversa natura (in Giappone questo accade specificamente in forza di un mero fattore culturale, tanto da farne una prassi diffusa in ambito aziendale; in Germania sono invece tipizzate giuridicamente modelli di configurazione dei sistemi di amministrazione e controllo, come il sistema dualistico, che prevedono la possibilità per le società di capitali tedesche di disporre di un C.d.A bipartito in “Vorstand” (consiglio di sorveglianza) e “Aufsichrat” (consiglio di direzione), nell‟ambito del consiglio di sorveglianza la legge tedesca consente ai dipendenti di nominare dei loro rappresentati pari ad 1/3 dei membri, qualora la società superi i 500 dipendenti, o 1/2 dei membri, qualora la società superi i 200 dipendenti ma non raggiunga i 500; tutto ciò ovviamente fermo restando la possibilità per gli stessi lavoratori di organizzare dei comitati a livello di stabilimento (c.d betriebrate). Il modello latino, si presterebbe invece come una sorta di “medio tipo” tra i modelli sopracitati, possedendo difatti alcuni elementi propri dell‟uno e dell‟altro, fusi tuttavia in maniera singolare (si pensi ad esempio al ruolo strutturale dell‟impresa di piccole-medie dimensioni nel “caso” italiano). Fatta questa premessa, è da ricordare, ad ogni modo, come l‟interesse della letteratura economica, oltre che giuridica, o quella afferente ad altre aree delle scienze sociali (si pensi ad esempio ai contributi della “sociologia economica e delle organizzazioni”; dell‟ “antropologia culturale” e della “geografia economica”) verso i temi relativi al governo societario delle imprese, acquisti di significato solamente a partire dalla metà dell‟800, anno in cui si poté assistere alla nascita delle società a responsabilità limitata. Prima infatti, come riportato nel prezioso saggio di Berle e Means (1932), la limited liability era adottata soltanto in limitati casi “speciali”, come ad esempio per la “Compagnia delle Indie” o per la “Compagnia Baia di Hudson”(BERLE A. e MEANS G., 1932, The modern corporation and private property). Con la diffusione poi delle public companies e l‟accrescimento delle problematiche relative al governo delle imprese, gli studi sulla corporate governance hanno cominciato ad assumere un ruolo sempre più importante nella dottrina aziendale. Ciò soprattutto si è verificato in due specifici momenti: negli anni sessanta e settanta, con lo sviluppo delle “teorie manageriali” e la “teoria per il mercato del controllo societario”, e infine
valore societario coincida con la massimizzazione del valore degli azionisti, in quanto unici soggetti ad essere remunerati in via residuale (127) e gli unici ad essere soggetti ad esproprio da parte del management(128). Questa concezione, divenuta nota nella teoria economica come “teoria della massimizzazione del valore degli azionisti”, si baserebbe per l‟appunto sul presupposto che, in quanto “stakeholders a minor tutela” e in quanto destinatari dei risultati residuali dell‟impresa, la massimizzazione del valore degli azionisti coinciderebbe in toto con la massimizzazione del valore aziendale. O per
più di recente ,a partire dagli anni 90, quando il fallimento di importanti imprese a causa di “scandali finanziari”, la bolla speculativa della new economy e la perdita di fiducia dei risparmiatori, hanno fatto recuperare un vivo interesse verso questi temi, parallelamente allo sviluppo di normative “più severe” (si veda ad esempio la Sarbanes-Oxley Act, negli Stati Uniti d‟America, o la legge 262/2005, in Italia). Sul punto si vedano: ZAT T ONI A., op.cit., pp. 7-44 e pp. 199-260; CADBURY A., (2002), Corporate
Governance and chairmanship – a personal view, Oxford University Press; MARRIS, (1964), Theory of
managerial capitalism; WILLIAMSON O.E., (1963), Managerial discretion and business behavior, in American Economic Review; MANNE H.G., (1965), Mergers and the mark et for corporate control, in
Journal of political economy, pp. 110-120; MACE M.L., (1971), Directors: myth and reality, Harvard Business School Pres s; CONYON M., JUDGE W.Q.e USEEM M., (2011), Corporate Governance and the
2008-2009 financial crisis, in Corporate Governance: an international review, 19(5), pp. 399-404;
BEBCHUK L.A.e ROE M.J., (1999), A theory of path dependence in corporate governance and ownership, in Stanford Law Review, 52, pp. 127-170; LA PORT A R., LOPEZ-DE-SILANES F. e SHLEIFER A., (1999),
Corporate ownership around the world , in Journal of Finance, pp. 471-517; AIROLDI G., (1993), Modelli
di capitalism e modelli di impresa: schemi per l’analisi comparata, in Economia & Management, n. 2,
pp. 64-79; HOPT K.J., KANDA H., ROE M.J., WYMEERSCH E. e PRIGGE S.(a cura di), (1998), Comparative
corporate governance, Oxford University Press.
(127) Gli azionisti infatti percepiscono ciò che residua dell‟utile aziendale una volta ricoperti tutti i costi derivanti dagli impegni contrattuali assunti con gli altri stak eholders (lavoratori, fornitori, etc.). Ciò accade perché gli azionisti sono gli unici soggetti legati all‟impresa da un interesse extracontrattuale, la loro posizione, lo ricordiamo, differisce pure da quella degli obbligazionisti, i quali essendo titolari di un credito rispetto alla società hanno in ogni caso diritto di essere soddisfatt i prima degli azionisti. Pertanto dal punto di vista contrattuale gli azionisti non hanno alcun diritto in quanto ciò che percepiscono è semplicemente un dividendo, ovvero quel valore economico atto a remunerare il rischio dell‟operazione effettuata, ovverosia il conferimento effettuato dal socio-azionista; sia nella forma di capital gain, vale a dire la plusvalenza che si originerebbe nel caso di alienazione delle azioni ad un prezzo superiore a quello di acquisto. Si veda sul punto: ZAT T ONI A., op.cit., pp. 57-78.
(128) Ancora una volta di nuovo la mancanza di tutela derivante da un vincolo contrattuale, differentemente a quanto accade per gli altri stak eholders aziendali, pone gli azionisti in una sostanziale posizione di svantaggio in quanto i loro interes si possono essere potenzialmente lesi, a causa delle asimmetrie informative esistenti, da comportamenti dei manager più diretti a soddisfare i propri interessi piuttosto che quelli sociali. La dottrina aziendale ha individuato una serie di situazioni tipic he in cui viene a realizzarsi una lesione agli interessi degli azionisti a causa di comportamenti opportunistici del
management aziendale. Tra questi ricordiamo: a) la sottrazione di risorse aziendali (c.d rent extraction ,
ad esempio dovuto al fatto che il manager vende beni aziendali ad un prezzo inferiore a quello di mercato a società controllate, in questo caso si parla più propriamente di self-dealing transaction e ne rappresenta un caso emblematico la vicenda Parmalat-Lactalis); b) l‟acquisto di beni ad uso personale; c) l‟investimenti volti ad aumentare la dimensione aziendale e il proprio prestigio (c.d empire bulding; dove l‟operazione volta ad incrementare la dimensione aziendale è svolta in un momento inadeguato, oppure senza le adeguate valutazioni due diligence); d) la realizzazione di investimenti che vincolano l‟azienda a particolari competenze del management (c.d entrechment). Cfr. DYCK A., ZINGALES L., Private benefits
of control: an international comparison , in Journal of Finance, 59(2), pp. 537-600; NENOVA T., The value
of corporate voting rights and control: a cross-country analysis, in Journal of Financial Economics,
68(3), pp. 325-351. Per un quadro sintetico del tema si faccia invece riferimento a: ZAT T ONI A., op.cit., pp. 61-64.
meglio dire, qualora il management fosse incentivato e motivato in maniera esclusiva verso l‟obiettivo di massimizzare il prezzo delle azioni, si realizzerebbe un beneficio a vantaggio di tutti gli stakeholders aziendali. L‟adesione ad una tale impostazione teorica impone tuttavia di operare entro una serie di “assunzioni”, assai difficilmente rinvenibili nel normale funzionamento dell‟economia. Sarebbe indispensabile, anzitutto, presumere l‟esistenza di “mercati finanziari efficienti”(129
),ovverosia una struttura di mercato caratterizzata da informazione perfetta e dal presupposto che il prezzo delle azioni rappresenti la migliore misura per quantificare il valore creato dagli azionisti . Data questa prima ipotesi, sarebbe così possibile attribuire al management, con lo scopo di disciplinarlo, l‟obiettivo di massimizzare il capitale azionario, in modo tale da incentivarlo a perseguire una sola misura di performance orientata al futuro. L‟affermazione di cui sopra si fonderebbe sul presupposto che la direzione aziendale sia meglio motivata nel perseguire con determinazione un unico obiettivo, in quanto l‟attribuzione di obiettivi eterogenei le consentirebbe di evitare qualsiasi forma di responsabilità. Non solo; la massimizzazione del valore azionario, differentemente da altri indicatori, quali ad esempio la massimizzazione della redditività del capitale netto, avrebbe pure il pregio di essere semplice da applicare e difficile da manipolare. Ne seguirebbe così la possibilità di realizzare “piani di incentivazione azionaria” (nella forma di stock options o stock grants) per managers e amministratori, con il presupposto che, divenuti loro stessi azionisti, sarebbero motivati a massimizzare il valore dei titoli in quanto, secondo una prospettiva squisitamente di behavorial
economics, essa coinciderebbe con il loro interesse individuale. A queste ipotesi ora
richiamate, un‟ulteriore assunzione su cui si poggerebbe la “teoria della massimizzazione del valore degli azionisti” sarebbe quella di presumere una situazione di “mercato per il controllo societario” efficiente.
Ciò nonostante, alla luce dei più recenti contributi teorici sulla materia, la teoria della creazione di valore degli azionisti appare superata dalla più completa “teoria degli
stakeholders” che sembrerebbe meglio spiegare la ragione per cui, in non pochi casi, le
(129) Si tenga presente, per completezza informativa, che la “Teoria dei Mercati dei Capitali Efficienti” ha avuto, nel corso della sua trattazione, diverse formulazioni: a) la forma debole, secondo cui i prezzi passati non contengono informazioni utili ai fini della previsione dell‟andamento dei prezzi futuri; b) la
forma quasi-forte, che ritiene che nemmeno le informazioni pubbliche possano essere utilizzate per
prevedere i prezzi futuri; c) la forma forte, secondo cui neppure le informazioni private possono essere usate per prevedere mutamenti dei prezzi futuri. In presenza di mercati dei capitali efficienti in senso forte, la massimizzazione del valore dell‟impresa equivarrebbe alla massimizzazione del capitale azionario (cfr. ZAT T ONI A., op.cit., pag 60, punto 2).
azioni manageriali non siano direttamente finalizzate alla creazione di un vantaggio per gli azionisti, ma piuttosto ad un beneficio diffuso (c.d social benefit) verso tutta quella categoria di soggetti, più o meno ampia, che spesso, pur non essendo direttamente coinvolta nella gestione, è in grado di influenzare ampiamente le performances e gli equilibri economici a valere nel tempo funzionali alla sopravvivenza stessa della società(130). La Teoria degli Stakeholders, in particolare, pur condividendo la medesima concezione di impresa come nesso delle relazioni contrattuali che in esse convergono, rigetta tutte quelle assunzioni e ipotesi implicite su cui si fonda la Shareholder
Theory(131), confutandole con una serie di asserzioni sia di natura teoretica, sia di natura esplicitamente empirica. Si ritiene infatti, seguendo questa impostazione, che la massimizzazione del valore degli azionisti non conduca in automatico alla massimizzazione del valore dell‟impresa, che difficilmente esistano evidenze empiriche atte a supportare l‟esistenza di un mercato dei capitali in forma forte, ciò anche in ragione del fatto che i mercati utilizzano prevalentemente informazioni pubbliche, le quali riflettono più il tentativo di incrementare la performance di breve periodo piuttosto che quella di lungo. Si noti poi, seguendo sempre questa impostazione, che ben pochi sono i casi in cui è riscontrabile l‟evidenza che vuole l‟esistenza di una correlazione tra l‟obiettivo di massimizzare il valore azionario e la conseguente disciplina del management; non rari sono i casi in cui, in assenza di un mercato efficiente dei capitali, il valore di mercato delle azioni rifletta il valore reale del titolo,
(130) “Il caso Royal Dutch Shell” è emblematico della fallibilità, o quantomeno della non completa esaustività della teoria di creazione del valore degli azionisti. Nel 1995 si verificò su una piattaforma petrolifera a largo delle coste della Nigeria una problematica che ne rese necessaria la sua eliminazione. Idealmente la scelta più opportuna, e anche quella più rispettosa dell‟ambiente (sebbene la più costosa), sarebbe stata quella dello smantellamento. Tuttavia la scelta del management ricadrà sull‟opzione, assai più economica ma anche più invasiva, di affondare la piattaforma nel mare attraverso l‟utilizzo di esplosivo. Nonostante le pressioni di attivisti del settore ambientale, in primis Green Peace, l‟azienda supportò fervidamente la sua scelta affermando che si sarebbe trattata, d al canto suo, di quella economicamente più vantaggiosa (per gli azionisti). Da questo momento in poi l‟azienda anglo -olandese si porrà al centro di una serie di accese critiche da parte della Comunità Internazionale, in particolare per il fatto di non aver sostenuto un gruppo di attivisti nigeriani che sostenevano una critica nei confronti delle multinazionali e sui quali pendeva, proprio per la suddetta ragione, una condanna a morte da parte del Governo nigeriano. L‟azienda promosse quindi, dopo poco, spin ta dalle pesanti accuse a cui era sottoposta, una ricerca di mercato che consentisse di comprendere il livello reputazionale a lei riferibile. I risultati particolarmente negativi fecero comprendere all‟azienda la necessità di “tener conto” non soltanto delle esigenze del gruppo degli azionisti, ma, più in generale, di tutti quei soggetti portatori di un interesse specifico verso l‟impresa. Per tali ragioni Royal Dutch Shell decise di smantellare la piattaforma petrolifera (piuttosto che affondarla), con la consapevolezza che in questo modo sarebbero stati tutelati anche gli interessi degli azionisti, purché in una prospettiva di medio -lungo periodo.
(131) ZAT T ONI A., op.cit., pp. 90-93; CHARREAUX G. e DESBRIERES P., (2001), Corporate Governance:
stak eholders value versus shareholder value, in Journal of Management and Governance, 5(2), pp. 107-
128; CLARK R.C., (1985), Agency costs versus fiduciary duties, in Pratt J.e Zeckhauser R. (a cura di), Principals and agents: the structure of business, in Harvard Business School, Boston.
ciò può accadere nel medio-lungo termine, ma quasi mai si verifica nel breve. Inoltre diversi eventi piuttosto recenti hanno dimostrato come i top manager siano in grado di manipolare il prezzo delle azioni rilasciando al mercato informazioni selettivamente selezionate, se non addirittura false. In conseguenza di ciò appaiono altresì fallibili pure tutti quei tentativi volti a creare un collegamento tra il valore delle azioni e la retribuzione percepita dal management(132). Sulla base delle osservazioni finora fatte è divenuta dunque prassi oramai consolidata nelle imprese quella di bilanciare e mantenere in equilibrio i vari interessi che convergono verso l‟impresa, avendo cura di non focalizzarsi esclusivamente su quelli promananti dal gruppo degli azionisti. Per usare le parole di Freeman(133), è necessario pertanto gestire la relazione con gli
stakeholders aziendali lungo tre diversi livelli: a) il livello razionale, in cui deve
comprendere chi sono i portatori di interesse e quali siano le aspettative verso l‟impresa; b) il livello di processo, in cui deve analizzare i processi aziendali utilizzati per interagire esplicitamente o implicitamente con i vari stakeholders e valutare la loro coerenza rispetto alle attese dei portatori di interessi; c) il livello transazionale, in cui analizzare sia le modalità di interazione che l‟impresa adotta con i propri stakeholder, sia la loro coerenza con quanto espresso nelle precedenti fasi di analisi(134). Numerosi casi aziendali (si veda a titolo esemplificativo quello relativo alla Royal-Dutch Shell riportato in nota(135)) hanno contribuito a dimostrare come il perseguimento di interessi diversi da quelli degli azionisti, talora frutto di specifiche normative di derivazione pubblica (e.g tutela dell‟ambiente, sicurezza nei luoghi di lavoro, parità di genere, etc.), possa nel breve periodo determinare una minorazione del vantaggio conseguibile dagli stessi, ma si tradurrebbe, sovente, in una condizione di maggiore efficienza ed efficacia economica nel lungo termine, tale per cui anche gli stessi azionisti ne potrebbero ricevere beneficio. Si potrebbe così osservare che lo Stato e l‟ambiente istituzionale in generale, quali stakeholders aziendali, con la loro normativa contribuirebbero a creare un contesto entro cui le imprese, per poter continuare ad essere legittimate, sono spinte ad adeguarsi e conformarsi (c.d isomorfismo organizzativo) con il risultato di adattare e
(132) Agli elementi fin qui ricordati va poi aggiunto che la Teoria degli Stakeholders rigetta, o quanto meno mitiga, anche altre due assunzioni relative alla teoria di creazione del valore per gli azionisti: la convinzione sul contributo delle scalate ostili alla creazione del valore azionario e il ruolo fondamentale del diritto societario nell‟assecondare una posizione di “maggior tutela” degli azionisti sulle vicende economiche dell‟impresa
(133) FREEMAN R.E., (1984), Strategic management – A stak eholder approach, in Pitman Publishing, Boston.
(134) ZAT T ONI A., op.cit., pag. 93. (135) Si veda la nota n. 130.
migliorare continuamente le loro strutture di governance all‟ambiente di riferimento(136) e di conseguenza assicurare gli interessi anche degli stessi shareholders. Tale fatto sembra però non spiegare adeguatamente quale beneficio economico potrebbero ottenere gli azionisti dall‟intervento dello Stato nelle decisioni societarie in virtù del perseguimento di un “interesse pubblico nazionale”, giacché molte di queste società, operando all‟interno di un mercato finanziario internazionale, allargano il loro azionariato, spesso diffuso e frammentato, ad un pubblico che va ben oltre i confini